Venerdì, 10 Aprile 2015 00:00

Contro eurocentrismo e senso comune - Intervista a Borgognone

Scritto da
Vota questo articolo
(5 Voti)

I lettori della nostra testata hanno avuto modo di conoscere buona parte delle opinioni dei beccai (spesso non coincidenti ma su alcune questioni molto chiare e nette). Siamo consapevoli che in questa intervista alcune risposte potranno creare perplessità e che alcuni passaggi sono, per quanto ci riguarda, non condivisibili. Riteniamo però la disponibilità dell'autore un'occasione per evidenziare questioni su cui troppo spesso la sinistra sorvola e su cui torneremo, tentando di argomentare le nostre posizioni.

1) Sia in un tuo precedente lavoro che nel recente La sinistra assente di Losurdo, emerge come la politica internazionale misuri l’inadeguatezza della classe politica europea. Come sei arrivato a scegliere di scrivere proprio di Russia?

Questo libro è frutto di un interesse nei confronti del mondo russo e slavo-ortodosso che, da parte mia, risale agli anni in cui, smantellata l’URSS e distrutta la Jugoslavia, la classe politica europea, per tramite del comparto mediatico di complemento agli interessi capitalistici e imperialistici nordamericani che rappresenta, si è ampiamente prodigata in un’azione pervicace di demonizzazione di ogni forma di resistenza politica e sociale, attuata dai popoli e da determinate forze politiche di Paesi quali Russia e Serbia, ai menzionati processi geopolitici di smantellamento e distruzione.

Inoltre, questo libro è una risposta a chi, soprattutto a sinistra, si ostina a percepire tutto ciò che, culturalmente e politicamente, si trova a esulare da precostituiti schemini ideologici di riferimento di rodata matrice eurocentrica ed ispirati all’apologia di quella «retorica democratica» discussa e analizzata da Luciano Canfora in un suo celebre saggio, come cedimenti “autoritari” al “nazionalismo”, al “tradizionalismo”, a forme “anti-moderne” di gestione delle dinamiche socio-politiche e finanche al “fascismo”.

Vorrei ricordare che furono esponenti intellettuali della sinistra cosiddetta radicale a coniare, nel 1999, l’antistorico e diffamatorio slogan del «fascismo serbo» per stigmatizzare la resistenza opposta dal governo e dalle forze politiche patriottiche della Jugoslavia (con ampio seguito popolare in quel drammatico frangente storico) all’aggressione militare condotta dalla NATO contro la Federazione jugoslava per la questione del Kosovo.

Quella guerra fu detta “umanitaria” e “di sinistra” e la maggioranza dell’allora sinistra “di alternativa” affermò esplicitamente lo slogan Né con la NATO né con Milosevic, sostenendo che la NATO era un’organizzazione «guerrafondaia» (guai a utilizzare il termine “imperialista” o “neocoloniale”) e che pertanto andava condannata, ma che, al contempo, Milosevic era un «nazionalista», un «nazionalcomunista» e un «rosso-bruno», e che dunque sarebbe stata provvidenziale una sua “sostituzione” politica per via di una Velvet Revolution a Belgrado. La “rivoluzione pacifica” come soft power neocoloniale di una sinistra postmoderna e postdemocratica (o iper-democrarica, o iper-libertaria) che avversava l’hard power della NATO perché militarista e «violento» ma non esitava a uscire in edicola, con i suoi giornali, con titoli come Belgrado ride il 5 ottobre 2000, nel momento in cui il golpe postmoderno (Bulldozer Revolution), sostanzialmente realizzato dalla locale classe media occidentalizzante, travolse l’ultimo Stato postsocialista non allineato alle logiche di dominio neocoloniale della NATO in Europa. Il radicalismo subalterno della sinistra postmoderna è l’ultimo rifugio politico delle cannoniere NATO, quando queste non riescono (o non possono) a condurre a termine la propria mission militar-aziendale.

Ricordo che in quel 1999-2000 uscirono, a sinistra, pochi lavori scientifici e giornalistici destinati a confutare la slavofobia imperante tra i ranghi dei postmodernisti. Tra questi un lavoro collettivo curato dal professor Domenico Losurdo (Dal Medio Oriente ai Balcani. L’alba di sangue del secolo americano, La Città del Sole), un lavoro di Stefano G. Azzarà sulla globalizzazione come imperialismo del XXI secolo (Globalizzazione e imperialismo, La Città del Sole), un libro di Enrico Vigna (Kosovo “liberato”, La Città del Sole) e le corrispondenze, “dal campo”, di Fulvio Grimaldi (regolarmente censurate dai quotidiani della sinistra radicale). Io penso veramente che il 1999 fu l’anno in cui la russofobia, malattia antica della cultura politica liberaldemocratica, liberalsocialista e comunista libertaria italiana, fu esplicitamente utilizzata come arma politica per tracciare una linea di separazione invalicabile tra “noi” e “loro”: da “questa” parte, i liberali, i “democratici”, i progressisti; dall’“altra parte”, i nostalgici dello stalinismo, i “barbari” da convertire, in un modo o nell’altro, alla “democrazia liberale”, i fantasmi “rosso-bruni”, ecc.

Naturalmente, in quel 1999 io avevo già scelto da che parte stare e la parte che scelsi era quella la più distante possibile dal Politicamente Corretto e da ogni forma di russofobia, anche quando questa viene giustificata facendo riferimento (e snaturandone e violentandone i significati più autentici, ossia di lotta di liberazione anticoloniale funzionale all’emancipazione nazionale e sociale, collettiva, di classe, di genere) all’“antifascismo” dei liberali (di destra e di sinistra) e dei libertari come copertura ideologica per “guerre umanitarie” e “rivoluzioni colorate” in ogni angolo del globo non ancora sottomesso all’antropologia della fine capitalistica della Storia.

2) Se avessi scelto di scrivere di Medio Oriente, saresti probabilmente andato incontro a meno polemiche. Sarebbe corretto dire che Capire la Russia è stato accolto con meno diffidenza in ambienti lontani dalla sinistra tradizionale italiana?

Ho scritto di Medioriente in passato (La disinformazione e la formazione del consenso attraverso i media. Vol. 2: La disinformazione strategica come propaganda di guerra (infowar). Analisi geopolitica degli scenari eurasiatico e mediorientale, prefazione di Diego Siragusa, Zambon, 2013) e ho intenzione di scriverne ancora (nel 2011 e nel 2012 ho scritto un libro sull’Iran e uno sul Libano che mi saranno pubblicati in seguito) e devo dire che effettivamente vi sono state meno polemiche perché le avanguardie politiche e mediatiche russofobiche tendono a focalizzare l’attenzione sulla resistenza di un popolo palestinese mai specificato, per evitare le polemiche di cui sopra, sotto il profilo politico o ideologico (mentre nel 2006 i palestinesi votarono in maggioranza a “destra”, per il semplice fatto che, in quel frangente, Hamas rappresentava al meglio le istanze anticoloniali della resistenza rispetto al sostanzialmente compromissorio e screditato Fatah) e a trascurare la pluralità ideologica e culturale dei soggetti politici facenti capo alla resistenza nazionale libanese e, a questo punto, siriana. Non scandalizza alcuno in Libano sapere che la resistenza annovera tra le proprie fila partiti di sinistra (comunisti, baathisti), di destra (nazionalisti siriani, cristiano-patriottici del generale Aoun) e un partito come Hezbollah, onestamente difficile da classificare facendo riferimento all’eurocentrico schema dicotomico destra/sinistra. Lo stesso accade in Siria, oggi, dove vediamo comunisti e patrioti progressisti combattere, fianco a fianco, l’aggressione imperialista contro lo Stato arabo unitario e secolarizzato. Lo stesso in Iran, dove la “sinistra” nel 2009 appoggiò la Velvet Revolution sapientemente orchestrata dalla “giovane borghesia” occidentalizzante di Teheran mentre la “destra” avversò quel tentativo di colpo di Stato. Ora, se Capire la Russia è stato accolto con meno diffidenza dalla “destra” rispetto alla “sinistra” ciò non può stupire ed è propedeutico a convalidare la tesi di cui sopra: l’eurocentrismo e la forma mentis postdemocratica dei cultori altermondialisti di un universalismo neoimperialistico dei “diritti umani”, dei “diritti di libertà individuali”, hanno contaminato pressoché completamente l’immaginario pubblico dei ceti medi semicolti «a Ovest di Minsk», secondo una definizione, presa a prestito da Jürgen Elsӓsser, che mi piace utilizzare.

Questa forma mentis che definirei, sintetizzando e forse schematizzando un po’, “anarco-consumistica”, o “anarco-comunistica”, ossia tesa al dispiegarsi illimitato di un “comunismo del consumo” totalmente compatibile con il paradigma politico-programmatico postnazionale dei sostenitori della globalizzazione economica, politica e culturale, non può che avversare ogni fattore di ostacolo (nazionale, politico, tradizionale, di classe o di genere) all’azione travolgente della globalizzazione culturale (One World), considerando tali fattori (Stati, nazioni, tradizioni popolari, spiritualità religiosa declinata in chiave politica di resistenza ai processi di uniformazione tardocapitalistica) come «residui autoritari» da abbattere sulla via dell’agognata affermazione di una globalizzazione “altra”, ossia di una globalizzazione dei “diritti di libertà” e dei “consumi liberi”, del nomadismo come antropologia unica degli abitanti di un mondo caratterizzato dal desiderio come categoria unica del Politico, dunque come una sorta di vera e propria religione neotribale i cui riti devozionali di adattamento sono perfettamente riconoscibili nelle attitudini superficialmente avvertibili come “trasgressive” e in realtà strettamente funzionali alla perpetuazione e al consolidamento di un modello tardocapitalistico fondato su paradigmi concettuali quali “destrutturazione anarchicheggiante del senso di limite e di frontiera”, “consumo libero” (per chi può permetterselo), “desiderio” e “spettacolo”, delle sopra menzionate moltitudini biopolitiche globalizzate. Essendo la cultura politica dei movimenti di resistenza anticapitalista in Russia scientemente permeata da riferimenti spirituali diametralmente opposti alla sopra citata variante libertaria e nichilistica della teoria di Francis Fukuyama sulla “fine della Storia”, è un fatto che essa non possa, nella fase attuale, attrarre l’attenzione della “postsinistra” eurocentrica.

3) Le ragioni e gli interessi della Russia vengono oggi ritenuti legittimi, in Europa, principalmente da formazioni come Lega Nord e Front National. Il campo progressista pare essersi definitivamente allineato dietro al premio Nobel per la pace Obama. Credi sia principalmente per assenza di corrette informazioni o c’è qualcos’altro?

La sinistra “progressista” odierna combatte il Front National ma non il capitalismo contemporaneo, è ossessionata da categorie concettuali evanescenti (e manipolate ad hoc dai promotori della strategia mediatica di demonizzazione di ogni forma di resistenza a detto capitalismo) come il “rossobrunismo” e si dimostra, fattualmente, politically correct e market friendly. La socialdemocrazia europea è oggi il referente partitico privilegiato e l’apparato politico-propagandistico di punta del neocolonialismo americanocentrico. La sinistra definisce gli Stati postcoloniali (Libia pre-2011, Siria, Venezuela, Cuba, ecc.) «brutali dittature» e i gruppi armati eversivi, spesso animati da sostrati ideologici reazionari quando non direttamente neonazisti, attori protagonisti sul terreno della strategia neoimperialistica della NATO e dei suoi vassalli in ogni angolo del globo, Medioriente in primis, «giovani rivoluzionari», rovesciando di 180 gradi il significato storico e politico dell’idea di rivoluzione, di resistenza anticoloniale e di lotta di liberazione nazionale.

Da una sinistra dichiaratamente “obamiana”, già “clintoniana” e “blairiana”, principale apparato politico di gestione dei processi nichilistici tesi all’affermazione, attraverso la strategia del “caos costruttivo”, dei vaneggiamenti neoliberali concernenti la “fine della storia” e il “trionfo” dell’“ultimo uomo nicciano” (il consumatore nomade sradicato e interamente votato all’antropologia del desiderio, del consumo, del successo individuale e della visibilità massmediatica), colui che, prendendo atto della «morte di Dio», ossia della “fine della Storia”, ritiene che «tutto sia possibile», non è lecito né, da un certo punto di vista, logico, aspettarsi di più e di meglio.

La dissoluzione politica e culturale di detta sinistra nel magma conformistico postmoderno è stata magistralmente descritta da Domenico Losurdo ne La sinistra assente e da Stefano G. Azzarà in Democrazia cercasi, nonché, in passato, da Costanzo Preve, segnatamente in Storia critica del marxismo, un testo mirabilmente capace di sfidare il vero avversario di chi si pone, oggi, in antitesi ai processi di uniformazione tardocapitalistica, ossia il Politicamente Corretto (e non immaginari e francamente poco spaventevoli fantasmi “rosso-bruni”). Molto interessanti, in merito, anche i contributi di Jürgen Elsӓsser e Jean-Claude Michéa.

Occorre infine considerare questa sinistra parte integrante della strategia atlantista di “esportazione della democrazia americana” all’estero e, liberandosi da ogni prospettiva eurocentrica e/o politically correct, ipotizzare “pionieristiche” alleanze anticapitalistiche e anticoloniali di nuovo conio. Nell’aprile 2012 fece scalpore, nei circuiti politici e mediatici della sinistra “di alternativa” la dichiarazione di Costanzo Preve circa la sua preferenza politica, alle imminenti presidenziali francesi, per la candidata del FN, Marine Le Pen, identificata da Preve come la più coerente avversaria del globalismo, dell’atlantismo e del capitalismo liberale in Francia. Preve fu demonizzato come “rosso-bruno” a seguito di un suo interessantissimo articolo, pubblicato in rete con il titolo Se fossi francese. Si disse che Preve, insigne filosofo di scuola hegelo-marxiana, con un passato di militanza trentennale nelle varie formazioni della sinistra anticapitalista e di classe italiana, fosse divenuto un sostenitore dell’“estrema destra” cosiddetta “nazional-comunitarista” o, appunto, “rosso-bruna”.

Ebbene, tre anni dopo la “scandalosa” analisi radicalmente controcorrente elaborata da Preve (analisi sulla quale, lo riconosco, ebbi all’epoca non pochi dubbi anch’io nel momento in cui mi posi il problema di condividerla o meno), Marine Le Pen, satanizzata come «fascista» da buona parte dei mezzi d’informazione liberali e di sinistra europei, afferma esplicitamente il proprio sostegno a Syriza, in occasione delle elezioni parlamentari greche del gennaio 2015, rifiutando con nettezza ogni ipotesi di appoggio politico ai neonazisti di Alba Dorata. In politica estera, Marine Le Pen si schiera a sostegno della sovranità geopolitica della Russia, della Siria e a favore dell’autodeterminazione nazionale e culturale dei russi e degli ucraini russofoni del Donbass. Il paradigma “previano” sul Front National si rivela così in tutta la sua complessità strategica e lungimiranza politica, nel momento in cui la leader di questo partito (un soggetto politico le cui radici ideologiche affondano nel radicalismo conservatore di destra e nella cultura politica reazionaria e filo-coloniale definita «antirepubblicana» in Francia) rifiuta compromessi e alleanze con i neonazisti e riconosce in Syriza, ossia nella sinistra, un potenziale fattore di cambiamento politico in Grecia.

Credo che per non pochi militanti, quadri e dirigenti del FN, fermo restando la carica di opportunismo politico presente nel funzionariato di ogni struttura partitica organizzata, le parole di apprezzamento e supporto di Marine Le Pen e Louis Aliot nei confronti di Syriza non siano state molto più semplici da metabolizzare di quelle pronunciate da Preve nei riguardi del FN nell’aprile 2012, da parte di ciò che rimane della sinistra “tradizionale” in Italia e che pertanto meritino rispetto e attenzione. Sulla scorta di questa serie di riflessioni, ritengo infine tanto obbligata quanto necessaria e giusta, la decisione di Syriza di formare il governo, dopo lo scontato rifiuto del Kke di aprire a logiche coalittive, con un partito di destra (conservatore ma antifascista) e non con i socialdemocratici pro-troika de Il Fiume.

