C'è un qualcosa che a prima vista appare inspiegabilmente stupido nell'impostazione data alle attività di scuola/lavoro messe a punto in questi anni (non da oggi, occorre ribadirlo).
Non che sia sbagliato, tutt'altro, creare dei percorsi che permettano di conoscere il mondo del lavoro e quindi di accedervi più facilmente una volta terminato il percorso di studi: ciò che è sbagliato è la prospettiva dequalificante che viene offerta agli studenti e, si spera, futuri lavoratori.
Decenni di propaganda (e di formazione professionale generosamente finanziata) per far maturare la giusta idea che il lavoro, qualsiasi lavoro, debba essere qualificato, che il lavoratore deve apprendere costantemente, che la competizione vada condotta sul terreno delle competenze, e poi l'offerta che viene presentata ai nostri giovani è quella della precarietà, dei bassi salari, dei voucher.
Dove condurrà questa miopia? Quale futuro industriale potrà avere un Paese la cui forza lavoro sarà concentrata sempre più nel terziario ed in un terziario dequalificato e svilito economicamente e culturalmente?
Dove ci porteranno un apprendistato e percorsi formativi scarsamente o addirittura non retribuiti?
Ogni volta che veniva sottoposto il tema al compianto Luciano Gallino egli solitamente rispondeva rilevando come il problema del lavoro in Italia sia un problema dettato dall’assenza di domanda.
In sostanza il problema non nasce dalla presenza di una manodopera impreparata, ma dalla desertificazione industriale in corso. Ebbene, seguendo questo ragionamento, l’impianto stesso della riforma scolastica risulta totalmente estraneo ai reali problemi del mondo del lavoro, laddove si afferma che “il 40% della disoccupazione in Italia non dipende dal ciclo economico” (addirittura!) poiché “una parte di questa percentuale è collegata al disallineamento tra la domanda di competenze che il mondo esterno chiede alla scuola di sviluppare, e ciò che la nostra scuola effettivamente offre” (sito della buona scuola, qui).
In ossequio al dogma liberista si riscontra un problema pure nel mercato delle risorse umane, laddove queste non risulterebbero adeguatamente funzionali. Come se le competenze di un laureato fossero incasellabili e raffrontabili esattamente come quelle di un computer. Secondo questa logica, totalmente deviata e deviante rispetto ai problemi che affliggono il lavoro in Italia, il mismatch tra domanda e offerta di lavoro diventerebbe il problema centrale da risolvere.
Purtroppo non è che un problema marginale quello del disallineamento tra competenze offerte e domandate. Il vero problema è molto più grave e non si risolve con la faciloneria di chi pensa di cavarsela con una riforma aziendalista della scuola. Tralascio per brevità i danni davvero disastrosi di lungo periodo che questo Paese subirà dall’annientamento culturale, con una riforma scolastica improntata al mantra dell’aziendalismo. Quello che mi preme evidenziare è soprattutto l’inutilità per il mercato del lavoro di una riforma scolastica che insegue al ribasso il tracollo di quest’ultimo, ormai indirizzato verso un sottoequilibrio tipico di un’economia a basso valore aggiunto. E basta l’analisi dell’ultimo decennio (come fanno notare i Clash City Workers qui) per rendersi conto della fallacia del ragionamento alla base della riforma, infatti a fronte di un aumento costante del numero di studenti coinvolti in esperienze di alternanza scuola-lavoro dal 2006/07 la disoccupazione giovanile è quasi raddoppiata. I
nsomma, occorrerebbe riprendere Gallino e ragionare di pianificazione economica, considerando un’infinità di aspetti tralasciati dalla miope visione del disallineamento domanda-offerta di competenze, per riportare lavoro sul territorio e sviluppare qualità curando l’istruzione per ciò che è, ossia un’esperienza formativa e non lavorativa. Purtroppo si sta andando verso l’aziendalizzazione dell’istruzione che farà risparmiare la formazione professionale interna alle aziende, ma a scapito della qualità dell’istruzione che si adeguerà a un mercato ormai ampiamente depresso.
