A Dieci Mani

A Dieci Mani

Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al "tema della settimana". Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).

A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.

Martedì, 04 Luglio 2017 00:00

Di banche italiane e intervento pubblico

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Di banche italiane e intervento pubblico

Il ministro Padoan dopo averci ripetuto all'infinito quanto il sistema bancario italiano fosse solido si è trovato a dover gestire la risoluzione monster delle banche venete. Tuttavia, molto più interessanti e significative sono le modalità di questa.

Il gigante Banca Intesa si è appropriato al prezzo simbolico di un caffè degli ultimi crediti rimasti di Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Lo Stato – cioè la collettività, noi cittadini in parole povere– si è occupato di liquidare la parte “tossica”. Dunque da un lato lo Stato si è impegnato a coprire la gestione scellerata dei conti delle banche venete intervenendo con una spesa di 5,3 miliardi di euro, con la possibilità di arrivare fino a 17 miliardi, una spesa pro-capite di 300 euro per ripianare i passivi, mentre Banca Intesa si è presa tutti gli attivi.

Martedì, 27 Giugno 2017 00:00

A proposito di ius soli

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A proposito di ius soli

Il testo introduttivo dello ius soli e dello ius culturae è stato approvato dalla Camera il 13 ottobre 2015 e solo in questi giorni viene discusso in Aula al Senato, dopo un totale di quattro anni di lavoro nelle Commissioni delle due Camere.
Lo schema politico ricalca in parte quanto già visto sulla legge Cirinnà: Sinistra Italiana aggiunge i propri voti a quelli della maggioranza di governo; Lega e Fd’I sono agguerritamente contrari; Forza Italia contraria con qualche dissenso; il M5S astenuto nel tentativo di non scontentare il proprio elettorato di destra e di potersi accreditare comunque come forza appetibile per la sinistra.
Il parere della Chiesa cattolica, però, è nettamente diverso: Radio Vaticana ha invitato a un “fronte comune” per approvare la nuova legge di cittadinanza. D’altra parte la confusione agitata dalle forze xenofobe, che mescolano il tema immigrazione con quello cittadinanza, ha nuovamente polarizzato un tema – quello dello ius soli per i nati in Italia – sul quale si era in passato registrato un diffuso accordo popolare.


 Niccolò Bassanello

Con il dibattito scatenato sulle recenti proposte legislative sul cosiddetto “ius soli” (che un vero ius soli, come quello vigente negli Stati Uniti, non sarebbe assolutamente) le destre hanno raggiunto un livello di mistificazione ideologica della realtà veramente impressionante. Una minestra riscaldata di stereotipi tra l'immarcescibile narrazione dei migranti come “invasori” pronti a ghermire l'occasione offerta dalla “cittadinanza regalata” e gli ammiccamenti più o meno espliciti al razzialismo biologistico dei tanti italiani nazifascisti inconsapevoli, il cui timore di una improbabile “contaminazione” dell'italianità ad opera di una altrettanto improbabile superpotenza riproduttiva degli “stranieri” ci parla più di un profondo disagio psichico che di qualunque altra cosa. D'altro canto bisognerebbe anche ricordarsi che le destre xenofobe, avvelenando i pozzi con le loro narrazioni tossiche, fanno semplicemente quello che hanno sempre fatto. Non si deve rimanere al livello della sola denuncia retorica, o dell'appello alla ragione, si deve urgentemente opporre alle fandonie xenofobe una contronarrazione efficace, prima che completino al centro e a sinistra uno sfondamento già in buona parte riuscito.

Dovremmo anche andare in profondità, ed indagare nuovamente i legami che uniscono cittadinanza e comunità politica, privazione dei diritti e privazione della cittadinanza. L'Italia è uno dei Paesi europei a richiedere più anni di residenza legale per ottenere la naturalizzazione; il problema dei minorenni nati in Italia ma non cittadini è ormai noto anche ai disinformati. I non cittadini, anche se legalmente residenti e membri attivi delle nostre comunità da anni, addirittura anche se nati e vissuti da sempre in Italia, vivono intrappolati in una condizione precaria e carente di diritti, eterni “stranieri” da trattare peggio – o, bene che vada, diversamente – dei cittadini a pieno titolo. Si accetta di buon grado che lavorino, magari “a nero” o in condizione di ricattabilità, purché non abbiano accesso alla comunità politica dei cittadini italiani, quindi purché non contino politicamente e non si facciano sentire. In fondo, quindi, coloro che vorrebbero che a questi “stranieri” che stranieri sono solo di nome venisse negata la cittadinanza ed i venditori di fumo grillini e fascioleghisti che li rappresentano, non temono che l'accesso all'uguaglianza formale di una fetta di soggetti subalterni, condizione necessaria di qualunque emancipazione. È questa la banalità del male del “padroni a casa nostra”.


Alex Marsaglia

Quando parliamo di diritto il più delle volte intendiamo le norme che una comunità decide di darsi in seguito a una serie di procedure democratiche fatte di dibattito, deliberazione e decisione. Purtroppo la realtà degli Stati imperialisti è molto lontana da questo idealtipo liberaldemocratico. Vi sono continenti interi confinati in condizioni di povertà e sfruttamento delle risorse dei propri territori da secoli.

Svincolarsi dal sottosviluppo per questi paesi è stato impossibile durante le fasi di crescita e sembra tanto più impossibile ora, quando l'unica strategia rimasta è utilizzare il proprio differenziale salariale per attirare le imprese che delocalizzano. La crescita demografica si unisce così a contesti di povertà cronica. L'unica strategia per chi è colpito da una tale dinamica sembra essere rimasta quella più individualistica: l'emigrazione. Lo vediamo ormai persino in Italia. Come gli Stati decidono di concedere la cittadinanza è un nodo centrale ed è impossibile che chi governa non pensi che questa è una leva fondamentale per indirizzare o meno i flussi. Gli Stati Uniti negli anni venti del grande boom avevano lo ius soli.

L'Italia, che temeva lo spopolamento mantenne lo ius sanguinis, contando di non perdere definitivamente il proprio popolo ampiamente fuoriuscito e incentivando politiche per il ripopolamento. Oggi se è evidente che l'Africa e l'Asia stiano ampiamente strabordando il vero interrogativo sta nel capire cosa faranno i paesi come il nostro in regressione demografica con una popolazione autoctona che torna a emigrare in massa. Restare allo ius sanguinis permette di mantenere un legame con chi fugge da un paese disastrato come il nostro, abbracciare lo ius soli significa salutare il popolo di fuoriusciti per abbracciare definitivamente i cambiamenti che le migrazioni internazionali stanno apportando al tessuto sociale. Ai posteri il bilancio.