4) Una delle questioni che ritorna in Capire la Russia è il diverso significato del termine democrazia in quel Paese, così come l’assenza di senso rispetto alla dicotomia destra/sinistra. Questi due punti sono forse quelli che creano maggiori difficoltà per comprendere un realtà in questo così distante da noi?

Questi due punti sono distanti da chi si è politicamente formato nel novero di uno schema dicotomico destra/sinistra frutto dell’evoluzione storica europea; frutto dell’evoluzione storica di una cultura politica europea che ha sostanzialmente sempre considerato la Russia un corpo estraneo, una “terra incognita” eminentemente asiatica e dunque ipso facto una minaccia per la “civiltà europea”. Per quanto mi riguarda, come eurasiatista “congenito” intento nel tentativo di rovesciare di 180 gradi l’eurocentrico paradigma politologico bobbiano relativo alla dicotomia destra/sinistra (un paradigma assunto a dogma di fede dai cultori del nominato eurocentrismo liberaldemocratico contemporaneo), al contrario, è assai distante dalla mia mentalità (e francamente poco comprensibile) la costituzione di un sistema politico oppositivo centrato sulla contrapposizione tra conservatori (perbenisti e ipocriti in fatto di morale e costumi sessuali, liberisti in economia) e progressisti (libertari in fatto di morale e costumi sessuali, economicisti keynesiani in economia). I primi ambirebbero a una società “chiusa” e a un’economia di libero mercato, i secondi a una “società aperta” e a un’economia dove le cosiddette leggi del mercato fossero mediate dall’intervento pubblico finalizzato all’economicizzazione del consenso e del conflitto. Contraddizioni in termini perché la liberalizzazione del versante economico implica per converso anche la successiva liberalizzazione dei costumi e dei consumi, e viceversa. Da notare come sia i liberalconservatori sia i socialdemocratici si caratterizzino per un approccio atlantista (filo-americano e filo-israeliano) in politica estera, per la comune disponibilità a coalizzarsi in frangenti di “crisi” (vedasi Italia e Grecia 2011, con il varo dei governi “tecnici” Monti e Papademos) e per la condivisione di categorie politiche tipiche dei russofobici di ogni latitudine politica, ossia l’anticomunismo, l’antistatalismo e l’“anti-populismo”. Sono pertanto giunto alla conclusione che «rimanere imprigionati all’interno dell’opposizione destra/sinistra equivarrebbe ad accettare un terreno di confronto e uno schema di riferimento di lotta politica e ideale imposto dall’avversario e funzionale alla società liberale» (F. Germinario, La destra degli dei. Alain de Benoist e la cultura politica della Nouvelle droite, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 35).

Naturalmente ritengo assai discutibili (per quanto assolutamente degne di rispetto e attenzione sotto il punto di vista politico e filosofico) le valutazioni di chi considera «estinta», «superata» o «congelata» la dicotomia destra/sinistra perché considero tale interpretazione rischiosa come una corda che rischia di impiccare colui che la maneggia in maniera troppo disinvolta, e rifiuto altresì lo slogan «né destra né sinistra», caratteristico di pressoché tutti i movimenti e i regimi autoritari di destra (tecnofascismi, regimi militari filo-atlantici, ecc.) che intendevano presentare se stessi come “al di sopra delle parti” e delle “divisioni di fazione”. Preferisco invece, considerando la dicotomia destra/sinistra non «estinta», «superata» o «congelata» ma profondamente trasformata e ridefinita su nuovi assi concettuali a partire almeno dal 1989 (ma già nel movimento del Sessantotto si potevano cogliere le prime avvisaglie di tale trasformazione e ridefinizione), «procedere a un sincretismo che contempl[i] una posizione di “destra e sinistra, assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere”» (Ivi, p. 34). In questo senso, reputo un cedimento al perbenismo e al politicamente corretto i manifesti del Front National recanti lo slogan «ni droite ni gauche» e attribuirei un maggior coraggio politico a questo partito nel momento in cui decidesse veramente di rompere i consolidati (e apologetici nei confronti dell’attuale società postmoderna) schemi dottrinari della schizzinosa e liberaldemocratica media intellettualità e del “circo mediatico” parigini unificati (in nome del rifiuto del XX secolo come «secolo mostruoso dei totalitarismi gemelli fascista e comunista» e della conseguente esaltazione indiretta del tempo presente e dello stato di cose presente), proclamandosi come partito “e a destra e a sinistra” del capitalismo globalizzato, un capitalismo gauchiste nella cultura (in nome della dottrina della “liberalizzazione integrale dei costumi” e della flessibilizzazione consumistica delle masse), centrista in politica e destrorso in materia economica. Questo mio ragionamento, di critica radicale dell’odierno capitalismo assoluto, non può non suscitare l’ira degli eurocentrici che considerano la dicotomia destra/sinistra (conservatori vs progressisti) «la versione secolarizzata dell’esistenza di Dio» (cit. Costanzo Preve) ma viene accettato e anzi riconosciuto come perfettamente interno al dibattito politico in Paesi europei o euroasiatici quali Russia, Bielorussia e Serbia (anche se in quest’ultimo Paese, la colonizzazione culturale dell’immaginario pubblico ai dettami dell’eurocentrismo politically correct ha ormai, ahimè, compiuto passi da gigante smantellando la preesistente Weltanschauung eurasiatica).

Vorrei, a riguardo, citare alcuni esempi concreti: in Russia è difficile negare l’identità del Partito comunista della Federazione russa (KPRF) come quella di «una sinistra economica che condivide molti dei suoi valori con la destra politica» (A. de Benoist, A. G. Dugin, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, Controcorrente, Napoli, 2014, p. 113) e allo stesso modo è arduo non ravvisare nel partito Rodina (“Madrepatria”, patriottico di sinistra) «un orientamento economico di sinistra (socialista) e un orientamento politico di destra (nazionalista)» (Ivi, p. 62). In Serbia, il Partito radicale serbo (SRS) «che nel 1990/91 fu fondato come opposizione radicale di destra ai socialisti al governo […] nel corso degli anni ’90 si è spostato sempre più verso sinistra forse perché il presidente del Partito socialista, Slobodan Milosevic, ebbe a suo tempo l’accortezza di coinvolgerlo nel suo governo» (J. Elsӓsser, Cavallette. Capitale finanziario, balcanizzazione fallimento della sinistra, Zambon, Frankfurt, 2008, p. 118). Ebbene, «chi oggi continua a definire l’SRS come un partito di estrema destra è mal informato o è in mala fede» (Ivi), esattamente come chi si ostina a definire «fascisti» Lukashenko, Putin e chiunque non accetti come atto di fede la “normalità eurocentrica”, ponendosi invece il problema di analizzare e contestualizzare, in un’ottica di riferimento anticoloniale, l’“eresia geopolitica e filosofica eurasiatista”. Nel dicembre 1993, dopo le elezioni parlamentari in Russia, vinte dai nazionalisti di destra (LDPR), i “democratici” eltsiniani proposero al Partito comunista un’alleanza politica «antifascista» per vanificare l’ascesa di Zhirinovskij. Il KPRF rifiutò e, per converso, non disdegnò di stabilire saltuari (e di natura meramente tattica) accordi parlamentari con il LDPR al fine di contrastare, disponendo del maggior numero di voti parlamentari possibili, il devastante processo di privatizzazione e di svendita, a un pugno di oligarchi cleptocrati e filoccidentali, dell’intero comparto pubblico nazionale. Ebbene, se nel dicembre 1993 il KPRF avesse accettato le profferte politiche «antifasciste» dei “democratici” di Eltsin e Gajdar, sarebbe inevitabilmente divenuto parte integrante e complice del summenzionato processo di privatizzazione e oggi non si caratterizzerebbe come un partito con influenza politica di massa (20 per cento dei voti alle elezioni del dicembre 2011) bensì come uno screditato partito socialdemocratico responsabile della devastazione nazionale, economica, militare, sociale e culturale post-1991 e non potrebbe porsi dinnanzi all’opinione pubblica russa come «il partito del patriottismo e del socialismo» (come ama ripetere Zjuganov) ma avrebbe la stessa attendibilità politica (e, presumibilmente, le stesse percentuali elettorali) del PASOK in Grecia.