Per il 2017 sono stati proporgati, dal Ministero del Lavoro, gli incentivi al nuovo contratto di apprendistato (11,2 milioni). L'obiettivo è il rafforzamendo della formazione duale, in cui le imprese si affiancano al sistema di istruzione per dare un futuro alle giovani generazioni.
Non è chiaro come si possa sostenere in buona fede la necessità di favorire l'ingresso delle aziende nelle scuole, se non accettando l'idea che la Repubblica non sia più in grado di fornire un adeguato livello formativo. La rassegnazione per una condizione di inadeguatezza del sistema di insegnamento (precariato, sovraffollamento delle aule, tagli alle risorse, et cetera) può lecitamente portare a sostenere la necessità di un coinvolgimento diretto del tessuto produttivo. Però deve essere chiaro che chi sostiene l'alternanza scuola-lavoro rinuncia ad un'idea di istruzione legata alle conquiste sociali delle lavoratrici e dei lavoratori nel secolo scorso.
Lo Stato deve garantire la formazione di cittadini in grado di dare il loro contributo al tessuto produttivo (con competenze specifiche ma anche capacità di giudizio critico), o gli istituti sono in fondo solo fabbriche di futuri lavoratori, impegnati a corrispondere agli "ordini" (intesi come richieste) dei datori di lavori? Può darsi che quella qui espressa sia una posizione pregiudiziale e che in nel "libero mercato" ci sia spazio per una virtuosa cooperazione tra ricerca universitaria e sviluppo delle aziende private.
Rimane allora l'impietosa traduzione pratica della legislazione che dovrebbe favorire l'occupazione giovanile. L'apprendistato non è solo (nella maggioranza dei casi) un modo per assumere con sgravi fiscali (quindi chiedendo meno alle aziende, sottraendo risorse ai lavoratori stessi, con il tagli alla sanità e alle pensioni)? Garanzia Giovani quale significativo miglioramento ha prodotto al sistema imprenditoriale italiano? Non siamo uno dei paesi europei con meno laureati e al contempo uno di quelli in cui si hanno maggiori difficoltà a trovare un impiego adeguato al proprio percorso di studio?
Pensare di risolvere il problema della disoccupazione con contributi a pioggia è chiaramente una tattica di breve periodo (distuscibile anche in termini di costruzione del consenso elettorale), ma è chiaro che una sinistra disabituata a discutere dei mezzi di produzione (da ormai qualche decennio) abbia difficoltà a rifiutare quelle formule (come l'alternanza scuola-lavoro) che mascherano forme di smantellamento dei diritti.
Nel 2015 era laureato il 25% dei giovani italiani (25-34 anni): la seconda quota più bassa nei Paesi dell’Ocse, dopo quella del Messico (21%). Tuttavia il 37% dei giovani occupati (15-34 anni) risultava sovraistruito. Il mercato del lavoro non riesce infatti ad assorbire i pur pochi laureati, anche per una importante causa strutturale: il tessuto di piccole e medie imprese il cui organico interno è prevalentemente operaio (e per i servizi amministrativi ci si rivolge a un ente esterno).
Inoltre, per chi non prosegue gli studi oltre il diploma la scuola non ha finora fornito un reale collegamento con il mondo del lavoro. L’alternanza scuola/lavoro introdotta dal Governo Renzi è da ritenersi positiva in quanto mira a colmare questo divario, e in questo senso va il protocollo d’intesa siglato dal Miur con sedici medie e grandi imprese.
L’Italia si trova, d’altro canto, in una posizione unica per quanto riguarda il patrimonio culturale storico. La primazia degli studi classici imposta dalla riforma Gentile rifletteva una gerarchia classista già nominalmente picconata con la riforma universitaria del 1969 (liberalizzazione degli accessi all’università); l’abbandono totale di questi studi, sul quale è oggi aperta una sconcertante discussione, significherebbe però gettare a mare una ricchezza storica inestimabile e – questo sì – consegnare l’istruzione a uno schema biecamente tecnocratico e “aziendalese” (si passi il barbarismo, per riflettere la barbarie del concetto).