Dmitrij Palagi

Quando si parla di migranti e fenomeno migratorio la realtà passa in secondo piano. Secondo Luca Ricolfi la sinistra ha perso e si è distaccata dal popolo perché si ostina a porsi in modo sbagliato con chi subisce le conseguenze della globalizzazione, percependo il degrado delle periferie o dei centri storici, con gli autobus in cui capita di non sentire parlare la propria lingua (per fare un esempio). Negare un sentimento è forse poco sensato da parte di chi pratica una sfera dell'umano basata sul consenso, ma non ci si può rassegnare ad inseguire la totale follia logica delle destre e dei razzisti.

Prendete un bel respiro. Pensate al numero di nuove natalità del vecchio continente, poi date un occhio alle prospettive africane. Consultate i numeri dei flussi dall'altra parte del Mediterraneo, cercate di capire quanta mobilità interna rimane per adesso oltre il mare. Provate ad immaginare le cause. Aggiungeteci una breve curiosità su quanti, arrivando in Italia, desiderino effettivamente rimanere da noi. Poi provate a guardare un bimbo crescere nella nostra scuola, non avere alcun contatto con il paese da cui provengono i suoi genitori, augurandovi che un giorno torni in un posto in cui non è mai stato, magari forzatamente, senza essere reinserito in un nuovo contesto sociale, diventando di fatto apolide.

Lo ius soli nemmeno sappiamo realmente cosa sia, a livello di dibattito diffuso. Val bene un foto a favore (come ha fatto la sinistra di opposizione in Parlamento), anche se è veramente pochissimo rispetto al mare di disinformazione alimentato in quasi tutti gli ambiti. Un lavoro difficile, ma da iniziare prima o poi, anche fuori dalla categoria della solidarietà e della fratellanza.


Jacopo Vannucchi

L’approvazione dello ius soli, unita all’introduzione delle unioni civili, farebbe della Legislatura che si sta per chiudere quella più fruttuosa in tema di riforme dai tempi dei governi Andreotti di solidarietà nazionale, sotto i quali fu istituito il SSN e legalizzata l’interruzione di gravidanza.
La coincidenza della discussione parlamentare con il turno di elezioni amministrative, e comunque a non più di otto mesi dalle consultazioni politiche, vede le destre cercare di cavalcare l’umore xenofobo, confortate da alcuni buoni risultati di CasaPound. In particolare, tra questa e il M5S si è aperta una sfida per contendersi l’elettorato razzista. Da un lato Di Stefano approva la politica anti-migranti adottata dalla Raggi ma dispera della sua riuscita definendo i grillini “comunisti mancati”; dall’altro il partito di Grillo ripercorre l’itinerario del nazismo tedesco eliminando sempre più i contenuti sociali del programma a vantaggio di una visione di sciovinismo etnico.

Si capisce che l’introduzione dello ius soli sia vantaggiosa non soltanto per lo Stato, che potrà pienamente giovarsi dell’apporto lavorativo e previdenziale dei “nuovi italiani”, ma anche per i lavoratori. Con la garanzia della cittadinanza verrebbero sfoltiti i ranghi di un esercito industriale di riserva disposto ad accettare salari e tutele decisamente inferiori a quelli definiti dalla contrattazione collettiva, eliminando quindi la concorrenza lavorativa che, assieme alla criminalità, è il più diffuso timore delle classi popolari riguardo alla presenza di stranieri.

Il riconoscimento civile, da solo, non è in grado di garantire una perfetta integrazione sociale: si pensi agli stragisti di Daesh nel Regno Unito, in Francia, in Belgio, in larga parte nati e cresciuti in quei Paesi. Tuttavia, se è vero ciò che rilevano i sondaggi, cioè che i giudizi sugli stranieri conosciuti personalmente sono assai meno negativi di quelli sugli immigrati come categoria generale, allora l’estensione delle possibilità di frequentazione e interazione tra italiani “vecchi” e “nuovi” può favorire il superamento di divisioni interne alle classi deboli e quindi una maggiore spinta per la piena integrazione sociale di tutti i cittadini.


Alessandro Zabban

Il polverone che si è sollevato sullo ius soli mette ancora una volta in evidenza quanto il tema delle immigrazioni sia polarizzante. Ma sopratutto come sia facile strumentalizzarlo.

Non appena si entra nel merito, è difficile uscire dal vicolo cieco di una discussione che mette una enfasi ingiustificata sul pericolo del terrorismo o sulla paura ancestrale di una fantomatica "sostituzione etnica". Lo ius soli non è per niente un assist allo jihadismo ma semmai il modo più razionale, dal punto di vista dello stato di diritto, per contrastarlo. Di fatto l'obiettivo è concedere la cittadinanza e i diritti e doveri a essa connessi a chi è di fatto già italiano, parla italiano, frequenta la scuola italiana e si sente e percepisce come italiano.

Non si tratta di una riforma rivoluzionaria, bensì di realizzare una forma di ius soli limitato ma funzionale all'integrazione dei giovani di origine straniera che sono già di fatto italiani ma senza un riconoscimento giuridico. Difficilmente con questa legge il nostro paese diventerebbe una calamita per l'immigrazione più di quanto già non lo sia ora perché di solito chi scappa da situazioni belliche, politiche, ambientali, economiche drammatiche ha mille ragioni più pressanti per arrivare in Italia. Inoltre la cittadinanza del figlio immigrato non arriva certo automaticamente, ma solo se sono soddisfatti certi requisiti fra cui il permesso di soggiorno di lunga durata da parte dei genitori che è questa una prospettiva che già di per sé spinge miglia si disperati ad attraversare il Mediterraneo su dei gommoni. Ancora più improbabile è poi voler trovare una correlazione fra terrorismo e ius soli: se uno è intenzionato a commettere un attentato terroristico, lo fa sia che sia cittadino italiano che no: è la mancanza di integrazione che porta al terrorismo, non il passaporto che si ha in tasca.

Chiaramente lo ius soli non è uno strumento perfetto e creerà sicuramente alcune distorsioni, ma in generale non può che essere accolto positivamente.

 

Martedì, 20 Giugno 2017 00:00

Una breve analisi del fenomeno En marche!

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Una breve analisi del fenomeno En marche!