Ascoltare la “voce dell’altro” è infatti importante almeno quanto conoscere la “storia dell’altro”. E quella del “mondo russo”, del “mondo slavo-orientale ortodosso”, è la storia di una civiltà che ha conosciuto sì momenti di fortune espansionistiche ma anche e soprattutto frangenti in cui ha rischiato di soccombere dinnanzi all’espansionismo occidentale, diventandone una sorta di semi-colonia. Alcuni esempi concreti: «Nel 1204 Costantinopoli fu investita da una Crociata che si trasformò nel sacco della città, nella distruzione di monasteri e chiese. I Crociati si spinsero, appunto, fino a far occupare il trono del Patriarca di Costantinopoli a una prostituta. Nella memoria dei cristiani ortodossi quegli eventi rimasero scolpiti» (A. de Benoist, A. G. Dugin, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, op. cit., p. 6. Sul tema, cfr. G. Ravegnani, Bisanzio e le crociate, Il Mulino, Bologna, 2011; M. Meschini, 1204. L’incompiuta. La IV Crociata e la conquista di Costantinopoli, Ancora, Milano, 2004). Nel Medioevo «la Russia ortodossa si oppose e resistette alle Crociate che la Chiesa Cattolica organizzava contro i cristiani d’Oriente, ordinando ai Cavalieri Teutonici di convertire e uccidere gli ortodossi ritenuti scismatici, addirittura pagani» (A. de Benoist, A. G. Dugin, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, op. cit., p. 6. Sul tema, cfr. E. Christiansen, Le Crociate del Nord. Il Baltico e la frontiera cattolica 1100-1525, Il Mulino, Bologna, 2008). Nel 1242 il principe sant’Aleksandr Nevskij respinse l’attacco portato alla Russia ortodossa dai crociati cattolici e dai mongoli dopo essersi accordato con questi ultimi in quanto percepì, giustamente, più grave la minaccia proveniente da Occidente perché, mentre i mongoli volevano esclusivamente occupare territori e razziare beni materiali per se stessi, i Cavalieri Teutonici intendevano «convertire e perseguitare» (A. de Benoist, A. G. Dugin, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, op. cit., p. 6) i russi ortodossi, imponendo loro il cattolicesimo e il dominio della Chiesa e dei principati d’Occidente.

Nell’età contemporanea la Russia fu invasa da Napoleone I, dalle potenze liberalconservatrici e anticomuniste occidentali (capitanate dalla Gran Bretagna di Winston Churchill) dopo la Rivoluzione d’Ottobre, dalle orde naziste del Terzo Reich e, attraverso una guerra politica, economica e culturale, colonizzata, dopo il 1991, al capitalismo americano dagli Stati Uniti dell’amministrazione Clinton, un politico che Boris Eltsin, esattamente come i “democratici di sinistra” italioti, considerava una specie di fonte d’ispirazione per attuare il processo di “transizione alla democrazia liberale” in Russia. Se quanto sopra affermato corrisponde al vero, va da sé che l’“idea bizantina” (o neobizantinismo, o neotradizionalismo imperiale geopolitico), strettamente connessa alla spiritualità ortodossa declinata in chiave patriottica, assurge non da oggi a elemento culturale di resistenza e di opposizione alle mire imperialiste dell’Occidente nei confronti della Russia e del continente eurasiatico. E si tratta di un elemento di resistenza culturale inequivocabilmente antifascista perché i sostenitori dell’eurasiatismo, sin dal XIX secolo, «sottolineavano positivamente la mescolanza di razze e di etnie nella formazione e nello sviluppo dell’identità russa e soprattutto grande-russa» (A. de Benoist, A. G. Dugin, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, op. cit., p. 109) e rifiutavano senza mezzi termini lo sciovinismo, il razzismo e la xenofobia. Inoltre, considero l’impero geopolitico eurasiatico come un concetto sostanzialmente premoderno e non antimoderno e pertanto non incompatibile con la modernità europea e con l’idea stessa di sinistra, ossia la parte politica sostenitrice della modernità integrale. In conclusione, affermare che Capire la Russia sia un testo «trasudante neofascismo» (cfr. cliccando qui) contraddice e nega pregiudizievolmente la provata valenza anticoloniale del tradizionalismo russo (di cui gli stessi comunisti di Zjuganov sono culturalmente debitori, ammiratori e propugnatori, cfr. G. A. Zjuganov, Stato e Potenza, saggio introduttivo di Marco Montanari, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma, 1999; G. A. Zjuganov, La mia Russia. Ideologia del patriottismo russo, saggio introduttivo di Marco Costa, Anteo Edizioni, Cavriago, RE, 2015) e pertanto tale affermazione si caratterizza come inesatta e antistorica, a meno che non si voglia sostenere che il neofascismo sia una categoria politica che preesiste a se stessa. Ma ciò è assurdo perché ogni fenomeno storico, politico e culturale va categorizzato nell’ambito dell’epoca in cui si è originato e consolidato, sotto definizioni precise, tese a contestualizzarlo attraverso una metodologia analitica sobria e scevra da cedimenti a impulsi emotivi frutto di malcelati pregiudizi ideologici.

