Lunedì, 29 Gennaio 2018 00:00

De André - Principe libero

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De André – Principe libero

Innanzitutto occorre dire che questa recensione è condizionata da una piccola premessa. La premessa è l’amore forte da parte di chi scrive per Fabrizio De André e le sue canzoni. Sono cresciuta ascoltando le poesie musicali del cantautore genovese. Fin da piccola, mio padre metteva i trentatré giri di Faber e la bambina che ero richiedeva a gran voce le canzoni più “orecchiabili” come La città vecchia, Il pescatore, Volta la carta… pur non comprendendone bene il significato profondo.

Solo alle medie, e soprattutto dal ginnasio in poi, riascoltando con una maturità e una consapevolezza maggiori quelle e soprattutto altre canzoni di De André, ho scoperto e amato la tragica bellezza, il senso vero e complesso, la  struggente e a volte cruda e amara umanità che si celavano in quelle ballate che sono delle vere e proprie poesie. Oltre però ad amare testi e musica è come se a livello di semi-inconscio avvertissi De André come una persona cara, come se lo conoscessi o lo avessi fin da sempre conosciuto. Come quando si avverte un’affinità elettiva. Un’affinità di anima, una comunanza di sentire. Come se lo avvertissi così vicino da provarne quasi la mancanza per la sua reale e fattiva assenza. E questa cosa probabilmente alquanto assurda mi porta a commuovermi e a riempirmi di brividi ogni volta che vedo una sua intervista, un suo concerto, ogni volta che ascolto alcune delle sue canzoni, che mi fanno tremare e quasi piangere. Come se dentro di me avvenisse una dolce catastrofe, come se a pervadermi fosse un senso di perdita e di nostalgia irrimediabili e impossibili, considerato che io, Faber, non l’ho mai conosciuto, se non, come molti di noi, attraverso la sua musica. In realtà so che esiste un’enorme schiera di “deandreiani” sfegatati e che forse provano le stesse sensazioni sopra descritte, quindi so che la premessa appena fatta risulterà ai più scontata e banale. Ad ogni modo per me è abbastanza difficile poter parlare o scrivere di qualcosa che riguarda questo cantautore con obiettività e neutralità.

De André - Principe libero”, diretto da Luca Facchini, interpretato da un ottimo Luca Marinelli e prodotto da Rai Fiction è uscito come film-evento nelle date del 23 e del 24 gennaio, in attesa di venire trasmesso sulla Rai diviso in due puntate, il 13 e il 14 febbraio. Nel cast anche Valentina Bellè, nel ruolo di Dori Ghezzi, Ennio Fantastichini, in quello del padre di De André, Elena Radonicich nei panni della prima moglie Enrica Rignon – detta “Puny” –  e un convincente Gianluca Gobbi nelle vesti di Paolo Villaggio.

È un film-fiume di quattro ore che abbraccia un enorme arco di tempo che va dall’adolescenza di De André fino alla sua prima vecchiaia. Il titolo, oltre a rappresentare al meglio la personalità del cantautore, si rifà alla scritta che compare nella busta interna del disco Nuvole in cui si legge una frase del corsaro – in realtà pirata, non avendo mai avuto alcuna lettera di “corsa”– Peter Bellamy, morto nella seconda metà del ‘700 dopo aver dato vita a una sorta di Repubblica Libertaria in un isolotto dell’oceano Atlantico: “io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare”. Come Fabrizio, anche il pirata Bellamy ce l’aveva con gli sfruttatori e i poteri forti, tant’è che sottoponeva i proprietari delle navi che rubava (senza mai uccidere nessuno) a lunghe digressioni moralistiche su quanto fossero degli uomini pavidi alla mercé di “immondi sfruttatori”.

Il lungometraggio inizia con uno degli episodi più drammatici della vita del cantautore e della seconda moglie Dori Ghezzi: mi riferisco chiaramente al rapimento da parte di due briganti sardi nella tenuta de l’Agnata – dove la coppia si era trasferita definitivamente dal 1976 –  nelle campagne di Tempio Pausania, in Gallura, fatto che ispirò la canzone Hotel Supramonte. Proprio nel momento in cui si vedono i Fabrizio e Dori salire sulla macchina dei rapitori, si apre un’ampia digressione che ripercorre le tappe principali della vita del cantautore.

Le scene dell’adolescenza, raccontano, seppure brevemente, alcune delle esperienze che hanno segnato la personalità di De André e anche molte delle sue scelte artistiche.

