Giovedì, 11 Dicembre 2014 00:00

Deutschland über alles

Scritto da
Vota questo articolo
(2 Voti)

Deflazione salariale tedesca, aiuti di stato all’industria tedesca, gigantesco export tedesco. Come la destra tedesca reca danno grave agli altri paesi europei violando impunemente i Trattati dell’Unione Europea.

La cancelliera tedesca Merkel ha recentemente rimproverato a Italia e Francia di violare gli impegni definiti dai Trattati fondativi dell’Unione Europea o dai più recenti patti in tema di “austerità”, cioè di riduzioni del debito (l’Italia) o del deficit (la Francia) attraverso tagli alla spesa. Ma la Germania è davvero a posto in fatto di impegni? Inoltre, rappresenta davvero un modello sociale encomiabile, grazie al quale vrebbe retto meglio la crisi (come ritengono da un pezzo i governi italiani)?

A partire dal 2003, da ben prima della crisi, fu introdotto dal governo tedesco di coalizione socialdemocratico-verde il sistema dei mini-jobs, dando così una coltellata definitiva al primato del contratto nazionale di lavoro, cioè portando la Germania al primato del contratto tra impresa e singolo lavoratore, in precedenza accessorio. I mini-jobs sono di due tipi. La loro forma di gran lunga più diffusa (oggi coinvolge circa 7 milioni 300 mila lavoratori, soprattutto donne, inoltre giovani e immigrati: un lavoratore dipendente tedesco su quattro) si basa su contratti di lavoro che attualmente prevedono per legge il versamento al lavoratore da parte dell’imprenditore di 450 euro mensili, integrati in forma di aiuti sociali da parte dello stato per altri 250-350 euro. Ai 450 euro versati dall’imprenditore vanno aggiunti sempre come suoi versamenti 135 euro mensili, un po’ più di metà indirizzati alla previdenza sociale e un po’ meno di metà al sistema sanitario. L’imprenditore inoltre paga nientepopodimeno una cifra pari al 2% del versamento salariale al fisco, cioè 9 euro al mese. Riassumendo, l’imprenditore dispone del singolo lavoratore versando complessivamente 594 euro mensili, mentre lo stato versa al netto una cifra che va da 106 a 206 euro mensili. Si badi: “mini” non significa necessariamente lavoro a part-time: usualmente il contratto copre venti ore a settimana, ma esso, essendo tra imprenditore e singolo lavoratore, può anche impegnare quest’ultimo a un orario lavorativo superiore a quello del lavoratore assunto a condizioni normali. È un contratto, poi, che dura un anno: poi è si è riassunto o si è a spasso. Il lavoratore non ha diritto a vacanze pagate e non è pagato in caso di malattia. Infine degli oltre 7 milioni di lavoratori a mini-job oltre 5 non hanno altra attività lavorativa. È chiaro cosa significhi questa condizione lavorativa riguardo alla futura condizione pensionistica: identica se non peggiore rispetto a quella definita dalle infami “riforme” pensionistiche di questi anni a danno dei lavoratori italiani, cioè l’impossibilità di arrivare con i soldi a fine mese, e per moltissimi neanche a metà mese. A tutto questo va aggiunta l’esistenza di una seconda forma, meno delinquenziale ma non tanto, di mini-jobs: che prevede la possibilità di retribuzioni mensili da parte imprenditoriale oscillanti tra i 401 e gli 850 euro. Anche qui per gli imprenditori ci sono vantaggi fiscali ed essi possono fare quello che gli pare.

Una risposta che non ho a oggi udito dal lato del governo italiano alle arroganti uscite della Merkel è che i mini-jobs tedeschi sono aiuti di stato alle imprese: ciò che è tassativamente vietato dai Trattati europei, dato che alterano la concorrenza di mercato ovvero creano un vantaggio competitivo che può risultare a favore schiacciante dell’offerta di mercato del paese che tali aiuti pratichi. La Germania dispone di un forte export commerciale: eccone il fattore principale, un prezzo della forza lavoro inferiore alla media europea occidentale; ed ecco anche un fattore importante della crisi industriale di paesi altamente industrializzati come l’Italia e la Francia. Si parla e straparla del vantaggio competitivo della Germania come proveniente dall’alta produttività delle sue imprese: dimenticando di aggiungere che l’alta produttività non è data solo dagli investimenti tecnologici ma anche dal contenimento delle richieste salariali dei lavoratori, anzi, meglio ancora, com’è nel caso tedesco, dall’abbattimento tramite l’iniziativa dello stato dei livelli salariali per una parte congrua (un quarto) delle forze di lavoro.

Giova infine aggiungere che grazie alle sue “riforme” salariali la Germania ha un export che supera il 6% del suo PIL: cosa anch’essa vietata dai Trattati. Ma la Germania risulta non solo intoccabile dai cerberi della Commissione Europea ma continua a fare carte in Europa: dato che in essa comandano le borghesie ricche e la deflazione salariale torna loro comodissima, assieme alla speculazione finanziaria, sul piano dell’incremento della loro ricchezza, che infatti nella crisi allegramente continua, Figure secondarie del governo italiano hanno risposto protestando all’uscita della Merkel. Ma si tratta delle solite chiacchiere di facciata, dato che la sostanza degli obiettivi di governo è la stessa in Germania e in Italia: la deflazione salariale, dunque l’adempimento dell’obiettivo vero dell’“austerità”, lo spostamento di reddito dal basso verso l’alto della scala sociale.

Ultima modifica il Mercoledì, 10 Dicembre 2014 12:49
Luigi Vinci

Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.

Devi effettuare il login per inviare commenti

Free Joomla! template by L.THEME

Questo sito NON utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti.