Su questa delicata vicenda, il 10 mani della settimana
Il Partito della Sinistra Europea è nato – come progetto di medio periodo – dall'esigenza di fare chiarezza nel campo della sinistra radicale dopo la fine del “secolo breve” e dopo il fallimento politico dell'opzione eurocomunista, dovuto da un lato al mutare delle condizioni socioeconomiche e dall'altro alla prematura scomparsa di Berlinguer.
Il gruppo all'europarlamento (che non è mai diventato né è mai voluto diventare qualcosa di più) della Sinistra Unitaria Europea-Sinistra Verde Nordica (GUE-NGL) era ed è tuttora, infatti, una legittima collaborazione tattica e non un soggetto legato da una qualche comunanza ideologica, e questo non può non ripercuotersi, in mancanza d'altro, sulle reali possibilità di incidere della sinistra radicale a livello europeo, oltre che sulla sua credibilità.
Basta scorrere la lista dei membri, dai danesi euroscettici del movimento contro la UE – membri di un partito europeo di cui fa parte anche il fascistoide Debout la France – agli animalisti olandesi allo Sinn Féin irlandese, passando per Podemos e SYRIZA, per avere un'idea delle palesi linee di frattura che percorrono il GUE-NGL.
Creare, tramite un vero e proprio partito europeo, uno spazio per quei soggetti della sinistra in Europa che condividessero l'esigenza di superare in positivo alcuni teoremi ideologici del novecento e si impegnassero in un cammino di convergenza nell'innovazione ideologica e nella prassi politica, era sicuramente un'idea dirompente e controversa (e in questo stava gran parte del suo pregio), sicuramente non interessante per soggetti identitari ed ideologicamente conservatori – come la gran parte dei partiti nominalmente comunisti dei Paesi del sud Europa, Italia esclusa – o per quei soggetti che si sono sempre posti al di fuori del perimetro della sinistra propriamente detta – come i soggetti single-issue euroscettici nordici –, ma a cui francamente ad oggi stento ad immaginarmi un'alternativa realistica.
Il vero problema semmai è che quel progetto è sostanzialmente fallito: dopo il disastro di Rifondazione Comunista è mancato il coraggio di spingere sull'integrazione reciproca tra i componenti perché è mancato un vero progetto politico comune, la forza attrattiva sulle sezioni più innovative di movimenti e partiti al di fuori del perimetro originario della SE non si è materializzata, e – di nuovo, in mancanza di qualcosa di condiviso – addirittura soggetti fondatori sono stati, col tempo, attratti dalle sirene di opzioni politiche radicalmente divergenti.
È il caso del Parti de Gauche e della sua più ampia reincarnazione France Insoumise, che con Podemos e Bloco portoghese, con cui ha recentemente siglato un vago manifesto di intenti a Lisbona, punta evidentemente a costituire un polo attorno ad un “populismo di sinistra” euroscettico e antisocialista. Un'ambizione legittima quanto malamente coperta dalle accuse senza sconti contro gli ex partner della Sinistra europea, che parlano più delle nevrosi del leader della formazione francese che di reali questioni politiche.
Non è detto che un chiarimento lungo linee definite sia un male, sempre che si verifichi davvero. Anzi, date le contemporanee divisioni nel campo socialista tra filo- ed anti- macroniani, è molto probabile che sia un bene. I partiti del manifesto di Lisbona potrebbero infatti continuare a godere della purezza garantita dalla comunanza tra progetti simili, una parte più pragmatica della SE – dalla Linke al PCF a SYRIZA – potrebbe cercare di attirare pezzi di socialismo europeo antimacroniano attorno ad un programma innovativo, i partiti più identitari potrebbero infine sognare liberamente una rivoluzione nazionale puramente bolscevica dalle aule dell'europarlamento.
Tutti potrebbero liberamente scegliere se collaborare o meno, accettandone le conseguenze.
L'alternativa è il rassicurante, ma forse sterile, status quo. O il tifo davanti ad uno schermo.
Piergiorgio Desantis
La vicenda che riguarda il Partito della Sinistra Europea e la recente uscita dallo stesso ad opera del Parti de Gauche non si capirebbe bene senza un minimo di excursus storico riguardante proprio la stessa forza politica europea di cui si parla.
