La Terra promessa mancata׃ settant’anni dalla fondazione di Israele
Il raduno degli esiliati e la pace del popolo ebreo. Era questa nella tradizione ebraica messianica la principale speranza per gli ebrei di tutto il mondo. Un ideale fisso sempre rimasto al centro dell’immaginario collettivo di questo popolo, nonostante le esperienze di vita ebraica differente.
Le proteste in Iran: un tentativo di analisi
Il 28 dicembre a Mashhad, una città dell’Iran occidentale che conta circa due milioni di persone, è scoppiata una protesta spontanea destinata a diffondersi rapidamente e in maniera capillare in quasi tutto il paese, soprattutto nelle zone di provincia, mentre è rimasta più marginale nella capitale Tehran. La rivolta, che secondo alcuni giornalisti sembra sia stata organizzata inizialmente da gruppi ultraconservatori – i cosiddetti principialisti, frangia più estrema della “destra”, per usare una semplificazione – in opposizione al governo di Hassan Rouhani, ha preso una piega anti-sistema e trasversale contro tutto l’establishment politico e religioso iraniano. Le notizie che ci giungono dall’Iran sono poche e incomplete, il che rende difficile elaborare un quadro esaustivo e adeguato della situazione; ciò è dovuto anche alla censura apposta sulla stampa locale e all’oscuramento di alcuni social network. Le manifestazioni popolari, oltre ad essere silenziate mediaticamente sono state soffocate nel sangue dalle autorità, portando il drammatico bilancio a 22 vittime. Uno dei motivi di questa campagna repressiva è da ricercarsi anche nel fatto che il movimento di rivolta, privo di un’organizzazione e di una leadership che lo guidi, risulta totalmente esterno e ostile a qualsivoglia partito politico.
Come che siano andate le cose, paiono comunque evidenti le reciproche intenzioni, una più pericolosa dell’altra. Quella del regime siriano è di evitare di trovarsi a gestire, come invece tende ad accadere, una ridotta porzione del territorio siriano, rappresentata dalla metà meridionale della sua metà occidentale, dalla striscia costiera e dal suo immediato retroterra (sotto stretto controllo russo), dal corridoio che a nord porta verso Aleppo nonché da questa città (quasi tutto il nord-ovest essendo invece in mano all’ELS, alla Turchia, ecc., e l’est sempre più all’FDS). Una tale prospettiva renderebbe inevitabile, al termine del conflitto o ancor prima, la fine del regime, l’esilio di Assad, ecc., probabilmente anche con il consenso di Russia e Iran. Mentre l’intenzione, quanto a Trump, pare ormai essere il controllo stabile, per il
Trump e sauditi: il filo di sangue che li unisce
Gli eventi della settimana appena trascorsa restituiscono un quadro definito dalla visita storica di D.Trump a Riad. Una visita che è centrale per capire il quadro mediorientale e non solo. Il Presidente americano infatti ha voluto stabilizzare l'asse coi sauditi e le monarchie del Golfo Persico al fine di incrementare il fatturato della macchina militare statunitense, divenuta sempre più vorace. L'accordo siglato per la vendita di armi statunitensi ai sauditi per 110 miliardi di dollari ne è la dimostrazione.
Come sempre il discorso economico è abbellito dai discorsi ideologici e quindi troviamo la solita retorica americana del Bene contro il Male, per cui secondo Trump con i sauditi "si può vincere (il terrorismo) solo se le forze del bene saranno unite". Queste le forze del Bene: gli Stati Uniti e i loro alleati wahabiti. Le forze del Male vengono invece identificate chiaramente nei musulmani sciiti. Un discorso che è un toccasana per la pace in Medio Oriente come può intuire qualsiasi. Ma non solo, Trump è stato ben più esplicito, definendo l'Iran la "punta di lancia dei terroristi nel mondo". Ecco che il nuovo nemico in Medio Oriente è identificato.