5) Non credi ci sia un rischio di contrapposizione tra letture geopolitiche e analisi della composizioni sociali?

In politica internazionale possono convergere letture opposte rispetto ad altri temi che rischiano di passare subordinati. Questo rischio è paventato principalmente da coloro i quali non si rassegnano ad abbandonare i preconcetti rispetto alla geopolitica, sempre e comunque guardata con sospetto in quanto stigmatizzata come «pseudo-scienza nazista».

Non vi è contrapposizione tra letture geopolitiche e analisi delle composizioni sociali perché il riorientamento geopolitico in chiave eurasiatista è condicio sine qua non per invertire il processo di destrutturazione, su basi oligarchico-plebee, della struttura di classe, un processo di spappolamento, a livello culturale, delle classi sociali, imposto e veicolato dal capitalismo americano di libero mercato, libero consumo (per chi può permetterselo) e libero desiderio.

Ho fatto tesoro, per giungere a una simile presa di posizione, dell’opera di Costanzo Preve, che ha dedicato due importanti libri alla disamina della cultura politica alla radice degli odierni processi di mondializzazione (C. Preve, Filosofia e geopolitica, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma, 2005; C. Preve, La Quarta Guerra Mondiale, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma, 2008) e, insieme al sociologo Eugenio Orso, un fondamentale volume alla diagnosi della struttura di classe nell’epoca del capitalismo assoluto (C. Preve, E. Orso, Nuovi signori e nuovi sudditi. Ipotesi sulla struttura di classe del capitalismo contemporaneo, Petite Plaisance, Pistoia, 2010). Sulla scorta del ragionamento di cui sopra, è chiaro che nei miei libri l’analisi della composizione di classe procede contestualmente alla lettura geopolitica e la mia prossima pubblicazione, L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale, conterrà, tra l’altro, una teoria dei ceti medi nella società postmoderna che metterà in evidenza come la formazione di una iper-borghesia, o neoborghesia, cosmopolita, esterofila e illimitata, totalmente dedita e adepta agli istituti culturali, politici e all’antropologia del capitalismo mondializzato, sia propedeutica e necessaria alla Nuova Classe Globale come base di consenso e massa di manovra propulsiva per il consolidamento e l’esportazione del modello neoliberale americanocentrico in ogni residuo spazio di resistenza alla penetrazione di tale singolarissima forma di colonialismo socio-politico, economico e culturale.

Immagine liberamente tratta da s3.eu-central-1.amazonaws.com

Ultima modifica il Giovedì, 09 Aprile 2015 23:47
Dmitrij Palagi

Nato nel 1988 in Unione Sovietica, subito prima della caduta del Muro. Iscritto a Rifondazione dal 2006, subito prima della sconfitta de "la Sinistra l'Arcobaleno". Laureato in filosofia, un dottorato in corso di Studi Storici, una collaborazione attiva con la storica rivista dei macchinisti "ancora IN MARCIA".

«Vivere in un mondo senza evasione possibile dove non restava che battersi per una evasione impossibile» (Victor Serge)

 

www.orsopalagi.it
Devi effettuare il login per inviare commenti

Free Joomla! template by L.THEME

Questo sito NON utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti.