È da circa 10 anni che le frange più progressiste della società cilena esigono una riforma radicale del sistema educativo: le proteste del 2006, ribattezzate “Revolución de los Pingüinos”, in riferimento alle tipiche uniformi scolastiche cilene, durante il primo mandato di Bachelet e della sua coalizione di centrosinistra, sono state solo il preludio a una mobilitazione senza precedenti (innumerevoli le manifestazioni e le scuole occupate) che dal 2011 al 2013 ha fatto da sfondo a un conflitto politico più ampio fra una sinistra popolare impegnata a difendere il patrimonio pubblico e una destra unita dal motto neoliberista del libero mercato. Le rimostranze del movimento studentesco (più fondi a sostegno dell’educazione pubblica, incrementare il diritto allo studio di qualità per i meno abbienti) non sono però state accolte e ogni tentativo di arrivare a un compromesso è risultato vano a causa della scarsa volontà del governo di centrodestra guidato da Sebastián Piñera di diminuire le tasse universitarie e di smantellare il sistema lucrativo di molte delle università private. La lunga contesa politica ha però pesato come un macigno sul consenso elettorale della coalizione di destra che nel 2013 è stata nuovamente sconfitta alle presidenziali da Bachelet, stavolta decisa a governare con una maggioranza allargata anche alla sinistra ( la “Nueva Mayoria” che include fra gli altri anche il Partito Comunista del Cile che elegge in parlamento la carismatica Camila Vallejo leader delle proteste studentesche) e che ha esplicitamente promesso una riforma educativa radicale a vantaggio dei meno abbienti.
La ridiscesa in piazza dei movimenti studenteschi e sociali di questa primavera è una diretta conseguenza di un nuovo stallo politico che sta ritardando la legiferazione in materia educativa: solo lo scorso 29 Maggio infatti è passata la prima parte della riforma scolastica che secondo le promesse di Bachelet dovrebbe permettere l’accesso all’educazione di qualità al 60% della popolazione più povera del Paese. La promulgazione di questo primo tassello, la “Legge di Inclusione Sociale” che riguarda le scuole primarie e secondarie, aumenta le risorse a disposizione della scuola pubblica, introduce criteri di selezione meno discriminatori e obbliga le scuole paritarie private a costituirsi come società senza scopi di lucro per cercare di mettere un freno al drammatico connubio istruzione/profitto che è uno dei principali problemi del sistema educativo cileno. Nonostante il passo avanti nello smantellare il modello di scuola voluto da Pinochet, i movimento studenteschi declamano a gran voce più riforme mentre alcune frange più radicali lamentano l’insufficienza delle misure messe in atto, rimarcando come la struttura neoliberista di fondo del sistema, resti sostanzialmente inalterata.
Come già accennato, a creare ulteriori disagi, è stato il secondo, controverso, tassello della riforma scolastica, quello che attiene alla “carriera docenti” e che sta producendo un malcontento estremamente diffuso anche fra gli insegnanti. Sinistramente somigliante ad alcuni punti della “Buona Scuola” renziana, questo disegno di legge oltre a prevedere una maggiore autonomia per gli istituti scolastici e per i loro presidi, introduce “un nuovo sistema di valutazione che contempla le perfomance professionali dei docenti e le loro conoscenze della materia che insegnano”, in modo che la remunerazione sia ancorata al fantomatico concetto di “rendimento” e non agli anni di anzianità. Il Direttorio Nazionale del Collegio Dei Professori del Cile lamenta come la proposta di legge “non rappresenti un cambio strutturale dell’esercizio docente, consolidando una politica neoliberale già imperante, che porterà solo a un maggiore onere lavorativo, più competitività fra pari, enfatizzando un lavoro individualista e che allontanerà il professore dall’aula”.
La drastica decisione del “paro pedagogico” permanente dal primo di giugno, è arrivata dopo che l’11 di maggio all’interno della Consulta Nazionale, oltre il 96% dei docenti ha detto “NO” al progetto di legge, mostrando una avversione generale verso questo tentativo di riforma e la necessità di delineare una carriera docente alternativa in cui lo Stato si faccia carico della formazione continua e del perfezionamento dei docenti, invece di metterli l’uno contro l’altro.
Mentre le manifestazioni proseguono a ritmo serrato anche in questi giorni, si avvertono forti scricchiolii nella maggioranza governativa. Lo scandalo del “Caso Caval” che ha visto coinvolto il figlio di Bachelet in un traffico di influenze illecite, ha contribuito a spingere la Presidente a un rimpasto di governo che però potrebbe non bastare a calmare le proteste interne alla coalizione e a tranquillizzare l’opinione pubblica.
La perdita di consenso nei sondaggi, un programma riformista zoppicante, i recenti scandali giudiziari che la coinvolgono, restituiscono un’immagine ambigua e chiaroscurale della situazione: da una parte Bachelet può vantarsi di aver irrobustito la crescita economica cilena e di aver per la prima volta introdotto innovazioni sociali nell’ambito dell’istruzione, grazie anche alla spinta dei suoi alleati di sinistra e ai giovani dei movimenti studenteschi recentemente cooptati dentro il sistema istituzionale, d’altra parte però i ritardi, la scarsa incisività delle riforme tanto promesse e la proposta molto controversa della nuova “carriera docenti”, mettono in forte imbarazzo le componenti più radicali della coalizione governativa, che tendono a sostenere la protesta dei docenti e si sono sempre schierati dalla parte delle rivendicazioni studentesche.
L’obiettivo di ribaltare quello che è considerato uno dei sistemi educativi più iniqui al mondo, retaggio dell’era Pinochet, caratterizzato da una offerta formativa all’avanguardia solo per coloro che possono permettersi di pagare rette da capogiro, mediocre per tutti gli altri, è lontano dal compimento. Il Presidente del Partito Comunista Guillermo Teillier afferma che “il governo deve fornire al paese delle spiegazioni”. Probabilmente anche lui. E intanto le proteste dilagano.