Seppur sia un paradosso non da poco, nel mondo dell'opulenza e del consumismo la morte per inedia continua a sussistere e ad essere una minaccia pressante per milioni di persone. Pochi giorni fa l'Onu ha lanciato l'allerta carestia in Yemen per 7,6 milioni di persone ormai ridotte in condizioni al di sotto dei livelli minimi di sussistenza (vedi ricostruzione qui). L'Unicef aveva già riportato cifre secondo le quali i bambini denutriti ammonterebbero ormai a 1,3 milioni. Le cause ovviamente non sono affatto casuali, ma dettate da politiche ben precise. Il blocco dei porti imposto dall'Arabia Saudita ha aggravato notevolmente una situazione economica già critica in cui si importavano più del 90% dei generi di prima necessità. La guerra resta una delle cause principali e la spinta propulsiva dettata dalle commesse militari e dagli interessi in gioco spesso cancella ogni capacità critica. Le responsabilità politiche sono estese pure per l'Italia eppure la notizia è passata totalmente in secondo piano, come se l'aver venduto armi a chi ha massacrato un popolo riducendolo ora pure alla fame sia un fatto assolutamente non rilevante.
Ma le responsabilità politiche ricadono in primo luogo proprio sull'Onu il quale ha premiato i sauditi in tutte le sedi possibili, nonostante la stessa Arabia Saudita stia continuando a massacrare il popolo yemenita e attualmente sia il principale responsabile della carestia avendo distrutto le strutture portanti di un paese già fragile. Il finto stupore del rapporto sul rischio di una carestia spaventosa in Yemen lascia aperto il problema delle tragiche conseguenze dell'ennesima guerra in una zona già poverissima del mondo, ma non rileva assolutamente responsabilità e ancor meno autocritiche necessarie per chi si autoproclama giudice supremo dell'ordine mondiale.
Volendo poi ricorrere all'imparzialità aperta di Smith per scardinare gli assiomi dogmatici su cui è basato quest'ordine potremmo provare a chiedere a un iracheno cosa ne pensa della nostra democrazia esportata da quelle parti. Difficilmente sarà un parere entusiasmante. Eppure abbiamo un tale Verdini che in Tv sostiene di essere un vero liberale che non può esimersi dal votare Sì al referendum costituzionale! Invece a dar retta ai veri liberali, come Smith e Sen, ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli per varie questioni, ma per fortuna abbiamo questi liberali che non si pongono minimamente alcun problema che non sia dettato dalle contingenze politiche.
Così, il mercato continua a produrre morti d'inedia e non è una responsabilità dell'autoritarismo o dell'inefficienza allocativa della supposta mano invisibile, ma una caratteristica intrinseca al funzionamento di un'economia di mercato che prevede accumulazione crescente di ricchezza che scarica sulle zone già povere conseguenze sempre più devastanti. Le guerre e il loro strascico di sofferenza, morte lenta di fame e consunzione non sono che l'altra faccia dei palazzi di Abu Dhabi costruiti coi petrodollari. Volendo ancora ricorrere a Sen potremmo rilevare come il nyaya (vedi Il Becco n. 9) non sia ormai altro che un matsyanyaya in cui il pesce grande divora il pesce piccolo, ossia una giustizia in cui l'Arabia Saudita può aggredire brutalmente un paese già povero riducendo sette milioni e mezzo di persone alla fame nella totale impunità. La principale causa resta la voracità di un capitale che non smetterà mai di spingere e fagocitare uno sviluppo sempre più distruttivo per chi come nello Yemen o in Afghanistan si trovava già in condizioni di estrema povertà e ora rischia seriamente la fame dopo guerre sempre più distruttive. Chissà se il cittadino iracheno citato poco sopra potrà sentirsi finalmente libero in condizioni simili, tra attentati giornalieri, terrorismo endemico e carestie?
Eh già. I diritti umani. Ma quali esattamente? Di chi ?
Non è un cinismo incancrenito quello che porta a dubitare che sia effettivamente la volontà di difendere la dignità e il benessere di ogni essere umano quanto piuttosto non solo l’esistenza, ma la tolleranza, il sostegno, a situazioni come quella dell’Arabia Saudita.
Una monarchia secolare. Un paese dove le donne non hanno alcun diritto (Una ragazza non possiede altro che il suo velo e la sua tomba, dice un antico proverbio)e nel quale qualsiasi attività sessuale al di fuori del matromionio eterosessuale è illegale. La severità è tale che gli stranieri che vngono scoprti portatori del virus dell’HIV vengono inmediatamente rimandati in patria.
Un paese, l’Arabia Saudita dove solo nei primi cinque mesi del 2015 sono state eseguite 90 esecuzioni capitali. Un paese che, secondo le dichiarazione del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, ha luogo il terzo maggiore traffico di esseri umani al mondo.
