Lunedì, 02 Marzo 2015 00:00

Sulla violenza dei videogiochi, presunta

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Il 22 Dicembre nella sezione “27° Ora” del sito Corriere.it, ovvero il sito de Il Corriere della Sera, forse il più famoso e più antico giornale d’Italia, era ed è possibile leggere una lettera di una madre. Il titolo di questa missiva è Videogiochi che «allenano» alla violenza e io li stavo per regalare a mio figlio. Incuriosito da questo titolo, vado a leggere, prima con poca attenzione e, in seguito, con crescente attenzione.

La signora, pediatra e madre di un figlio di undici anni, inizia con il rapporto di amore verso il proprio ragazzo e come questo amore si trasformi in apprensione per dare al pargolo serenità e felicità. Francesco (questo è il nome del ragazzino) chiede alla madre un videogioco, GTA V. Per chi non conosce il mondo dei videogiochi, è un titolo di culto e molto famoso, tanto che in meno di una settimana è riuscito non solo a recuperare i costi di sviluppo, ma addirittura a doppiare per ben tre volte le spese. In poche parole e con una semplificazione molto terra terra, se il videogioco fosse stato sviluppato con un Euro, gli sviluppatori avrebbero guadagnato 3 Euro subito dopo il lancio del gioco sul mercato. La madre, però, durante un incontro scuola – genitori concernente le dipendenze degli adolescenti, scopre che questo videogioco è violento. Da lì cresce il panico da madre e alla fine non ha comprato il gioco a Francesco, domandandosi (citando per intero) “Ma come possiamo pensare noi genitori di crescere una generazione di ragazzi sani se possono venire a contatto così facilmente con cose di simile nefandezza che persino un adulto ne resta sconvolto?” . 

Nei mesi di Gennaio e Febbraio di quest’anno a rincarare la dose abbiamo anche Repubblica (che ha parlato di una legge ad hoc), mentre le trasmissione Uno Mattina e Striscia la notizia si sono interessate da diversi punti di vista sul tema videogiochi e violenza. In particolare la trasmissione della rete ammiraglia Rai ha voluto sottolineare come i videogiochi siano alienanti per i consumatori.

Insomma, in poche parole si vuole dare ai videogiochi un ruolo che non hanno.

Ora forse attirerò l’ira delle madri e di un nutrito gruppo di femministe, ma sento il bisogno di dire la mia, di rispondere dapprima alla lettera della madre e poi dare consigli a chi, per demerito o semplicemente per noncuranza, non conosce il mondo dei videogiochi.

In quella lettera di Dicembre troviamo le attenzioni che un genitore dovrebbe avere verso la propria creatura. La madre giustamente è attiva nella formazione del proprio figlio. In questa lettera, però, troviamo anche sottointeso un concetto che è antico quanto l’universo videoludico: “I videogiochi rendono violenti”. Questa frase è piena di semplificazioni che giustamente solo persone ignoranti (e non in senso dispregiativo, ma proprio con il significato intrinseco e originale della parola, ovvero il verbo ignorare) in materia possono pronunciare o scrivere. GTA è l’abbreviazione di Grand Theft Auto, ovvero un termine inglese che nella vita comune significa vivere la vita in modo criminale, perché significa proprio ladro di auto. Quindi il videogioco propone, arrivando anche ai limiti della decenza comune o semplicemente percepita, a commettere reati sempre più violenti e efferati. Possiamo interpretare il tutto come una caricatura estrema della società di oggi, non certo un invito alle nuove generazioni a commettere efferatezze.

Il sottoscritto ne ha giocato parecchi di GTA, fin dai tempi in cui la potenza degli elaboratori grafici permettevano solamente una visione e un controllo dall’alto del personaggio. Ora secondo la logica della lettera dovrei essere un rapinatore d’auto, un omicida, un violentatore di prostitute e un torturatore. Invece, dall’età di 18 anni, sono attivo nella vita sociale e politica, lavoro, e scrivo su questo sito. Eppure la frase non lascia mezze soluzioni: se i videogiochi rendono le persone violente, non si spiega questa mia propensione alla vita normale. Allora questo luogo comune (perché è su questo che stiamo discutendo: su un luogo comune), forse, è solo un mezzo per alzare le mani di fronte alle proprie responsabilità, perché nella realtà i videogiochi fanno male solamente alle persone che psicologicamente sono labili, che si fanno influenzare in maniera pesante da tutto ciò che circonda loro.

Significativo che l’associazione tra violenza e videogiochi ritorni ciclicamente nella bocca dell’opinione pubblica. È successo anche dopo la ormai tristemente famosa strage di Columbine: i due ragazzi erano patiti giocatori di Doom. Da quella strage, sono state molte le ricerche universitarie che cercano di capire la connessione tra videogames e violenza. I risultati si dividono a seconda del campo di ricerca, ma in linea generale e senza addentrarci troppo troviamo due filoni: un campo di ricerca che non solo non conferma la connessione tra atti violenti e videogiochi, ma in larga parte ha affermato come in realtà i videogiochi possono aiutare sotto vari aspetti la società di oggi. Dall’altra parte, soprattutto in campo di psicologia infantile, troviamo un campo di detrattori che, comunque, non è riuscita a comprendere come evitare le devianze che nei loro scritti vengono descritti come conseguenza del medium videoludico ( al massimo, consigliano un utilizzo non assiduo, ndr).

La pediatra madre scrive: “non si può impedire il contatto ma si deve rendere capaci i ragazzi di gestire le insidie”. La risposta della Signora a questa sua “concessione” al figlio è vietare al ragazzino di capire la differenza tra bene e male? Vietare al figlio di fare questa esperienza? Intendiamoci subito: la sempre più potente elaborazione grafica permette una maggiore presa sull’utente videoludico ed è quindi logico preoccuparsi sulla reazioni, ma la risposta non può e non deve essere proibire, censurare, vietare.

La prima e giusta risposta non è, invece, aiutare a comprendere alle giovani generazioni cosa è giusto e cosa è sbagliato? Non è anche questa una caratteristica che un genitore deve avere? Ma, supponiamo di dire: sì, effettivamente, bisogna proibire. Giustamente una madre, come la madre della lettera, si chiede come è possibile  crescere una generazione di ragazzi sani se possono venire a contatto così facilmente a nefandezze. Forse la Signora dovrebbe crescere il figlio senza tv, senza film, senza fumetti, senza musica. Perché in ogni campo possiamo trovare “nefandezze”. Mostrerò solamente due esempi: in TV, mentre nel mondo si discuteva e si approfondiva il disgelo tra Stati Uniti e Cuba, la tv italiana discuteva, con particolare dovizia di dettagli sulle modalità, sui delitti di Garlasco e del bambino ucciso dalla madre in Sicilia. Nel cinema, tempo fa, è uscito il film di Lans Von Trier che parla di una ninfomane dal titolo Nymphomaniac. Seguendo la logica della lettera del Corriere, i genitori devono vietare la visione ai figli. Giustissimo: sono argomenti per adulti, formati e consci.

Ebbene, anche i videogiochi non sono per tutti. Ci sono i videogiochi per i bambini, i videogiochi per adolescenti e i videogiochi per adulti. Ad aiutare i consumatori nella scelta, esiste una classificazione in tema di videogiochi chiamata PEGI. PEGI è la sigla di Pan European Game Information. Sostenuto dall’Unione Europea e utilizzato in tutta Europa, essa classifica in base all’età un videogioco ed è un sistema utilizzato per etichettare quali contenuti sono più adatti per chi li compra. Quindi forniscono indicazioni ai consumatori (in particolare ai genitori) e li aiutano a decidere se acquistare o meno un particolare prodotto. Questa classificazione non solo indica una fascia d’età, ma per completezza e con disegni grafici molto espliciti indica anche quanto il contenuto è esplicito: una mano chiusa indica violenza, un asterisco indica linguaggio scurile e così per altre sottocategorie. Se un gioco non ottiene nessuna sottocategoria, il videogioco viene segnato con la sigla PEGI OK. A partire da questa breve descrizione, bisogna però fare presente che la stragrande maggioranza dei genitori non accompagna il figlio né nella esperienza con il mezzo né durante l’acquisto. Facendo una semplice catena temporale: il figlio chiede il gioco, il padre o la madre lasciano i soldi al figlio e il figlio da solo compra. Forse c’è bisogno di responsabilizzare i genitori, ricordandogli che il videogioco di per sé non è un “giochino”, ma una esperienza interattiva innanzitutto. Se fatta insieme, aumenta la relazione tra figli e padri con il divertimento e aiutando il figlio a capire cosa sta facendo con il controller in mano.

In conclusione, vorrei ricordare come dopo l’invenzione dei telefoni i grandi illuminati della società stigmatizzassero lo strumento affermando che avrebbe tenuto in casa perennemente gli utenti. Oggi sappiamo che non è così, visto che con il telefono cellulare possiamo uscire e fare altre cose contemporaneamente. C’è solo da sperare che nei secoli a venire si possano rivalutare positivamente anche i videogiochi.

Immagine liberamente ripresa da graphics8.nytimes.com

Ultima modifica il Domenica, 01 Marzo 2015 14:47
Giuliano Sdanghi

Nato a Roma, ma vivo a Bracciano dall'infanzia. Diplomato ragioniere, sono responsabile di varie realtà associative. Grazie allo studio del francese, i miei interessi si sono ampliati alla Francia, in ogni suo aspetto.

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