Persino un "disproporzionalista convinto" come D'Alimonte (parole sue) è convinto che il sistema elettorale francese vada rivisto, per un maggiore equilibrio tra "stabilità e diritto alla rappresentanza per le minoranze". Lo scrive sul Sole 24 Ore del 18 giugno 2017, alla vigilia del secondo turno delle legislative d'Oltralpe. 577 seggi, assegnati attraverso altrettante circoscrizioni uninominali maggioritarie. L'astensionismo storico (un record) si accompagna con un sistema completamente saltato, essendo En Marche! un movimento nato nel 2016 che raccoglie, anche in modo confuso, sostegni trasversali (si pensi alla parabola di Manuel Valls, "ridotto" a candidato presidenziale indipendente, dopo i trascorsi socialisti e l'incompatibilità con le regole dell'organizzazione di Macron, che pure accoglie senza imbarazzo ogni supporto). Lo spauracchio del Front National è scomparso dalle narrazioni giornalistiche occidentali, ma il fenomeno lepenista rischia di riproposi rafforzato, registrate le divisioni tra France Insoumise (movimento "podemonista" di Mélenchon) ed il tradizionale Partito Comunista Francese, mentre il Partito Socialista Francese lotta per non fare la fine dei cugini greci.


 Niccolò Bassanello

In circa un anno Macron ed il suo movimento hanno completato una scalata al potere in pieno stile bonapartista (potremmo anche dire populista), completata alle scorse legislative con una autentica inondazione “nuovista” degli scranni parlamentari. In un quadro di scarsissima affluenza, che pare abbia penalizzato soprattutto i lepenisti e la sinistra di France Insoumise, il movimento di Macron ha schiacciato Socialisti e Repubblicani e ha conquistato una maggioranza di ferro.

Proprio l'entità della vittoria di Macron ha fatto discutere. Cercando di mantenere una certa epoché, indispensabile se si vuole davvero comprendere una situazione di cui non si possiede una conoscenza specialistica, ancora una volta non bisogna cadere nelle semplificazioni o negli slogan degli ierofanti del proporzionale. Certamente il doppio turno francese è distorsivo: infatti il PCF è riuscito, con un misero 2,7% di consensi al primo e 1,2% (meno dello 0,6% dei consensi tra gli aventi diritto al voto) al secondo turno, addirittura ad aumentare la propria consistenza parlamentare eleggendo 10 deputati. Non bisogna dimenticarsi mai che un qualunque sistema elettorale è democratico in quanto basato sul suffragio libero e universale (e nel caso della Francia su questo non ci sono dubbi) e sulla applicazione uniforme di regole eque ed espressamente previste; e che il comportamento dell'elettore non prescinde in nessun caso dalla struttura istituzionale e legale nel cui quadro esercita il voto.

Bisogna, a mio parere, piuttosto interrogarsi sul ruolo dei singoli partiti nella democrazia francese e chiedersi come queste forze politiche abbiano affrontato la tornata elettorale. Il Ps è uscito a pezzi dalla presidenza Hollande, e di conseguenza ha subito due dure sconfitte di seguito, alle presidenziali e alle legislative. D'altra parte al governo i socialisti hanno dimostrato di aver rimosso anche le vestigia simboliche degli ideali socialdemocratici e di essersi convertiti completamente al consenso postideologico del riformismo di mercato, nonostante la tardiva leadership gauchiste di Hamon. I Repubblicani sono stati funestati dagli scandali già alle presidenziali; il partito di Fillon, che alle presidenziali si era presentato con un programma “thatcheriano” a base di tagli e privatizzazioni, a queste legislative ha incassato un risultato molto al di sotto delle apettative. Anche se il sistema elettorale fosse stato proporzionale e quindi a Ps e Repubblicani fossero toccati più seggi, che opposizione alle politiche di Macron avrebbero potuto fare due partiti che in gran parte ne condividono l'ideologia di fondo? Il problema sta tutto qui.

Ovviamente il discorso è diverso nel caso di France Insoumise e PCF, ma non meno grave. Un partito che vuole competere nelle istituzioni, che dice di rappresentare la stragrande maggioranza della popolazione, e che alla prova dei fatti non riesce nemmeno a portare i propri elettori alle urne è un partito dal futuro quantomeno incerto.


Alex Marsaglia

L'impressione è che le legislative francesi dicano qualcosa di più, qualcosa che va oltre la natura distorsiva di un sistema elettorale di una Repubblica semi-presidenziale. Per carità questo fenomeno è sotto gli occhi di tutti e dovrebbe sdegnare qualsiasi sincero liberale che un partito controlli il 70% dei seggi col 16% dei consensi. Ma, come detto, c'è qualcosa di più.

Questo qualcosa lo si può serenamente rilevare, se non ci si vuol bendare gli occhi per far finta di non vedere, da un'analisi delle forze politiche più penalizzate dall'astensionismo. Il Front National si è infatti polverizzato e ridotto a terza forza parlamentare non appena il voto è tornato a interessare questioni di secondo ordine. È brutto dirlo, ai liberali potrà non piacere, ma il parlamento eletto in concomitanza con il Presidente in un sistema semi-presidenziale diventa una questione chiaramente secondaria. Parlo ai più sinceri democratici liberali che si indignano per la scarsa coscienza civica delle persone e la loro apatia: tessere le lodi di un sistema che lascia a forze di estrema destra l'unica e ultima capacità di rappresentare le ragioni di un popolo è l'unica cosa peggiore del fascismo.

Questi dati sull'astensionismo, se letti attentamente, ci dicono quanta presa sulla popolazione abbia una forza politica come il Front National. Nel frattempo l'erosione delle istituzioni che garantivano rappresentanza e partecipazione in questa fase postdemocratica declinante sembra riportarci all'Ottocento in cui i parlamenti non venivano eletti dalla totalità della popolazione. Allora per legge era esclusa metà della popolazione, oggi metà della popolazione si autoesclude per scelta politica. A voi le conclusioni sul futuro che i nuovi socialdemocratici di La Republique En Marche stanno preparando.


Dmitrij Palagi

Le orde del popolo minacciano le istituzioni della democrazia rappresentativa europea. Macron riesce a incanalare l'insofferenza verso i partiti tradizionali e salva Parigi, culla di quella rivoluzione borghese tanto cara agli intellettuali della nuova sinistra post-comunista.

Il problema è che il popolo non esiste e non c'è sistema elettorale con il quale si possa risolvere il problema dello svuotamento del politico di fronte all'opinione comune. Tanto è forte il successo di France Insumise che le divisioni a sinistra non mancano, con un PCF che vanta l'aumento dei suoi eletti e pubblicamente (comprensibilmente) rimuove il distacco rispetto al movimento di un ex socialista amato dalla sinistra autoproclamatasi rivoluzionaria (perché indisponibile a dialogare con i socialisti).

Dopo oltre un decennio in cui siamo stati abituati a vedere governi di larghe intese, perché non accettare direttamente un rappresentate che della trasversalità centrodestra-centrosinistra fa un elemento di rinnovamento, rispetto ad un teatro di cui a fatica si coglie ?

Il profilo sociale dei nuovi eletti di En Marche! merita di essere approfondito, così come il tema dell'astensione dovrebbe riguardare chi vuole ragionare di un cambiamento radicato nella società. Il voto francese descrive però il vuoto di ciò che si propone alternativo a questa Unione Europea. Strumentalmente le forze di governo chiedono quali siano le proposte alternative. Per ora nessuno all'interno del continente ha convinto e il riconoscimento di Varoufakis dovrebbe suonare come campanello d'allarme per tutta la sinistra (?) europea, fuori dal PSE.

Quanto vuoto c'è per permettere questa ascesa di Macron?


Jacopo Vannucchi

Il secondo turno ha visto l’elettorato francese mitigare l’ampiezza parlamentare inizialmente preventivata per En Marche!: la maggioranza presidenziale, accreditata dalle ultime simulazioni di fino all’80% dei seggi, ne ha riportato il 60%. A beneficiare di questo parziale riequilibrio sono stati soprattutto il centrodestra e le forze di sinistra radicale, ovvero le più penalizzate dall’astensione nel primo turno. Questa correzione di rotta al ballottaggio non è nuova alla storia politica francese – già nel 2007 la destra ottenne 109 seggi su 110 assegnati al primo turno ma superò di poco gli avversari al secondo.

Nonostante l’ampiezza del mandato parlamentare LREM e MoDem contano solo su un terzo dell’elettorato mobilitato, ovvero circa un sesto dei cittadini elettori. Questa discrepanza pone oggettivamente la questione dell’espressione della volontà popolare, non soltanto per quanto si registra nelle elezioni ma anche per come si svilupperà eventualmente l’opposizione alle politiche di Macron: sarà in grado di trovare adeguata rappresentanza parlamentare o potrà esprimersi solo nella rabbia di strada?

A questo proposito, in attesa di vagliare il comportamento di centrodestra e centrosinistra, che il Presidente ha cercato di cooptare parzialmente nell’esecutivo, si segnala rispetto alle presidenziali la smobilitazione di tutti gli elettorati ad eccezione di quello socialista (e, ovviamente, dei macroniani). Il fenomeno è particolarmente vistoso per le frange radicali, Fn e LFI-Pcf.

Il Fronte nazionale è andato incontro ad un vero e proprio arenamento: stabile al risultato di cinque anni fa (anzi qualcosa in meno, -0,4%), conquista otto rappresentanti, un decimo esatto degli ottanta prefissati come obiettivo prima del ballottaggio presidenziale.

Per quanto riguarda La France insoumise e il Pcf, l’effetto distorsivo dell’uninominale (rispettivamente 17 seggi e 10) maschera l’ampia disparità di consenso, con il movimento di Mélenchon che ottiene quattro volte i consensi dei comunisti. Il Pcf, che seppe distinguere tra il voto tattico a Macron per sbarrare la strada a Le Pen e l’opposizione netta alle politiche dell’ex Ministro dell’Economia, è stato dunque ampiamente surclassato dalla demagogia come accaduto nella vicina Spagna al Pce per mano di Podemos.
Per il Presidente sarà quindi vitale, viste la pericolosità latente della disillusione verso il voto (oltre la metà degli elettori ha disertato le urne) e l’incertezza dell’umore popolare, tener fede al proposito, espresso nel discorso della vittoria il 7 maggio, di recidere le radici sociali del consenso agli “estremisti”.


Alessandro Zabban

I trionfi elettorali di Macron e del suo partito En Marche! fanno della Francia un esempio paradigmatico di quanto ambiguo e problematico sia diventato il concetto di populismo. Nato per descrivere alcune esperienze politiche dell'America Latina, oggi il concetto risulta del tutto stravolto nel suo significato originario perché tende ad essere utilizzato e piegato alle esigenze propagandistiche più disparate e a colorarsi di connotati sempre più dispregiativi.

Esiste nel mondo un sacrosanto malcontento generalizzato per le logiche di funzionamento del sistema economico globale. Chiamare questo malcontento populismo senza distinzioni e analisi nasconde l'intenzione di delegittimare ogni forma di opposizione al neoliberismo. Leggere i movimenti antagonisti e i partiti di alternativa radicale come populisti diventa così uno strumento funzionale alla dominazione delle classi abbienti. Il populismo è piuttosto il prodotto di una sfera politica colonizzata dall'economicismo e che tende a mostrarsi nei panni consumistici di una esibizione sfarzosa e spettacolare ma che in realtà tende a ridursi a una serie di fredde e ciniche tecniche amministrative per la gestione delle transazioni di mercato. Riflesso di una società più individualizzata e narcisistica, alienata e senza riferimenti stabili, il populismo è la politica della fine della storia, ovvero il modo di funzionamento della politica nell'epoca del trionfo del neoliberismo transnazionale.

Nella Francia contemporanea, si sono meritati l'etichetta di populisti tanto i militanti e simpatizzanti del Front National (FN) della Le Pen che anche quelli della France Insoumise (FI) di Melenchon. Se però consideriamo gli elementi fondamentali che a detta di molti esperti caratterizzano un movimento populista, vale a dire il rapporto diretto fra leader ed elettore, l'avversione per il sistema politico visto come distante e corrotto e l'autocollocamento al di fuori della tradizionale distinzione fra destra e sinistra, arriviamo facilmente alla conclusione che En Marche! sia decisamente più populista tanto del FN che della FI. Non solo rappresenta al massimo grado l'idealtipo del partito personalistico e liquido, senza militanti e organizzazione, in diretta concorrenza con gli "obsoleti", "corrotti" e "vetusti" partiti tradizionali, ma si caratterizza anche per una ideologia volutamente vaga e ambigua che richiama parole d'ordine di destra e slogan della sinistra, senza però volersene realmente impossessare: è tutto un gioco di suggestioni ideologiche flessibili e cangianti, aggiustabili a seconda del contesto (il modello postfordista del just in time applicato alla politica).

Se si vuole parlare di populismo occorrerebbe avere la precauzione di considerare il fatto che questo è tanto più temibile quanto più è agito dalle classi dominanti celando la sua vera natura. Alle elezioni francesi non ha vinto la politica in quanto tale, ha vinto chi vorrebbe la politica ridotta a scienza dell'amministrazione travestita da show: elegante, affettata, innocua. Siccome è l'intera sovrastruttura politica populista, riflesso degli attuali rapporti di produzione, ha poco senso etichettare un singolo partito o movimento come populista. Non fa che rendere più confuse le cose per il vantaggio dei soliti. Le categorie novecentesche saranno anche superate e dire che il Front National è fascista potrebbe non essere del tutto esatto, ma è senz'altro più preciso che etichettarlo sotto la categoria di populismo.

Immagine liberamente ripresa da images2.corriereobjects.it.