Di Marco Fantechi
Il ruolo dell'Arabia Saudita
Un Iran reinserito nei circuiti politico-diplomatici internazionali, senza sanzioni economiche ed embargo militare, riduce il potere anche dell'altra potenza regionale, l'Arabia Saudita.
Il regno dei Saud, islamici sunniti Wahabiti, ha posizioni di forza storicamente consolidate, è il paese custode dei luoghi santi dell'Islam (La Mecca) che ne fa leader del Congresso Islamico Mondiale, della Lega Araba e, come produttore di petroli, dell'OPEC, il tutto sotto l'interessata protezione, prima della Gran Bretagna poi degli Stati Uniti e dell'intero blocco occidentale.
Ogni tanto la patina di silenzio dei media è costretta a lasciare emergere qualche spiraglio di luce dalle condizioni reali di chi, lottando disperatamente, cerca di rivendicare condizioni di vita e di lavoro più degne e più umane. Così, capita che persino il Wall Street Journal (il primo quotidiano americano online che si occupa principalmente di finanza, fino al 2007 di proprietà della Dow Jones & Company e poi rilevato da Rupert Murdoch) arrivi a interessarsi delle condizioni degli operai edili migranti del Dubai (leggi qui). E così emergono per un istante queste rivolte dei neo-schiavi sconosciute ai più, su cui prontamente il vortice massmediatico riesce a chiudere ogni approfondimento delle condizioni reali di lavoro di questi per poi ritornare subito a fagocitare gli animi verso i nuovi orizzonti di sviluppismo più sfrenato.
Il Grande Fratello vince su Spartaco, puntualmente. Anche la notizia più tragica diventa una merce che nel mondo delle big corporation dell'informazione si deteriora rapidamente una volta venduta. Ebbene, le rivolte degli operai nel Golfo non sono certo una notizia su cui si può sorvolare facilmente, tanto più che avvengono ormai da nove anni a questa parte (il primo grande sciopero risale al 2006) e in nazioni in cui i diritti politici e civili semplicemente non esistono, ma con le quali l'Occidente continua a intrattenere rapporti economici e politici senza che nessuno si scandalizzi più di tanto. Se non fosse stato per il solenne rifiuto della first lady Michelle di indossare il velo alla cerimonia funebre del re saudita Abdullah nessuno saprebbe delle tragiche condizioni dei sudditi sauditi, però il petrolio serve e d'altra parte non è un segreto che il prezzo del petrolio sia finito al centro dell'attuale scontro economico e geopolitico mondiale, quindi i peroratori del diritto umanitario dovranno accontentarsi del coraggio di Michelle. Ad esempio la legge negli Stati retti dagli emiri vieta espressamente gli scioperi, ma questi avvengono ugualmente grazie ai veri atti di coraggio di lavoratori che, seppur puntualmente repressi con la deportazione, decidono di lottare pagandone tutte le tragiche conseguenze sulla propria pelle, come è accaduto ai capi della rivolta sindacale dell’Arabtec colosso delle costruzioni che ha realizzato, tra l’altro, il Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo (830 metri) che ospita l’Hotel Armani con camere da 700 euro a notte.
Ancora, in Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar è in vigore il sistema di reclutamento della manodopera detto della Kafala (garanzia) che lega indissolubilmente il lavoratore al proprio datore di lavoro, un sistema di reclutamento tanto libero e foriero di garanzie che assomiglia pericolosamente all'acquisizione di uno schiavo: un ufficio di collocamento nel paese d'origine trova un datore di lavoro disposto a sponsorizzare il lavoratore immigrato, che da quel momento non può cambiare posto di lavoro per tutta la durata del contratto. Chi si sottrae al sistema può essere incarcerato o, di fatto, sequestrato. Chi scappa è colpito da huroob, una denuncia che trasforma il lavoratore in una sorta di schiavo fuggitivo. La gravità del fenomeno è data proprio da ciò, dalla messa a sistema e dalle conseguenti dimensioni di massa del fenomeno che investe milioni di lavoratori e lavoratrici con svariate categorie che vanno dagli operai edili, agli addetti dei mega store, alle collaboratrici domestiche. I numeri sono veramente impressionanti e riportano tassi di suicidi e di morti sul lavoro crescenti. Per rendere l'idea dei diritti lavorativi si può descrivere il caso che nel maggio del 2011 fece scalpore innescando poi la rivolta all'Arabtec: Athiraman Kannan, operaio indiano di 38 anni che percepiva 150 euro al mese per 12 ore di lavoro su sei giorni settimanali, si lanciò dal 147˚ piano del grattacielo che stava costruendo dopo che il suo superiore gli rifiutò un permesso per tornare in India in seguito alla morte del fratello.