L’educazione in un collegio cattolico in cui compare un primo barlume di cristianità anticonformista, tutta rivolta al lato umano e non divino della figura di Gesù, considerato, come dirà più avanti lo stesso Faber “un anarchico con un profondo amore per l’umanità”. Il rapporto conflittuale con il padre, figura per il figlio troppo ingombrante e percepita invadente nelle proprie scelte di vita, a cominciare dalle detestate lezioni di violino abbandonate ben presto a favore della più amata chitarra, strumento regalato a Fabrizio proprio dal padre, vista l’inconcludenza con l'altro strumento.

L’attaccamento alla Genova dei sobborghi e dei bordelli, cui De André si avvicina fin dalla giovane età, entrando così subito in contatto con la realtà degli ultimi e degli emarginati.

Nella prima ora di film viene mostrata tutta l’incertezza e l’irrequietezza del giovane De André che si sente di percorrere binari da lui non scelti e a cui non sente di appartenere, come l’iscrizione alla facoltà di giurisprudenza voluta dal padre per seguire le orme del fratello Mauro o l’atmosfera perbenista e borghese della propria famiglia. Uniche evasioni da contesti troppo rigidi sono le fughe nei bordelli, il consumo iperbolico di alcol e sigarette e ovviamente la musica e la scrittura, cui si approccia attraverso le canzoni di Georges Brassens e le poesie di Arthur Rimbaud. Queste ultime raccontano per lo più proprio gli ambienti e i personaggio che si muovono lontani dagli occhi della “gente per bene” e rappresentano per De Andrè quella fame di libertà così ardentemente desiderata e che caratterizzerà sempre, nel bene e nel male, la persona del cantautore.

L’amico Paolo Villaggio, rendendosi subito conto del genio di Fabrizio lo introduce nel mondo dello spettacolo e da lì verrà notato dai produttori che permetteranno l’incisione del primo disco. Ma prima di diventare davvero qualcuno De André trascorrerà dei momenti fondamentali: l’incontro con Luigi Tenco, uno dei maggiori ispiratori della poetica di Faber che sarà poi profondamente segnata dal suicidio del caro amico, a cui dedicherà la struggente Preghiera in gennaio; la nascita inaspettata del primo figlio Cristiano avuto con la compagna e poi futura moglie “Puny”, evento a cui Fabrizio farà inizialmente buon viso a cattivo gioco ma che poi rivelerà un De André impreparato a ricoprire il ruolo di padre, vissuto, insieme alla vita coniugale e al lavoro come vice preside in un istituto tecnico di proprietà del padre, come l’ennesimo elemento volto a ingabbiare la propria esigenza di libertà.

Tutto questo verrà travolto dall’impetuoso successo ottenuto cui dà il via La canzone di Marinella interpretata dalla bellissima voce di Mina. Sempre fuori casa la notte e il giorno tutto intento a scrivere febbrilmente un brano dopo l’altro, con la sigaretta in bocca e il bicchiere sempre pieno, De André si allontana dal mondo familiare che accetta e si adatta passivamente alla sua assenza. L’insicurezza e l’irrequietudine di Faber non aiutano, soprattutto in quella fase della carriera in cui occorre salire sul palco e trovare il coraggio di cantare per soddisfare le richieste del pubblico. Quello dello spettacolo è un mondo che De André non ha mai amato, né le sue lusinghe, né i suoi compromessi, preferendo di gran lunga la vita del poeta schivo anziché quella dello “show-man”. Paradossalmente è proprio in questo mondo detestato che incontra il più grande amore della sua vita, l’allora cantante Dori Ghezzi, per la quale, dopo una storia clandestina piena di passione, troverà la forza di lasciare la moglie e trasferirsi con Dori in Sardegna. Qui si rifarà una nuova vita a contatto con la natura rurale e selvaggia della campagna sarda, dove nascerà anche la sua seconda figlia Luisa Vittoria detta “Luvi”. La quotidinità bucolica della coppia viene bruscamente interrotta dal rapimento che chiude la lunga digressione e su cui il regista si sofferma ampiamente con immagini che lasciano trasparire tutta la tensione di quei momenti sospesi tra gli aspri paesaggi rocciosi della Gallura. Anche in questa vicenda il padre avrà un ruolo predominante nella gestione delle trattative con i rapitori e il pagamento del riscatto. Dopo tre mesi di isolamento forzato, Fabrizio e Dori vengono liberati e ritornano a casa illesi. De André non spenderà mai parole di condanna per i suoi rapitori.

Il film ha sicuramente diversi pregi, a cominciare dalle interpretazioni, in particolare quella di Luca Marinelli che, nonostante la leggermente fastidiosa inflessione romana, dà vita con sguardo e postura del corpo, a un De André attraversato da tormenti e irrequietudini, da malinconie e da silenzi, da quella tensione che riflette un’urgenza di vita e di libertà mai placata. Di alto livello è anche la fotografia che sa spaziare sapientemente dai labirintici vicoli genovesi alle inquadrature di ampio respiro del panorama della Gallura,passando per frequenti primi piani che lasciano protagonista assoluto la fisicità e l’espressività del De André di Marinelli, anche nelle scene dei concerti, visti prevalentemente dall’ottica del cantautore.

L’approccio fortemente intimista del film, tuttavia se da una parte ha il pregio di aver saputo costruire un personaggio difficile e in preda a conflitti interiori, dall’altra finisce proprio per escludere quasi completamente tutta quella dimensione collettiva, politica e sociale che fin dalle prime letture giovanili – Bakunin, Malatesta per citarne solo due – è stata una componente che ha forgiato profondamente la visione che De Andrè aveva del mondo e che ha riversato con tutta la sua potenza in tantissime indimenticabili canzoni, come la canzone del maggio, parte dell’album tutto politico Storia di un impiegato, solo appena accennata, che viene del tutto decontestualizzata così come decontestualizzate sono molte altre canzoni, il cui uso e abuso è forse eccessivo e talvolta troppo gratuito e svincolato da quel che accade nel film, per quanto per chi scrive sia sempre un piacere ascoltarle.

Il Faber politico è del tutto assente in questo che sempre di più appare come un prodotto pensato esclusivamente per essere una fiction fruibile da un pubblico abituato agli sceneggiati concilianti della rai. Così tutta l’irrequietezza e i tormenti di Fabrizio sono rigettati soltanto entro la sfera dei rapporti interpersonali e familiari e mai legati al contesto politico e sociale che lo circondava. Compare, è vero, sebbene un po’troppo di sfuggita, la passione – nel senso etimologico del termine – per gli ultimi, per coloro che vengono “ripudiati” dalla società borghese, per prostitute e assassini, per fannulloni e drogati, per ladroni e suicidi, per tutti quegli “amici fragili che evaporano in nuvole rosse”. Ma come contraltare non c’è quasi mai accenno al disgusto e al disprezzo che De André provava per l’ipocrisia della “brava gente”, pronta a giudicare e a condannare ma piena di scheletri nell’armadio, alla corruzione dei poteri forti, del “sistema” padronale e soverchiante, al perbenismo e al conformismo borghese, a chi sfrutta e comprime le libertà individuali e costringe la collettività a omologarsi in un’anonima folla che esclude il diverso, emargina colui che a quella folla non può o non vuole appartenere.

Da qui deriva anche e soprattutto l’irrequietezza di Faber, da questo amore commovente e viscerale per un’umanità dimenticata e schiacciata da un mondo sbagliato e feroce, in cui lui stesso non avrebbe mai potuto sentirsi a proprio agio fino in fondo e che ironicamente, con violento sarcasmo o con una durezza agghiacciante, non risparmia nei suoi testi. E da qui la sua libertà, il suo anticonformismo, la sua ansia di fuga e di evasione da un mondo che gli stava troppo stretto, il suo rifugio nella poesia e nella musica, la sua paura del pubblico e la sua ricerca di solitudine “piena”.  Anche quella spiritualità tutta umana che lo ha portato a scrivere uno dei suoi album più toccanti e poetici, “La buona novella”, ispirato ai vangeli apocrifi, non può essere solo trasversale umanitarismo ma è lo specchio di un ideale di giustizia sociale, di un sentimento di rabbia verso i soprusi, di una forte e assoluta voglia di libertà contro tutti gli schemi borghesi.

Raccontare De André senza intercettare questa componente politica che non solo ha segnato la figura del cantautore sul piano artistico, ma che ha contribuito a eleggere Faber come il cantautore militante per eccellenza e riferimento quasi unanime della sinistra, può esser letta come una scelta commerciale in un periodo storico in cui rappresentare biografie di “uomini contro”, persone davvero radicali nella vita e negli ideali può essere scomodo se non vengono “ripuliti”dalla loro visione politica e dalla propria lotta contro il potere costituito.

Il film scadendo, sopratutto dalla seconda parte, in una sorta di sorta di soap opera sentimentale e conciliatoria, sembra far finta di non riconoscere che proprio questo impianto non può rendere assolutamente l’autenticità di De André né tantomeno rendere giustizia a ciò che era e ciò per cui ha combattuto, attraverso la sua musica, le sue parole e attraverso la sua esistenza.

Fingere che la lotta non esista, cancellare la politica – nel senso etimologico del termine –  dal vissuto, suo e nostro, non può farci che dire, scomodando proprio la Canzone del maggio, che per quanto si cerchi e ci si sforzi di sentirci assolti, in realtà siamo e saremo per sempre, tutti quanti, coinvolti.


 Immagine di copertina liberamente ripresa da images.everyeye.it

Ultima modifica il Domenica, 28 Gennaio 2018 16:08
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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