Una misura, quella europea, che ha irritualmente fatto infuriare il Presidente degli Stati Uniti d'America, che ha accusato gli (ex?) alleati del Vecchio Continente di approfittarsi slealmente del suo Paese colpendo iniquamente una delle maggiori corporations americane. Google non è la sola “big” della tecnologia a navigare in acque burrascose: mentre Facebook non sembra riuscire a trovare una via d'uscita dagli scandali che lo affliggono sempre più voci si alzano contro i modelli di business di grandi nomi come Apple e Amazon.
I giganti capitalistici dell'età della rete sono cartelli, destinati a generare una inevitabile reazione politica antitrust come la Standard Oil nel novecento, oppure è la rete stessa ad aver cambiato tutte la carte in tavola, e abbiamo piuttosto bisogno di categorie (e regole) nuove? Ne parliamo a più mani.
Un recente, breve articolo dell'Economist avanza abbastanza convincentemente una fosca profezia, per le enormi corporations dell'informatica e di internet del XXI secolo: il crescere del loro valore azionario e delle loro quote di mercato fatalmente starebbe avvicinando la loro ora, come già successo ad illustri predecessori come AT&T ed all'impero petrolifero dei Rockefeller. D'altronde il Dipartimento di Giustizia americano ha già tentato, tra la fine degli anni '60 e quella degli anni '90, di smembrare IBM e soprattutto Microsoft, che scampò per un pelo dalle grinfie dell'Antitrust americano e che ora è più che raddoppiata.
Chiunque abbia studiato un minimo la contemporaneità conosce la tremenda vicenda dei cartelli della chimica e dell'acciaio del capitalismo renano nel periodo antebellico e tra le due Guerre, e la responsabilità che ebbero nel portare l'Europa verso il fascismo e l'ecatombe.
Per quanto si possa dissentire con gran parte delle analisi degli economisti friburghesi, che avevano ben presente quella catastrofe e a cui era stato affidato in gran parte il compito di costruire la Repubblica Federale Tedesca dalle macerie della II Guerra mondiale, non si può non concordare con la loro lettura del fenomeno monopolistico come dannoso non solo per il capitalismo, ma anche per la stessa struttura politico-legale dell'economia e dello Stato; detto altrimenti, la concentrazione del potere economico non solo cancellerebbe le libertà economiche, ma, traducendosi in potere politico, finirebbe per erodere anche le libertà politiche ed i più basilari diritti democratici dei cittadini. In quest'ottica (concesso, con anche notevoli sfumature di significato) regolazione e attività antitrust, lungi dal rappresentare inopinate intromissioni nei meccanismi omeostatici dei mercati, sono invece fondamentali al fine di mantenere un'economia di mercato anche solo minimamente funzionante e accettabile mettendo al sicuro dagli esiti ultimi peggiori del capitalismo un ordine sociopolitico libero.
A questa analisi tutto sommato facilmente condivisibile e di buonsenso si contrappone da sempre una cultura (e cultura politica) “capitalistico-nazionale” tipica della destra illiberale, che si nutre dei miti randiani del'imprenditore-Atlante e dell'individualista-eroe e che vede nella grandezza dei conglomerati capitalistici un riflesso della gloria e della potenza della nazione. È facile, in questa luce, comprendere la reazione scomposta di Donald Trump. Della diffusione questa narrazione, magari rinverdita con un tocco “smart” per non far sembrare la versione californiana troppo simile alle fuligginose versioni detroitiane e manchesteriane, è molto probabile che beneficino le grandi aziende dell'era di internet, per evitare ancora per qualche tempo di finire in Patria sotto la scure della politica.
L'Unione Europea ha agito dunque giustamente multando Google, ma purtroppo è dubbio che ciò basti a fermare la crescita di dimensioni aziendali che, spinta anche dalla febbre del ricco settore finanziario specializzato in Mergers&Acquisitions, con alterne vicende, sembra riguardare tutti i poli più profittevoli del capitalismo del XXI secolo: oltre all'informatica e ad internet l'esempio connesso più noto è di sicuro il settore dell'intrattenimento. A livello mondiale, infatti, i trustbusters in questo momento sembrano scarseggiare.
Il web ha rappresentato uno spazio di mercato in cui le multinazionali dell'elettronica e dell'informatica si sono buttate a capofitto negli ultimi decenni, capitalizzando profitti ed edificando imperi che si sono rivelati più effimeri di quanto sembrasse per quello che veniva spacciato come il nuovo mondo della produzione immateriale.
Questo mercato che poteva sembrare in espansione infinita ha in realtà mostrato le sue ampie barriere. Oggi, con il ritorno all'economia dei dazi, indubbiamente ci sarà un'ulteriore partizione che si aggiungerà a quella già determinata dai sopraggiunti limiti di valorizzazione.
Le multe per la tutela della concorrenza e di una presunta privacy (feticcio di una società che ha fatto del web soprattutto un grande Panopticon), risultano più strumenti politici per arginare determinati monopoli che si sono ingigantiti a tal punto da risultare scomodi a grandi potenze statali, che strumenti per ristabilire un qualsiasi idealtipo di giustizia. Siamo qui al paradosso di una società che crea una macchina in grado di schedarci, canalizzare e indirizzare le nostre preferenze ma che pretende di avere la faccia pulita e di essere equa tra i vari competitor che si spartiscono il bottino delle nostre vite di consumatori.
