L’assenza di investimenti nella creazione di una industria di sostituzione delle importazioni e una poco lungimirante politica valutaria che prevede l'aggancio del tasso di cambio al dollaro hanno condotto all'attuale condizione economica. L' inflazione è in larga misura importata: quando il prezzo del petrolio ha iniziato a scendere, il deficit commerciale venezuelano si è allargato e l'economia nazionale ha perso colpi molto velocemente. Se ciò è vero però dimostra anche quanto siano cause esterne ad aver condotto il governo Maduro in questa situazione critica.
Gli alleati, Cina e Russia, hanno potuto fare ben poco di fronte alle ingenuità abilmente sfruttate dalle potenze dominanti.
Così, se gli Stati Uniti non hanno timore di impegnarsi nientemeno che nel Pivot to Asia, figuriamoci se vorranno mai rinunciare alla ghiotta occasione: riappropriarsi del "giardino di casa". Il governo Maduro resta l'ultimo bastione da abbattere e possiamo scommetterci che l'imperialismo rampante di Trump non si lascerà sfuggire di mettere le mani sui tesori energetici che il chavismo aveva espropriato alle corporation per riconsegnarli al popolo.
L'obiettivo dell'attuale insurrezione in Venezuela, nemmeno troppo velato, è cancellare la costituzione bolivariana che vieta di svendere le immense risorse petrolifere.
Una politica economica di sostituzione delle importazioni per ridurre il vincolo estero è imprescindibile per salvare il Venezuela dalla reazione che sta ribaltando i risultati della rivoluzione bolivariana e la Cina in merito potrebbe ancora fare molto.
Prendiamo le donne di Plaza De Mayo e le ombre di negazionismo allungatesi in Argentina all'indomani della vittoria di Mauricio Macri. Quanta indignazione nel mondo per la rimozione di uno sterminio di regime? Nessuna, dato che il nuovo presidente è una garanzia importante per la finanza internazionale, accolto in questi giorni a braccia aperte da Trump, anche per parlare delle sorti del Venezuela, uno degli ultimi paesi in cui ancora non è stato sanato il giro a la izquierda del continente latino-americano.
Il Brasile è attraversato da forti proteste sociali, a cui la stampa europea dà meno risalto di una qualsiasi manifestazione sotto l'amministrazione di Dilma Rousseff, perché anche al governo di questa nazione siede un liberista convintamente schierato a favore delle privatizzazione e della svendita di ogni risorsa primaria del continente.
Chàvez e il sostegno militare con cui è riuscito ad affermare progressivamente il proprio successo rappresentano dall'inizio un'inquietante minaccia per lo stato di cose presenti. Maduro non ha le stesse capacità del suo predecessore, ma certamente si ritrova in un contesto di maggiore debolezza rispetto al valore del petrolio e al quadro geografico dell'area.
Il sistema istituzionale e di informazione si schiera con le proteste dei "ribelli", come di consueto fa quando si tratta di appoggiare il peggiore sistema economica per i paesi "in via di sviluppo" od "emergenti". Gli assassinii politici che colpiscono sindacaliste e donne impegnate per la difesa della classe lavoratrice finiscono nel mucchio dei morti per repressione.
Anche il Venezuela ci parla della debolezza dei progressisti e dei comunisti di tutto il mondo, dell'assenza di un movimento internazionale a favore della pace, della multipolarità e di un'equa solidarietà fra popoli. Senza un adeguato processo di egemonia all'interno dei diversi paesi non ci potrà essere grande agibilità per chi cerca di sperimentare forme di sovranità popolare alternative alle sempre più vuote democrazie rappresentative emerse dalle macerie del Muro di Berlino. Tra un presidio di cento persone contro il tentato golpe in Venezuela e un intervento economico della Cina non è difficile capire cosa è più utile. Esistesse un movimento internazionale in grado di fare pressione sui diversi governi sarebbe forse meglio per tutti e a questo dovrebbero lavorare le diverse formazioni sociali e sindacali del mondo.
La crisi venezuelana interroga i fondamentali del Paese su due fronti, quello economico e quello politico.
Sotto il primo aspetto il fattore critico è la mono-dipendenza dal petrolio, che costituisce il 90% circa delle esportazioni. Il calo del prezzo del greggio negli ultimi anni si è quindi rivelato esiziale per la sostenibilità delle finanze pubbliche. Il danno è stato amplificato da tre ulteriori fattori: in primo luogo l’ingente spesa pubblica richiesta dagli obiettivi sociali della rivoluzione bolivariana; in secondo luogo il regime di cambi fissi, in tassi diversi secondo le finalità della compravendita di moneta straniera, e il correlato controllo dei prezzi; in terzo luogo la crescente emissione di denaro per far fronte all’abnorme dilatazione del debito estero.
In parte simili debolezze economiche sono il necessario portato della lotta contro la fuga di capitali in un sistema politico che è nato sotto l’assedio dei grandi interessi petroliferi; d’altro canto la dipendenza dal petrolio è rimasta invariata rispetto a tutta la storia del Venezuela nel XX secolo.