La sinistra europea (SE) nasce nel 2004 a Roma, dove si tiene il congresso fondativo, su iniziativa di una serie di partiti di sinistra, socialisti, comunisti e verdi. Tra gli altri, l’iniziativa viene presa in Italia dal Partito della Rifondazione Comunista con il suo segretario Bertinotti che, sostanzialmente, decide di avviare questa esperienza, di cui, tra l’altro, diventa il primo presidente (giusto per far capire l’importanza svolta dallo stesso partito italiano). Essa si caratterizza fin dall’inizio come una parziale differenziazione rispetto al Gue, ovvero il gruppo che si pone a sinistra del Partito del Socialismo Europeo.
È un’operazione di vertice (almeno io stesso l’ho vissuta così dall’interno del PRC) in cui sin dai documenti iniziali si caratterizza per la cesura con il Novecento e con le esperienze e le pratiche del movimento operaio e democratico (la cui esperienza si considera esaurita); ciò viene giustificato per la volontà di aprirsi totalmente ai movimenti (dal movimento femminista, a quello ambientalista fino al movimento dei movimenti contro la guerra in Iraq, a quel tempo) con più di qualche eco a argomenti analoghi che portarono allo scioglimento del PCI nel ‘91. Naturalmente non partecipano alla fondazione (ma alcuni di questi scelgono di essere osservatori esterni) partiti molto importanti e significativi (dal punto di vista del dibattito oltreché da quello dei consensi elettorali) come, ad esempio, il Partito Comunista portoghese (PCP) e il Partito Comunista di Boemia e Moravia (KSCM) o il Partito comunista greco (KKE).
A distanza di ben quasi tre lustri emerge (purtroppo, perché non c’è nulla da essere contenti) un mezzo fallimento del progetto alla luce non solo dell’uscita da esso di Melenchon (la cui ascendenza trozkista, con tutta la sua dose di protagonismo, è difficile da non vedere) ma anche perché dei movimenti che avrebbero guidato la sinistra a livello europeo fuori dalle secche o dall’estinzione (come è quasi avvenuto in Italia) si è persa (purtroppo, ancora una volta) traccia.
Ecco da una frammentazione della sinistra non nasce niente, verrebbe voglia di dire.
I tempi sono molto difficili per la Sinistra in Europa e in Occidente (a altre latitudini è diverso il discorso) pertanto ci sarebbe bisogno di rilanciare il GUE a livello europeo e mettere insieme le forze (che ci vogliono stare) con una chiara impostazione antiliberista e di critica a questo modello di Europa.
Si sono sprecati paragoni storici, ma se proprio vogliamo continuare a divertirci nell’esercitare la memoria, questa fase non è paragonabile a quella della divisione tra socialisti e comunisti sui crediti di guerra della Prima Guerra mondiale; ma, forzando e usando una larga dose di meccanicismo, essa si potrebbe avvicinare a quella dell’unità dei Fronti popolari (il nemico che abbiamo davanti ci sovrasta ed è assai più forte e il suo modo di produzione non è messo in discussione concretamente). Forse, solo il buonsenso dovrebbe condurci a mettere insieme le poche forze che abbiamo (che non ambiscono lontanamente a avere un orizzonte di governo) per affrontare la lunga crisi che il capitalismo occidentale attraversa in fondo alla quale, ancora, non c’è luce, ma solo un orizzonte di resistenza.
Al di là del fatto che si condivida o meno la proposta di una sinistra europeista, mi pare di capire che la rottura in atto sia sul progetto politico di breve periodo. Non che questo renda meno grave la frattura avvenuta tra il Parti de Gauche (PG) e la Sinistra Europea. Se andiamo a leggere la motivazione rilasciata durante il Congresso del partito mi pare che vi sia estrema chiarezza sulla natura di tale rottura: “a un anno dalle elezioni europee non è più possibile unire nello stesso partito europeo gli avversari e gli autori dell’austerità. […] Syriza è diventata la rappresentante della linea dell’austerità in Grecia al punto che ha attaccato il diritto allo sciopero, ha abbassato drasticamente le pensioni, privatizzato settori interi dell’economia; tutte misure contro le quali i nostri partiti si battono in ciascun paese”.
Insomma, non si può stare con il piede in due scarpe. Se Syriza decide di firmare il memorandum sul debito, accettando di fare austerità in Grecia, non si può pretendere di risultare in opposizione a tali politiche in Europa. Già per questo motivo a gennaio il PG aveva avanzato alla SE la richiesta di espulsione di Syriza.
Di fronte alla chiusura dai vertici della SE e alle crescenti polemiche tra Tsipras e Mélenchon si è arrivati alla definitiva rottura.
Il punto nodale da sciogliere anche in Italia per la rinascita di una Sinistra di classe resta l'approccio all'Unione Europea. Una strategia riformista nei confronti di questo blocco imperialista risulta essere sempre più come una strategia fallace, rivolta a favorire unicamente l’estrema destra come la sola forza anti-UE. Occorrerebbe prendere atto della necessità di una forte contrapposizione a questo blocco, senza perdersi tra le pastoie di una sterile contrapposizione tra "sovranisti" e "internazionalisti".
Probabilmente è chiedere troppo per le sparute forze della sinistra odierna, ma non intravedo un'altra strada nel breve periodo per uscire dalle secche in cui siamo finiti.
La situazione francese è complicata da tempo, con un partito comunista dalla gloriosa storia e dal discutibile presente (o passato recente). Il ruolo di questa organizzazione (PCF) all'interno della Sinistra Europea spiega almeno in parte la disinvoltura con cui Mélenchon ha scelto di usare la Grecia per aumentare ulteriormente il consenso attorno al suo carisma.
Si può accettare ogni critica sulle capacità degli eredi del blocco comunista europeo. Ma raramente si è assistito all'indegno fuoco amico con cui il popolo greco è finito per diventare una labile bandiera.
A chi interessano i progetti collettivi?
Io appartengo a una ridotta che contestava l'ambizione di governo di Syriza ma che è abituato a non tirare il remo sulla testa dei compagni di viaggio che stanno affogando.
Ma sono sentimenti rari in tempi di massima individualizzazione, favorita dall'esposizione sui social.
In realtà il campo comune realmente sentito (perché permette di accedere ai fondi) è quello del gruppo europeo. Lì Podemos aveva già trovato agibilità, anche quando sembrava distante la sua collocazione ufficiale "a sinistra".
Il Partito della Sinistra Europea rimane un ulteriore fallimento della Rifondazione pensata da Bertinotti, a cui noi critici dovremmo guardare senza soddisfazione, data la totale assenza di alternative dopo oltre dieci anni.
Cosa provare a fare, quindi? Praticare la politica in modo diverso e sperare di non assomigliare ai protagonisti di un inizio del nuovo millennio a cui difficilmente si penserà con un minimo di simpatia.
La rottura decisa dal «tribuno» Mélenchon contro la Sinistra Europea è un atto politico spregiudicato e gravissimo, per due motivi.
In primo luogo, perché è stato pianificato adottando come pretesto l’attacco frontale all’unico partito della Sinistra Europea attualmente al governo, ossia il greco Syriza.
In secondo luogo, perché contribuisce a distruggere la connotazione europeista della sinistra radical-comunista, già del resto messa a rischio dal sostegno dei comunisti cechi al governo social-fascista di Babiš.
Giova inoltre ricordare che, dal punto di vista meramente formale, lo strappo è pochissima cosa per il semplice motivo che riguarda solo il Parti de Gauche, la formazione lanciata dieci anni fa da Mélenchon uscendo dal Partito Socialista e tuttora provvista di un consenso assai ridotto. La consistente forza elettorale di Mélenchon (20% dei voti alle ultime presidenziali) è infatti tutta personale, centrata sui comitati del movimento “La France insoumise”. Per fornire un’idea, secondo i dati reperibili sulla stampa l’ordine di grandezza è all’incirca di un iscritto al Parti de Gauche per ogni 10 al Partito comunista e per ogni 100 militanti de La France insoumise, forza populista che ha cannibalizzato la sinistra radicale.
Da un lato, Mélenchon si innesta certamente su un ramo fortissimo dell’identità nazionale francese, ossia lo stretto nesso tra partecipazione popolare e indipendenza nazionale, un’asserzione eccezionalista che trova la propria radice nella Rivoluzione del 1789. D’altro canto, Mélenchon ha proposto già nel 2015 un “piano B” per l’uscita dall’euro e pare amarlo così tanto da volerlo adottare ad ogni costo, lasciando alle ragnatele il piano A.
Nell’aprile-maggio 2017 evitò di schierarsi per Macron al ballottaggio, dicendo soltanto che non avrebbe votato la sua avversaria fascista Marine Le Pen. A cui però fece buona compagnia a luglio, negando le responsabilità francesi nel rastrellamento del Velodromo che portò nei campi di sterminio tredicimila ebrei.
Questa contiguità alle forze fasciste è del resto tipica di una certa area del Partito Socialista che ha visto nel regime di Vichy la via per edificare un neo-socialismo fondato sulla pianificazione corporativa – tra i nomi eccellenti anche un noto italiano: Angelo Tasca.
L’odio che anima Mélenchon, e che affonda probabilmente nell’invidia per non aver realizzato le ambizioni del suo ego smisurato, si rivolge non soltanto contro l’Europa o contro la Francia, lacerando in partenza possibili alleanze frontiste contro il fascismo, ma ora anche contro i suoi stessi compagni (?) nella Sinistra Europea, rinfocolando la polemica nazionalista contro un altro importante partito come la Linke tedesca (già pesantemente irritata dal negazionismo sul Velodromo).
La sua storia e la sua cultura politiche sono, come si è visto, pressoché opposte a quelle del «partito dei fucilati», il Partito comunista francese che deve tale sobriquet ai suoi settantacinquemila partigiani caduti. Ma in Francia, come in altri Paesi europei, il mancato rinnovamento post-1989 o, prima ancora, la scarsa attenzione alle condizioni specifiche nazionali, hanno reso le forze comuniste assolutamente marginali e semmai clienti di operazioni “populiste” davvero lontane dalla Weltanschauung marxista.
Si sono riposte troppe speranze in Syriza e nel suo giovane e carismatico leader Tsipras.
Che la piccola e periferica Grecia potesse cambiare il destino di mezzo miliardo di europei, piegando la Troika e mettendo fine alle politiche ordoliberiste austeritarie, era francamente un abbaglio clamoroso.
Certo, si potrà affermare che se almeno Syriza avesse provato la strada delle rottura con l'UE, visto che aveva poco da perdere, almeno avrebbe dato un messaggio chiaro: la sinistra c'è e rappresenta un'alternativa vera. In questo modo invece, ai partiti della sinistra radicale in Europa non resta altro che l'imbarazzo di aver supportato una formazione politica che ha fatto quello che faceva anche la sinistra moderata (gestire le politiche liberiste e accontentarsi di piccole battaglie simboliche). Ma davvero le cose sarebbero state molto più positive per la credibilità della sinistra se Syriza avesse preso la radicale decisione dell'uscita dall'euro o addirittura dall'UE? In realtà la Troika non avrebbe mai permesso che la Grecia si riprendesse. Era in ballo la sua credibilità. Una Grecia fuori dall'Euro in crescita economica sarebbe stato un disastro per la governance liberista europea. Il fallimento dunque di un piano alternativo per la Grecia era pressoché inevitabile. Il risultato sarebbe stato sotto gli occhi di tutti: la sinistra radicale quando va al governo, produce solo disastri economici (la strategia della guerra economica non è certo una novità): noi, la Troika siamo il male minore. Morale della favola: non è detto che se Syriza avesse preso un'altra strada ora la sinistra radicale in Europa sarebbe in grande spolvero, anzi.
La decisione del Parti de Gauche è dunque sostanzialmente egoistica (non vogliamo mettere la nostra faccia insieme a chi ha "tradito"). Ma chi ha "tradito" in realtà ha semplicemente fallito e ha fallito perché non poteva che fallire. La dura realtà è che prima di rivoltare come un calzino l'Europa, occorre una sinistra forte in molti paesi, sopratutto quelli di maggior peso politico ed economico. Qua invece c'era chi pensava di stravolgere l'Europa e dopo creare una sinistra forte.
Il problema è dunque più profondo: non si tratta di chi tradisce ma di come trovare un'alternativa. L'acronimo che amava usare la Tatcher, TINA (There is no alternative), non era solo propaganda, ma rappresentava l'immagine di un mondo in cui chi ha un programma politico di reale cambiamento è destinato a fallire per via di un sistema di governance mondiale che restringe lo spazio di manovra e di iniziativa del politico enormemente. L'unica cosa che si può fare è quella di lottare compatti per accrescere i consensi, la fiducia e l'egemonia.
Invece di litigare e dividersi, la situazione greca sarebbe dovuta essere l'occasione per imparare che nelle condizioni attuali fare la rivoluzione è impossibile e che occorre lavorare insieme ancora a lungo. Le accuse di tradimento e le ripicche non ci porteranno lontano, sia che la parola d'ordine sia l'uscita dall'UE che una lotta interna per riformarla.