Dal 1998 ad oggi, cioè da quando si ha notizia delle condizioni di sfruttamento di queste masse di migranti in arrivo dalle zone povere dell'Asia (India, Nepal, Sri Lanka, Bangladesh, Indonesia e Filippine) e del Corno d'Africa (Somalia, Eritrea e soprattutto dall'Etiopia) i “migrant workers” hanno dovuto lottare praticamente per ogni cosa della loro vita quotidiana. Tuttavia, ogni minima conquista viene pagata dai lavoratori a carissimo prezzo se si pensa che nel solo 2013 sono stati espulsi per ritorsione centomila lavoratori dal solo territorio saudita.
È però opportuno ricordare che a beneficiare dei vari strumenti di irrigidimentazione della manodopera che noi consideriamo "immorali", dalla kafala all'huroob, sono spesso virtuose, evolute e idolatrate imprese occidentali che praticano l'unica legge conosciuta nel sistema capitalista: il profitto senza limiti. Per poter fare ciò simili oasi di schiavitù sono benedette come manna dal cielo anche dalle nostrane Alitalia, Piaggio, Eni, Eataly e Finmeccanica. I rapporti tra la nostra economia ancora troppo statalizzata secondo l'ideologia dominante e gli emiri che stanno facendo shopping in occidente non sono mai stati così intensi. Infatti, se l'episodio di Michelle Obama risale al 28 gennaio, l'ultima visita del nostro Presidente del Consiglio è di poco precedente e risale all' 8 gennaio. L'Expo, mastodontica operazione di greenwashing, non poteva che mirare a portare i fondi sovrani degli emiri a investire in Italia, rivelando quanto siano intersecate le questioni dello sviluppismo e dei nuovi settori tecnologici spacciati come ecofriendly. Il primo maggio (data simbolica) nei padiglioni dei paesi del Golfo saranno presentate soluzioni altamente tecnologiche per le energie rinnovabili e lo sviluppo sostenibile, evidentemente centrali proprio nel settore dell'edilizia, in cui il basso impatto ambientale delle costruzioni avveniristiche dettate dal sopracitato sviluppismo viene venduto con il paradossale slogan per una petrolmonarchia "l'acqua è più importante del petrolio". In realtà, come visto sopra, le connessioni tra l'economia italiana e quella degli emirati sono molto più estese e vanno dal settore della Difesa a quello della metallurgia fino a quello energetico, dei trasporti e ora pure del cibo Made in Italy di Farinetti. È chiaro che in materia commerciale i diritti umanitari non valgono, come non valgono i diritti civili e politici: tutto è valido purché segua le solenni leggi del profitto e giacché il profitto non è mai anomico, ma risponde alle leggi del Capitale, perché non chiedere agli emiri anche una mano per risolvere la questione libica? E infatti nell'ultimo incontro dell'8 gennaio si discusse anche di questo, cioè di come ingabbiare la manodopera che pretende di essere libera prendendo in parola coloro che vanno cianciando da un trentennio ormai di libertà dei mercati. Tuttavia, le varie monarchie ancora non si sono accordate per spartirsi le risorse petrolifere della zona, per cui è probabile che la guerra tra bande continuerà e che gli odiati "clandestini" continueranno ad "assediare" un'Europa che risponde divenendo sempre più fortezza.
Ecco che mentre l'assedio degli straccioni e dei poveracci impensierisce i leghisti, viceversa, lo shopping degli emiri è il benvenuto, e lo è a tal punto che un fondo qatariota lo scorso 27 febbraio ha acquistato una partecipazione pari al 100% del progetto Porta Nuova di Milano (380 unità abitative e 22 edifici, e non è che il caso più celebre) senza che i difensori supremi della "nostra" identità avessero nulla da eccepire.
Insomma, a proposito di argomenti totalmente insabbiati dai media, si potrebbe concludere dicendo che Mafia Capitale (vero specchio del nostro sistema politico-economico) ha dimostrato che il vero affare per l'una e l'altro è l'immigrato, il quale è importante risorsa politica ed economica proprio per coloro che vorrebbero chiudere le frontiere agli esseri umani ma non disdegnano invece l'apertura delle frontiere ai capitali cumulati con la sopraffazione più feroce.
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