Martedì, 13 Giugno 2017 00:00

Un commento a caldo sul voto britannico

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A proposito di legge elettorale

Le elezioni in Regno Unito dello scorso 8 giugno hanno sorpreso gran parte dei commentatori. Theresa May, che si era giocata il tutto per tutto scommettendo sul voto anticipato quando i sondaggi davano ai Conservatori un vantaggio di venti punti, ne è uscita chiaramente sconfitta, costretta a sperare negli unionisti del DUP per formare un governo di minoranza.

Il Labour invece, pur nella sconfitta, ha conquistato un buon risultato, smentendo chi considerava Jeremy Corbyn un ineleggibile minoritario. Vista dall'Italia, la politica britannica troppo spesso viene ridotta a una caricatura da letture tendenziose o dal “tifo” politico. Come sempre qui sul Becco, col dieci mani di questa settimana cerchiamo di ragionare alla luce dei fatti.


 Niccolò Bassanello

Prima di tutto, devo ammettere di essermi sbagliato sul conto di Jeremy Corbyn. Ritenevo che Corbyn fosse incapace di unire il Labour e di conquistare voti oltre la cerchia degli elettori di sinistra più o meno radicale, e invece le elezioni dello scorso 8 giugno hanno provato che mi sbagliavo completamente. Il Labour, pur perdendo, ha portato a casa un ottimo risultato, strappando diversi seggi ai Conservatori e consolidando la già forte dominanza nelle grandi città, ma soprattutto è riuscito a pescare dall'astensione, specie giovanile. Le cause generali di questa buona prestazione e della contestuale bruciante “quasi-sconfitta” dei Conservatori sono analizzate molto bene in diversi articoli reperibili online, che invito a cercare per approfondimenti. Mi interessa infatti concentrarmi su altro.

Sul piano dell'unità del partito Corbyn si è mosso bene, evitando di ingaggiare una battaglia insensata ed autolesionistica per sostituire parlamentari veterani appartenenti alle tendenze interne moderate con fedelissimi inesperti. “Moderati” di primo piano come Chuka Umunna, Yvette Cooper e Liz Kendall sono stati candidati e hanno vinto il rispettivo collegio, e nei giorni che ci separano da giovedì Corbyn ha addirittura proposto di allargare il Goveno Ombra aprendo ai suoi ex critici. D'altronde, se i mal di pancia interni non sono stati del tutto esorcizzati dal buonsenso, il successo elettorale può sicuramente accontentare anche i più critici.

Corbyn ha portato avanti un'ottima campagna elettorale, presentandosi in modo sempre molto simpatetico e sobrio. Soprattutto, si è potuto presentare forte di un Manifesto sicuramente radicale ma anche profondamente di buonsenso, vale a dire mediato con la realtà. Abolire le tasse universitarie (For the many not the few, p. 43), eliminare gli zero hour contracts, ridare peso ai sindacati (pp. 47-48), costruire nuove case popolari per tutti (pp. 60-64), tutte proposte realistiche e chiaramente in grado di migliorare la vita delle persone, che diventano giustamente esempi da seguire per le sinistre europee. Ingiustamente sotto silenzio tra la sinistra non britannica passano invece altri punti del Manifesto laburista, come un approccio duro con il crimine, 10.000 poliziotti in più (pp. 76-77) e 3.000 nuovi secondini (p. 82), una riforma della giustizia penale affinché in carcere non finiscano soprattutto persone con problemi mentali o di dipendenza, o ancora il rinforzo delle capacità militari britanniche messe a dura prova dai tagli tory (pp. 120-121): proposte sensate in un mondo difficile e pericoloso come il nostro, che hanno il pregio di rispondere in modo razionale alle paure dei cittadini e di costituire una mediazione in positivo con tutta la società. Il fatto che non vengano mai citate dai nostrani corbynisti della prima o dell'ultima ora forse spiega in parte come mai, a differenza del Labour di Corbyn – che gode indubbiamente di buona salute – la sinistra italiana resti minoritaria e moribonda.


Alex Marsaglia

Le elezioni britanniche si inseriscono sulla falsariga delle ultime elezioni in Francia, Olanda e Austria. Si sta assistendo ad una rimonta dei partiti socialdemocratici nel loro nuovismo postdemocratico. Così c'è chi ammanta questa restaurazione di partiti di governo con l'ecologia e chi insiste più sull'equità. Nei fatti siamo di fronte a un'inversione di rotta. I principali paesi europei nordici stanno dando adito ai dubbi sull'uscita dall'Unione e, a distanza di un anno della Brexit, anche la Gran Bretagna inizia ad avere pesanti ripensamenti in merito.

Immotivatamente, perché i risultati economici vedono il Regno Unito come il primo paese per crescita della produzione tra le economie avanzate nel 2016. Ma d'altra parte stiamo parlando della prevalenza, nell'ambito della vecchia politica di governo, di una retorica rivolta a rinnovare tematiche classiche: su tutte l'equità liberale. Il Labour di Jeremy Corbyn ha riscosso grandi consensi su tematiche quali i tagli alla polizia con il problema del terrorismo, la riduzione delle tasse e il multiculturalismo. Un programma socialista dovrebbe prevedere ben altro, ma siamo di fronte al ritorno dei partiti socialdemocratici in nuove vesti. Falliti il Pasok e il Partito Socialista Francese la necessità di rilanciare una politica riformista nel vecchio continente è sempre più forte e farlo in un paese che si stava allontanando dall'unità politica con esso è ancor più importante. E in Gran Bretagna questa novità, a differenza del caso francese, non si percepisce nemmeno tanto visto che si sta pur sempre parlando del Labour e di un leader organico a quel partito da un trentennio. Eppure c'è davvero chi esulta davanti alla rimonta del Labour neanche fosse l'ultimo argine rimasto alla crisi sistemica in cui siamo immersi.


Dmitrij Palagi

La Gran Bretagna è una realtà complessa, in cui convivono i reazionari protestanti nord-irlandesi e la conservatrice paladina dei diritti civili scozzese. Troppo spesso pensiamo all'Inghilterra come ad un paese europeo tra gli altri, dimenticando la dimensione di un impero mai realmente integratosi con il continente.

Impressionante è la ricerca della conferma oltre il confine di modelli di lettura capaci di giustificare la tattica più di corto respiro da praticare nell'immediato presente. Corbyn ha certamente qualcosa in comune con Sanders e l'affermarsi delle nuove stelle della sinistra europea, certamente più radicale di quella di Clinton-Blair-D'Alema-Schroeder (o, in seguito Zapatero o, ancora dopo, Obama) ma pur sempre "di governo". Il problema è la patina di nostalgia che pervade anche generazioni del tutto aliene
alla fase di crescita della globalizzazione, che magari nei primi anni del percorso di istruzione hanno conosciuto l'illusione della crescita senza fine ed ora pretendono una società dal volto umano, un mercato più aperto ad istanze egualitarie.