La Romania, il cui salario medio mensile è di 650 euro lordi, sta subendo la concorrenza salariale delle confinanti Moldavia (250 euro) e Ucraina (200 euro), pur con le difficoltà burocratiche e doganali derivanti dalla non adesione alla Ue di queste due repubbliche ex sovietiche. In un quadro simile, è evidente che l’Italia non può essere competitiva sul piano salariale, ma può invece esserlo su quello della qualità: qualità del prodotto ma anche e soprattutto della forza-lavoro. E mentre per la qualità del prodotto sono sufficienti competenze hard facilmente reperibili in qualsiasi Paese dell’Europa occidentale, per quella della forza-lavoro l’Italia può contare in potenza su competenze soft derivanti dalla sua ricchezza culturale.
Per svilupparle, per farle emergere, è necessario potenziare l’insegnamento delle materie umanistiche che, nell’impianto della legge 107, dovrebbe evitare il rischio di rendere l’istruzione una fabbrica in serie di homo oeconomicus. È quindi assolutamente urgente varare la legge delega in materia.
Complessivamente, quindi, il sistema dell’alternanza scuola/lavoro si inserisce nel programma dichiarato del Governo Renzi di attrarre in Italia maggiori investimenti di multinazionali, per rafforzare una struttura industriale un po’ rachitica. Ovviamente il vero rilancio della produzione non potrà avvenire se non a livello europeo con un massiccio piano di investimenti pubblici, ma il dinamismo di un importante Stato membro può accelerare tale svolta economica a livello Ue.
L’alternanza scuola-lavoro è l’ultima tappa di un graduale ma inesorabile processo di ridefinizione del concetto di istruzione. Nel paradigma culturale contemporaneo, viene meno la possibilità di concepire il sapere e la conoscenza come elementi che abbiano un valore di per sé. La cultura è un guscio vuoto senza importanza a meno che non produca risultati concreti ed immediati. In questa ossessione esasperata per il pragmatismo, la concezione della conoscenza come miglioramento di sé e come strumento per conoscere la realtà che ci circonda in maniera disinteressata, è stata brutalmente accantonata e derisa. Si è fatta sempre più strada una visione utilitaristica dell’istruzione e della cultura che da strumento di elevazione spirituale diventa un mezzo per raggiungere un fine economico, un valore monetario.
La retorica neoliberista, tirata a lustro dai suoi innumerevoli anglicismi, è oramai dilagante: l’istruzione si riduce a una serie di skills, competenze pratiche necessarie a svolgere una mansione, a creare valore aggiunto o posti di lavoro. E mentre nell’ambito dell’istruzione superiore risulta ormai quasi del tutto inconcepibile finanziare una ricerca che non sia market oriented, nelle scuole medie superiori l’assoggettamento della cultura al profitto e al mercato può prendere sempre più piede con formule educative che sfavoriscono lo sviluppo di una cultura critica e che incoraggiano l’employability dello studente (ma davvero in Italia non si assume per le scarse competenze ed abilità dei giovani?) Ecco allora lo stage, feticcio dietro il quale si cela una visione improntata al puro economicismo.
Molti analisti si sono affrettati a distinguere fra tirocini “buoni” (in organizzazioni del terzo settore o in piccole imprese) e “cattivi” (nelle multinazionali). Ma la differenza viene meno quando in entrambi i casi si afferma una concezione secondo cui l’istruzione ha senso solo se è spendibile nel mercato del lavoro.
Già nel 1939 il sociologo Robert S. Lynd, paventando che le scienze sociali potessero essere manovrate da interessi esterni e particolaristici, perdendo così il loro ruolo di discipline critiche, si chiedeva, rammaricato, in uno dei suoi più celebri saggi, Knowledge for what? - Conoscenza per che cosa? Risulta purtroppo sempre più difficile oggi poter rispondere a questa domanda senza tirare fuori il mercato e le sue logiche.
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