Quasi un anno fa esatto affrontai il tema dei colossi della Silicon Valley in questo articolo, definendoli «minacciosi giganti che sono usciti dalla culla» e ponendo l’accento sulla loro sempre più radicata intrusione nel potere politico (lo scandalo Cambridge Analytica, scoppiato a marzo 2018, è stato solo il manifestarsi della punta di un iceberg ormai già da tempo consolidatosi), intrusione che, unita alla raccolta e manipolazione dei dati personali degli utenti, rischia di trasformare il vecchio complesso militare-industriale in «un complesso “informativo-repressivo” che, come e più che nella distopia di Huxley, riproduce in serie l’uomo a sua immagine e somiglianza». Conclusi infine con il caso Apple, multata dalla UE ma difesa dall’Irlanda.
Il fatturato di Apple nel 2016 è stato pari a quasi il 75% del PIL irlandese, ma solo a poco più dell’1% del PIL europeo aggregato; è evidente quindi che solo poteri esecutivi di scala continentale possono efficacemente imporsi ai monopoli, invece di subirne il potere.
Un caso del tutto diverso è quando è proprio un forte potere politico a spalleggiare il monopolio: questo è accaduto con le esternazioni del capo di Stato nordamericano Trump che via Twitter ha minacciato l’Unione Europea facendole sapere che non potrà “approfittarsi degli Stati Uniti ancora a lungo”. Comportamento ben diverso da un illustre precedente: quello dell’amministrazione Clinton, che nel 1998 portò in tribunale la Microsoft accusandola di violare la legislazione antitrust tramite l’abbinamento forzosi di propri prodotti al sistema operativo Windows. La medesima motivazione portò la Commissione Europea ad avviare nello stesso periodo le indagini che si conclusero infine con una serie di pesantissime multe (anche negli Stati Uniti la Corte Suprema si pronunciò contro la Microsoft).
L’allora Commissario alla Concorrenza, il prof. Mario Monti, sostenne in seguito che il rifiuto della UE di accettare il compromesso proposto da Microsoft fu dovuto alla volontà di stabilire un precedente giuridico riguardo l’abuso di posizione dominante nelle tecnologie di informazione e comunicazione, particolarmente esposte a rischi di monopolio per via della velocità con cui i dati vengono trasmessi, e commentò infine: «L’Europa è forte se decide di esserlo».
La vicenda Google dimostra oggi come le potenzialità europee siano anche superiori a quelle degli Stati Uniti, ma non possano però venire sviluppate a pieno per le carenze della sua attuale struttura politica.
Lo strapotere dei giganti del web è dovuto a un sistema economico globalizzato fatto su misura per loro. Nella competizione globale, attirare gli investimenti diventa essenziale. Uno stato che non riesce ad attrarre multinazionali straniere è destinato a rimanere indietro e rischia nel lungo termine di subire grossi shock economici. Questo vale anche per paesi con un enorme mercato interno come la Cina, l’India e gli stessi Stati Uniti. In questo contesto, si scatena una gigantesca corsa al ribasso: si offrono regimi fiscali sempre più accomodanti per fare in modo che le imprese vengano da te e non da un’altra parte. In questo modo le multinazionali finiscono per pagare pochissime tasse, potendo fluttuare da un regime fiscale all’altro a seconda della convenienza. Per i colossi dell’internet economy, che per definizione sono legati all’economia digitale, questo giochino risulta ancora più efficace poiché la presenza nel mondo del web gli permette di eludere facilmente il pagamento delle imposte in tutti i paesi nei quali non hanno sede legale ma nei quali offrono comunque i loro servizi. Anche dal punto di vista normativo, il controllo su queste piovre del digitale risulta estremamente complesso data la disomogeneità delle sistemi giuridici.
Con tutti i difetti che può avere l’Unione Europea, bisogna però almeno riconoscerle di essere l’entità politica più interessata ad una più equa tassazione e ad un più stretto controllo su queste immense imprese digitali. I primi segnali di un cambiamento di atteggiamento cominciano a vedersi solo ora. Ciò però sta avvenendo in maniera decisamente troppo timida per quanto riguarda la tassazione (si sta facendo finalmente e giustamente largo il principio che si pagano le tasse dove si produce un servizio ma con aliquote per ora davvero irrisorie) e in maniera assolutamente sgangherata per quanto riguarda il non meno delicato problema del controllo politico e normativo (la legge sul diritto d’autore proposta in sede europea contiene dei giusti principi di tutela ma allo stato attuale è un pastrocchio totale), segno che non ci sono ricette facili per disciplinare una realtà complessa e in continuo cambiamento. Non saranno le multe sulla violazione del principio di concorrenza che potranno permettere di vincere il braccio di ferro contro le multinazionali della Silicon Valley. Serve invece quella volontà politica di imporre regole precise e una tassazione equa che pare però allo stato attuale molto flebile.