Corbyn è il sogno erotico degli amanti del laburismo, di quella socialdemocrazia non ostile all'Unione Sovietica, compatibile con la tradizione della terza internazionale, ma non compromessa con gli "errori ed orrori" del socialismo reale.

Una favola. Destinata a scontrarsi con le mille difficoltà della realtà, ma pur sempre migliore della narrazione unica di un capitalismo inevitabile, o di una Brexit da cavalcare sulle spalle delle classi lavoratrici.

Il problema è quanto Corbyn sia in grado di costruire un sistema, di governo o di opposizione che sia. Quanto il programma non rimanga per raccogliere consenso durante le elezioni e poi tornare a prendere polvere sul palco della rappresentazione politica, mentre il sistema prosegue a smantellare le conquiste del secolo precedente, mentre qualche coraggioso oversessanta narra le storie di un mondo più giusto.

Perché Corbyn ha vinto perdendo. Ma ancora il paradigma egemone nella società europea è che non si vince perdendo, ma solo vincendo. Così Sanders e Corbyn dalla loro hanno l'assenza del governo, per rimanere sulle bacheche Facebook dei giovani progressisti, mentre Macron e Renzi (?) si "sporcano le mani" continuando con l'idea che si vince correndo verso il centro(-destra).

Sarà che ricordo gli entusiasmi per Zapatero ed Obama, sarà che penso che un uomo non possa cambiare da solo alcunché, se non nella percezione mediatica e mediata, ma la buona notizia delle elezioni britanniche non dovrebbe entusiasmare tanto, o almeno non dovrebbe portare ad una rimozione della complessità della realtà britannica e delle difficoltà storiche in cui versa la sinistra occidentale di alternativa (comprese le comuniste ed i comunisti).

 


Jacopo Vannucchi

Il Labour di Ed Miliband fu per quattro anni in testa ai sondaggi e poi perse la campagna elettorale e con essa le elezioni. Corbyn, scivolato dai -8 punti del settembre 2015 (sua elezione a leader) ai -20 dell’indizione delle elezioni, ha recuperato fino a un -2 nelle urne posizionandosi come il vincitore, se non delle elezioni, almeno della campagna elettorale.

In più, le forze del Remain (laburisti, liberaldemocratici, nazionalisti di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, verdi, unionisti moderati) contano complessivamente sul 54%.

Quali ragioni per questo rapido recupero del Labour? Il gruppo che più massicciamente si è schierato per il partito di Corbyn sono i giovani, tra i quali il consenso è di fatto duplicato in questi due anni (dal 35 al 70%). Questo voto giovanile catalizzato dai laburisti era in precedenza diretto ai liberaldemocratici, ai verdi, e in parte agli stessi conservatori. Per spiegare l’abbandono del partito di governo è forse sufficiente ricordare l’ampia maggioranza di europeisti tra gli elettori sotto i 30 anni; per quanto riguarda le altre forze, invece, si nota che tanto Corbyn oggi quanto Lib-Dem e verdi ieri esprimono un’identica istanza: la contestazione del presente sistema sociale in nome di ritmi di vita più sostenibili. Diversa, però, la visione di fondo: una vivibilità che discende non dalla liberazione dal lavoro, magari come eteroprodotto della robotizzazione, ma dalla valorizzazione del lavoro stesso (si pensi alla lotta contro i contratti a zero ore).

Un’ulteriore dinamica può spiegare il recupero di Corbyn tra il 2015 e oggi. L’elezione di Trump e la vittoria del Leave hanno, da un lato, diradato il fumo degli inganni demagogici neofascisti; dall’altro, la sconfitta della Clinton ha riassegnato nuova gloria ai progetti à la Sanders.

Per tali ragioni non sono quindi azzardati i paralleli tra Macron e Corbyn: entrambi sono elementi che sfidano il bipolarismo thatcherismo/socialdemocrazia. Il Presidente francese è più proiettato verso la costruzione del quadro comune europeo, il leader laburista invece (di necessità, vista la Brexit) insiste d’abord sulla lotta economica all’interno dello stato nazione. Le due traiettorie sono tutt’altro che inconciliabili, come segnalano i buoni risultati de La République En Marche! nella cintura rossa parigina.

En passant, un segnale da monitorare viene dall’Irlanda del Nord: per la prima volta raccolgono seggi solo i partiti radicali delle due comunità (Dup e Sinn Féin). Anche questo è un segno delle crescenti tensioni esacerbate dalla Brexit.


Alessandro Zabban

C’è modo e modo di essere sconfitti. Fino a pochi mesi fa sembrava del tutto irrealistico immaginarsi un Labour in grado anche solo di resistere in molte delle sue roccaforti storiche nel Nord dell'Inghilterra e nel Galles. Oggi il partito guidato da Jeremy Corbyn ha rafforzato la sua presenza in parlamento incrementando il proprio numero di seggi ed è arrivato a un incollatura dai Conservatori anche in termini di voti assoluti.

Quando Theresa May ha indetto elezioni anticipate, il Labour versava in una crisi di consenso senza precedenti. Persa la fiducia della classe operaia e delle categorie sociali più vulnerabili, il partito rischiava di essere travolto da una discussione sulla brexit monopolizzata dalla destra e che aveva visto la sinistra in grosse difficoltà identitarie e divisa fra i sostenitori del “remain” e quelli di una uscita “soft”. L’elezione di Jeremy Corbyn, proveniente dall’area radicale, alla guida del partito, era il sintomo di un bisogno profondo, radicato nella base del partito, di dover tornare a dire cose di sinistra dopo anni di avvicinamento al centro e di eccessivo moderatismo politico. In un periodo segnato dai successi elettorali di Hollande prima e Renzi poi, Corbyn appariva a molti analisti una scelta suicida e anacronistica che avrebbe fatto perdere al Labour una vasta fetta di elettorato moderato.

I Conservatori, che potevano contare anche sulle difficoltà dello Ukip e dello Scottish National Party, sembravano insomma destinati a ottenere una vittoria schiacciante in grado di rafforzare l’esecutivo britannico e legittimare il piano di un’uscita dura dall’Europa. Il fallimento di questo progetto va in gran parte attribuito alla capacità di Corbyn di rimettere insieme il partito attorno alle tematiche tradizionali (lavoro e diritti sociali) senza rinunciare a sedurre la componente liberal e cosmopolita del ceto medio-alto delle metropoli. Niente a che vedere però con l'europeismo ingenuo e il centrismo post-ideologico di Macron, con il quale il segretario del Labour è stato assurdamente paragonato da alcuni analisti nostrani. Piuttosto la somiglianza è con Bernie Sanders se non altro almeno perché sono soprattutto i giovani ad aver premiato un progetto che ha permesso una resurrezione di idee socialiste che sembravano accantonate nei due grandi partiti della sinistra anglofona.

Corbyn, ha dimostrato che la strada per il successo elettorale non passa necessariamente per il moderatismo politico e l’accettazione delle regole del gioco dettate dal neoliberismo. Per ora non si poteva chiedere di più. Ma in un futuro molto prossimo occorrerà anche dimostrare di poter vincere con un programma di questo tipo e, sopratutto, di riuscire ad attuarlo.

Immagine liberamente ripresa da images2.corriereobjects.it.

Martedì, 06 Giugno 2017 00:00

A proposito di legge elettorale

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A proposito di legge elettorale

La vertiginosa accelerazione sulla riforma elettorale a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni è il frutto della convergenza fra PD, FI, Lega e M5S su una serie di emendamenti che hanno modificato sostanzialmente il testo base del Rosatellum nella direzione di un sistema proporzionale che ha diverse somiglianze, ma anche significative differenze, con il modello tedesco. L’ampia maggioranza parlamentare di cui godono i simpatizzanti della proposta di legge potrebbe portare ad una approvazione piuttosto rapida e c’è allora da chiedersi se questo sia il preludio a un’imminente crisi di governo e al conseguente voto anticipato in autunno che molte forze politiche sembrano volere.

Sicuramente intanto però molti aspetti della riforma stanno accendendo una polemica infuocata: se da una parte lo sbarramento al 5% è indigesto a molti partiti piccoli, ed è proprio su questo punto che si è consumata la rottura fra Renzi e Alfano, dall’altra è forte la preoccupazione per un sistema che renderà difficile trovare un’ampia maggioranza parlamentare. Non meno significativo, fra le altre cose, è anche il nodo sui meccanismi di elezione dei parlamentari, soprattutto dopo che gli emendamenti proposti per introdurre il voto disgiunto e le preferenze nel listino proporzionale sono stati bocciati. Su questa delicata situazione politica, il “10 mani” di questa settimana.


 Niccolò Bassanello

Esistono due nodi del “caso italiano” che il dibattito parlamentare sulla legge elettorale non è riuscito a sciogliere: l'incertezza della legge e il problema del trasformismo. Per quanto riguarda il primo nodo, dopo il “mattarellum” (1993) il “porcellum” (2005) e l'“italicum” (2015) e successive mutilazioni per incostituzionalità, il meccanismo elettorale italiano non ha avuto pace, con leggi successive che hanno di volta in volta ricalcato più gli interessi di parte degli estensori che l'attenzione a criteri di razionalità tecnica. In questo contesto da un lato la Corte Costituzionale si è trovata a supplire al ruolo del legislatore, rischiando di diventare quella “terza camera” non elettiva paventata a suo tempo da Togliatti. Quella che, salvo ennesime giravolte, dovrebbe essere la nuova legge elettorale persevera nell'errore, costruendo un sistema pasticciato e poco chiaro unendo elementi disparati di ispirazione proporzionale o maggioritaria. Più che “modello tedesco”, modello Frankenstein. Meglio, a mio parere, sarebbe stato fare una scelta netta licenziando una legge più semplice possibile, magari maggioritario uninominale o proporzionale con sbarramento, per poi apportare eventuali aggiustamenti nel lungo periodo.

Per quanto riguarda il secondo nodo, basti dire che attualmente un parlamentare su tre ha cambiato gruppo, e che tutte le aree politiche dell'arco parlamentare, dal 2013 ad oggi, hanno subito scissioni, cambi di casacca o espulsioni di massa. I partiti in parlamento si sono sbriciolati e moltiplicati, spesso totalmente all'insaputa degli elettori, che davanti a sigle come “alternativa libera”, “civici e innovativi” o “conservatori riformisti” non possono che rimanere spaesati.

Considerato questo contesto desolante, lo sbarramento al 5% previsto dalla nuova legge elettorale è probabilmente l'unico elemento positivo, rendendo sostanzialmente impossibile la rielezione di conventicole di potere e scissionisti minoritari di ogni persuasione. In ogni caso non bisogna farsi illusioni, nonostante sia necessario fare il possibile per metterci una pezza, le cause della frammentazione sono sistemiche, e non risolvibili con artifici elettorali.


Alex Marsaglia

Le principali forze politiche parlamentari stanno trovando una convergenza su una nuova legge elettorale, lo stesso PD sembra disposto a concedere persino una maggiore proporzionalità, ispirandosi al modello tedesco. Quest'ultimo però prevede una maggior selettività nella rappresentanza con una soglia di sbarramento innalzata al 5%, ma pur di andare al voto sembra andare bene.

Il sistema, pur andando verso una maggior proporzionalità, certamente non è privo di tranelli poiché mantiene i capilista bloccati, per cui l'eletto risulterà quindi non il più votato ma il candidato indicato preventivamente dalle forze politiche. Inoltre, la principale conseguenza di una tale soglia di sbarramento è che i partiti presenti in Parlamento inevitabilmente si ridurranno. PD, M5S, Forza Italia e Lega Nord oltre ad essere coloro che approveranno tale sistema elettorale dovrebbero essere anche le uniche forze politiche in grado di ottenere un minimo di rappresentanza. Il vero dato di questa legge elettorale tuttavia non deriva dal solo lato tecnico, ma da quello politico. Infatti, la stessa decisione di varare una legge elettorale è sintomo della volontà politica di sfruttare il vento di Macron per riportare il nuovismo socialdemocratico al governo, tagliando fuori dai giochi ogni pericolo populista. La volontà di isolare determinate forze politiche, nella fattispecie quelle populiste, è l'unica ragione ad aver mosso Renzi e i suoi accoliti nella direzione di una nuova legge elettorale che inevitabilmente sbloccherà la situazione portandoci a nuove elezioni.

Così si prefigura già un'ammucchiata di governo pronta per approvare una legge di stabilità austeritaria in grado di recepire le indicazioni di Bruxelles e Francoforte. La gestione dei Piigs nel fine stagione del quantitative easing sembra così condurci alla melassa democristiana più torbida.


Dmitrij Palagi

Sono i rapporti di forza che determinano l'impianto normativo di un sistema. C'è poco da fare. L'interpretazione delle leggi nei tribunali, l'orientamento esecutivo del Governo, quello legislativo del Parlamento... non si può agire all'interno delle regole date pensando di poterle mutare a proprio favore se non si hanno dei rapporti di forza adeguati. In questo la sinistra italiana pare molto arretrata, impegnata come è a scandalizzarsi per questo o quel dettaglio (sia la soglia di sbarramento o il meccanismo dei collegi).

Il grande scandalo dei nominati è sorprendente. Quante persone oggi sarebbero in grado di proporsi con una capacità di mobilitazione in grado di garantire la propria elezione in Parlamento, escludendo le prime file (comunque molto limitate numericamente)?

Se la destra ha da regolare i conti al proprio interno, a partire dal ruolo dei moderati e del centro, nell'opporsi all'asse FdI-Lega Nord, Renzi ha gioco facile nel rafforzare quella linea di autosufficienza che è alla base della nascita del Partito Democratico (Bersani è un mezzo - falso - passo indietro rispetto a Veltroni). Il Movimento 5 Stelle ha dei rapporti di forza che gli permettono di giocare un ruolo a prescindere dalla legge elettorale (e nemmeno hanno validi motivi per sperare di governare da soli o ritrovarsi "obbligati" a cercare alleati, come Tsipras in Grecia insieme ai nazionalisti).

In tutto questo il "quarto polo" della sinistra non decolla non certo per colpa della legge elettorale. Manca un progetto. Se i due governi Prodi vengono giustificati con l'assenza del proporzionale nel Paese, sarebbe il caso di chiedere ai dirigenti DS-PRC di allora quale è stato il progetto complessivo che hanno proposto all'Italia tra gli anni '90 e l'inizio del nuovo millennio.

Il Sole 24 Ore ha provocatoriamente iniziato a intervistare i "candidati premier" (che il nostro impianto costituzionale non prevederebbe) chiedendo per cosa si dovrebbe andare a votare. I vari Renzi e Di Maio devono giocarsi la partita nel sistema mediatico dato. A chi si propone come "alternativo al sistema" si consiglia di prendere spunto dal 5 Stelle, capace di apparire senza sussistere, a prescindere dalla legge elettorale. Apparire e sussistere: sarebbe una rivoluzione (parziale).


Jacopo Vannucchi

L’accordo tra i quattro principali partiti, che rappresentano assieme circa il 90% dei votanti, su una variante del sistema tedesco inaugura di fatto una situazione di armistizio tra le forze politiche che segnala come l’Italia non sia riuscita, in questi anni, a venire a capo della propria situazione interna.

Nel messaggio alla nazione del 31 dicembre 2013 l’allora Capo dello Stato ricordò che nel corso dell’anno l’Italia aveva visto messa a rischio la stessa natura democratica del sistema istituzionale – un evidente riferimento alle manovre eversive del Movimento 5 Stelle a cui, d’altro canto, non aveva corrisposto una reazione determinata degli avversari. Venuta meno con il Governo Letta la formula del “fronte repubblicano” (o “larghe intese”) l’alternativa a Grillo si era manifestata nel Governo Renzi e nel 41% raccolto dal Pd a maggio 2014. Fondandosi su quel consenso eccezionale il Presidente del Consiglio aveva promosso numerose riforme con l’obiettivo di far venir meno le radici del consenso popolare al M5s.

Sconfitto questo disegno nel referendum costituzionale, bocciato l’Italicum dalla Corte Costituzionale, e con una stampa di opinione sempre più ostile alla «classe politica» (sic), l’Italia torna al punto di partenza del 2013, ma con una vistosa differenza: il nuovo sistema proporzionale renderà di fatto certa, prima del voto, l’ingovernabilità del Paese e il necessario ricorso a coalizioni spurie. Se a questo dovesse affiancarsi la riedizione di esecutivi a guida “tecnica” – scenario paventato da Renzi stesso in caso di vittoria del No – è evidente che il consenso al M5s potrebbe imboccare una nuova fase di crescita.

E anche l’accorato allarme lanciato da Romano Prodi – «Non ho dedicato la mia vita politica a costruire alleanze con obiettivi talmente disomogenei da diventare improduttivi», in riferimento a un futuro governo Pd-Fi – ha almeno due pecche: 1) non considera che invece di Pd-Fi al governo potrebbero andare gli altri, ovvero M5s-Lega; 2) evita di puntualizzare che una maggioranza omogenea sarebbe per certo scaturita con l’Italicum e il suo contenuto premio maggioritario (54% dei seggi alla Camera).


Alessandro Zabban

Sebbene probabilmente andrà incontro ad altre modifiche, l’assetto generale della nuova legge elettorale è piuttosto chiaro. Il modello sostanzialmente proporzionale, ma con la presenza di collegi uninominali, vorrebbe ricalcare quello tedesco ma in realtà poco si adatta all’assetto istituzionale italiano così come sancito dalla nostra Costituzione che prevede il bicameralismo perfetto e un numero fisso di parlamentari.

Si vuole dunque importare un modello che rischia di non funzionare nel contesto italiano dove tradizionalmente le coalizioni di governo, quasi sempre necessarie con questo sistema elettorale, durano molto poco. Sembra inoltre profilarsi un meccanismo che di fatto rende molto limitata la possibilità di esprimere una preferenza sulla scheda elettorale (soprattutto visto che molti parlamentari verranno eletti all’interno delle liste proporzionali bloccate), cosa che allontana ancor più la nuova riforma dal modello tedesco e soprattutto fa emergere una inconsueta e cinica realpolitik del M5S, pronto a rinunciare alle preferenze, suo tradizionale cavallo di battaglia, pur di andare subito al voto e massimizzare un risultato elettorale di rilievo che, sondaggi alla mano, sembra potersi concretizzare.

A ben vedere però, con questo sistema, i pentastellati potrebbero andare incontro a una vittoria di Pirro in quanto nessun partito, allo stato attuale, sembra essere in grado di governare da solo. Il M5S che per sua natura tende all’autonomia politica, difficilmente potrà allearsi con un’altra forza politica (gli elettori non lo perdonerebbero) e ciò potrebbe significare rimanere all’opposizione dato che il sistema premia chi riesce a mettersi in coalizione dopo l’esito elettorale, a giochi fatti. A meno di una clamorosa alleanza Lega – M5S, stando così le cose, il più probabile scenario è quello di una coalizione di governo PD – Forza Italia (fa una certa impressione sentire molti esponenti del PD definire Berlusconi come un baluardo contro l’avanzata del populismo!). Sono dunque queste le forze che di fatto stanno uscendo vittoriose dal confronto parlamentare sulla riforma. Ma nel lungo termine la mancanza di un premio di maggioranza potrebbe rendere l’azione di un governo nato sotto il segno del Nazareno poco efficace. Questa riforma mette in luce che le principali forze politiche hanno più paura di perdere che voglia di vincere. La loro mossa però farà strage di partiti piccoli, non in grado di superare la soglia si sbarramento. La sinistra radicale è avvertita.

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