Sotto il piano politico, la battuta di arresto del processo rivoluzionario risale al 2007, quando l’elettorato respinse di misura (51%) la riforma costituzionale che, accanto all’ampliamento dei poteri presidenziali, avrebbe proibito la grande proprietà terriera. Dal 2015 le destre dispongono di una schiacciante maggioranza parlamentare. Dopo anni di sedizioni e proteste per l’alta borghesia venezuelana si sta dunque verificando la tempesta perfetta, con agitazioni di piazza, iperinflazione, scarsità di generi di prima necessità e soprattutto l’ex ad di ExxonMobil alla guida del Dipartimento di Stato.
Al di là di un possibile aiuto estero in extremis al governo chavista (da parte cinese), la questione fondamentale resta la percorribilità di una linea di socialismo democratico, in America Latina e più in generale in un Paese integrato nell’economia mondiale di mercato. In oltre quindici anni la rivoluzione bolivariana ha sottratto il Venezuela alle grinfie dei magnati del petrolio, ha resistito a un colpo di Stato e migliorato le condizioni di vita delle classi inferiori. Tuttavia l’assenza di un reale monopolio del potere ha accorciato i tempi di un nodo che, magari più tardi, sarebbe comunque venuto al pettine: uno strutturale squilibrio dei fondamentali economici. L’Urss fissò i prezzi dei principali generi di consumo nel 1926; negli anni Sessanta i tentativi di Chruščëv prima e Kosygin poi di rivedere quelli di latte e carne provocarono ampie proteste operaie e furono abbandonati. Ma nel 1990 un sistema ormai in disfacimento dovette alfine transitare a un regime di prezzi liberi.
L’accerchiamento capitalista, la destabilizzazione economica e spionistica, il forte ma insufficiente aiuto dei partners internazionali: certo tutto questo spiega le debolezze intrinseche della rivoluzione venezuelana, ma al tempo stesso richiama la necessità, in un quadro inevitabilmente integrato e globale, di tenere sotto controllo le compatibilità economiche.
Il motivo per cui il Venezuela di Maduro non ha fatto ancora la stessa fine del Cile di Allende non va tanto ricercato nel diverso contesto internazionale, che in realtà vede sempre gli Stati Uniti in prima fila per rovesciare qualsiasi governo non allineato al Washington Consensus, quanto nel fatto che l’esercito venezuelano è tendenzialmente dalla parte della Rivoluzione Bolivariana. Questa situazione per certi versi anomala, rende il classico giochino imperialista della guerra economica per ridurre allo stremo il paese in modo che un golpe reazionario sia giustificato, molto più complesso.
Nonostante questo, c’è poco da essere ottimisti sul futuro della rivoluzione bolivariana in Venezuela che sembra si stia ormai lentamente estinguendo. Il lodevole tentativo di Chavez e proseguito da Maduro di realizzare un socialismo che rispettasse i principi liberali e democratici ha avuto un certo successo ma ha anche mostrato la sua debolezza, che consiste proprio nell’aver lasciato alle classi privilegiate troppo potere politico ed economico, se è vero che la maggior parte delle imprese venezuelane sono ancora private e che l’opposizione detiene il controllo quasi totale dei canali di informazione. Un processo per togliere potere a questi gruppi reazionari si è sostanzialmente interrotto da tanti anni e oggi sembra improbabile che Maduro abbia la forza e la capacità politica di trasformare il Venezuela in una dittatura, esautorando il Parlamento e procedendo a una nazionalizzazione della maggior parte dei settori produttivi e dell’informazione.
Le colpe del governo non si fermano qua. La guerra economica scatenata dalle élite borghesi, coi loro sabotaggi all’economia nazionale che ricordano proprio quelli messi a punto nel Cile di Allende, sta avendo i suoi effetti nel creare una scarsità di generi di prima necessità, così come ha sicuramente contribuito all’impennata dell’inflazione. Tuttavia Maduro e la sua squadra di governo hanno avuto l’incapacità non solo di non essere stati in grado di gestire la crisi in maniera più ordinata, ma soprattutto di non essere riusciti a svincolare il Venezuela dalla dipendenza dalle esportazioni di petrolio. Questo il suo prezzo si è abbassato, l’intera economia è collassata, portando il paese, aizzato da un’opposizione irresponsabile, in una situazione di conflittualità dilagante e quel che è forse ancor peggio, facendo crollare il consenso popolare che Maduro si era conquistato in virtù degli enormi progressi sociali avvenuti sotto la rivoluzione bolivariana.
Una società socialista e democratica insieme che funzioni non è per niente un’utopia. È utopico però pensare di realizzarla nel contesto imperialista attuale nel quale non viene lasciato spazio per nessun esperimento politico. Se le forze reazionarie interne non vengono schiacciate, saranno loro a schiacciare la rivoluzione con l’aiuto di una potenza estera.