Lunedì, 14 Ottobre 2013 00:00

Medio Oriente oggi - Intervista a Limes

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In vista dell'iniziativa "C'era una volta il Medio Oriente", organizzata per il 28 ottobre (qui la locandina), stiamo intervistando i relatori della serata per dare degli strumenti che permettano al dibattito di approfondire alcuni aspetti già introdotti. Qui sotto l'intervista a Fabrizio Maronta, redattore della rivista Limes.

1) Prima l'Egitto e poi la Siria hanno riacceso i riflettori sull'altra sponda del Mediterraneo, rimettendo al centro delle cronache anche televisive gli stati nazionali. Con riferimento agli sviluppi siriani, quali differenze segnano la distanza tra il nuovo millennio e il secolo scorso? In particolare sembra incrinarsi o rafforzarsi il mito del "superamento degli stati nazionali"?

Nel caso della Siria, dell'Egitto e degli altri paesi delle primavere arabe a entrare in crisi non è stato tanto il modello dello stato nazionale quanto quello del fittizio stato nazionale postcoloniale. La lettura che diamo a Limes delle primavere arabe (termine già di per sé improprio) è quella di una riconfigurazione dell’area del Medio Oriente secondo linee di faglia di natura etnico-confessionale, ma anche clanica-familiare, che prescinde dalle mappe che l’occidente ha in testa, frutto della matita del colonialismo.

Queste linee di faglia hanno a che fare con realtà preesistenti che in parte derivano dalla storia precedente ai due conflitti mondiali. L’Europa prima e gli Stati Uniti poi (ancora nel 2000 con il progetto del grande Medio Oriente) si erano illusi di poter plasmare la zona e portarla a una conformazione tipica dello stato occidentale. Non a caso il paese che veramente ha dato filo da torcere a USA e occidente, per la sua coesione e il suo carattere pugnace in politica esterna, nonostante tutte le sue contraddizioni interne, è l’Iran, che in quell’area, insieme alla Turchia (e in parte all’Egitto), è l’unico stato vero, l’erede di un grande impero con una tradizione alle spalle, che precede Vestfalia e la nascita dello stato nazionale. 

Per venire alla Siria: si combattono due guerre. Una interna che è guerra civile, oltre che tradizionale. C'è un regime con un esercito contro ribelli variamente assortiti, sostenuti da forze esterne che non cancellano il fatto che sia un conflitto fratricida. Ma la Siria è anche campo di battaglia di attori esterni, senza cui non si capisce la situazione. La Siria un po’ come l’Afghanistan e in parte come il Libano: è un campo in cui si combattono partite per la supremazioa regionale (tra Turchia, Russia, Arabia Saudita, Qatar e Iran).

Per venire al punto finale della domanda. Non ho mai creduto che lo stato nazionale fosse morto: è stata una grande illusione, indotta in parte dalla trionfalistica retorica occidentale, in particolare degli Stati Uniti, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Curioso che questo fosse postulato da teorici USA, cioè in un paese che ha ben chiari i suoi interessi nazionali. Era una lettura in parte strumentale e in parte genuinamente derivante da una sorta di ubriacatura.

La Russia che ha patito dolorosamento il ridimensionamento di status e territoriale, non si è mai concepita come stato in dissoluzione, anzi almeno da Putin in poi si è assistito a una forte affermazione di volontà di affermazione degli interessi dello stato nazionale (basti pensare a Cecenia e Georgia).

Non bisogna confondere gli stati veri con gli stati finti. Gli stati hanno ragione di essere in quanto stati, cioè come comunità che riescono a pensare se stesse rispetto ad altri (lo Stato come è).

Gli stati quindi non hanno mai cessato di essere un fattore estremamente cogente e attivo. Semmai esistono delle aree dove questa cogenza non c’è e si esercita l'influenza di altri stati (come in Medio Oriente e, in parte, in Africa).

2) A partire dalle rivolte denominate grossolanamente (indistintamente) “primavere arabe” è risultato sempre più evidente l'importanza della comunicazione e dei suoi mezzi. Particolare risalto ha avuto anche la contrapposizione delle due grandi emittenti del mondo arabo, Al Jazeera e Al Arabija, nella questione egiziana (le due emittenti erano schierate la prima a fianco della Fratellanza Musulmana, la seconda a fianco dell'esercito).  A questo si aggiunge il recente “sbarco” di Al Jazeera negli USA: qual è l'effettiva capacità di incidere sugli avvenimenti e sull'opinione pubblica di queste emittenti? 

Soprattutto nel caso di Al Jazeera c'è stata un'influenza piuttosto forte. L'emittente è di proprietà del padre dell'attuale emiro del Qatar, un paese che ha (o ha avuto) un'agenda politica che almeno in parte ha influenzato la linea dell'emittente televisiva, ovvero scalzare l'influenza dell'Arabia Saudita (il caso più evidente è il tentativo fallito in Egitto, con l'appoggio e il finanziamento ai Fratelli Mussulmani).

L'agenda del Qatar è stata promossa nell'area con vari metodi. Sicuramente ha sfruttato anche la leva economica, grazie alla rendita energetica, grazie alla rendita energetica del gas, in modo analogo a quanto fa l'Arabia Saudita con il petrolio da anni (mentre l'Iran si è tagliato i ponti dal '79, anche se in queste settimane sta cambiando qualcosa).

Il dato fondamentale è su quali opinioni pubbliche si è esercitata la pressione delle emittenti televisive. Non su quelle dei paesi in cui si sono svolte le "primavere". Le opinioni pubbliche e le cancellerie influenzate sono state quelle occidentali.

In occidente abbiamo pochi corrispondenti che parlano arabo. La narrativa che è passata è stata quella fatta principalemnte da Al Jaazera, e noi ci siamo "bevuti" forti semplificazioni, tralasciando una serie di dettagli (come l’agenda della Fratellanza Mussulmana). Una volta al potere i nuovi regimi non era detto che fossero "amici" assimilabili alla nostra idea di partner dialognate. Nella confusione e nello smarrimento del momento ce le siamo bevute anche perché ci sono state raccontate anche con alcuni capolavori di narrativa (alcuni servizi hanno raggiunto punte di eccellenza). Ho colleghi che l’arabo lo parlano molto bene e hanno dato una versione diversa che in prospettiva si è rilevata più fedele. Non che non ci fossero le componenti liberali nei movimenti e le ingiutize sociali, così come l'anelito a migliori condizioni di vita da parte dei giovani, ma non erano l’unica cosa (e oggi lo si vede in posti come la Libia).

3) I social network sono stati un "mito televisivo"?

I social network non sono mito televisivo, ma lo sono nella misura in cui il mezzo viene spiegato come fine. Non è il social network che crea una rivoluzione, se di rivoluzione si è trattato. È uno strumento organizzativo. Non dobbiamo pensare che lo strumento faccia il contenuto, altrimenti diventiamo schiavi dei 140 caratteri.

Sono strumenti comunicativi molto efficaci. Internet è una finestra sul mondo che influisce sulle aspettative sulla weltanschauung della gioventù,  ma partita si combatte su un terreno molto solido che sono le condizioni di vita e le rivendicazioni settarie (o partigiane) dei vari gruppi.

Se si concepiscono i social network come uno strumento taumaturgico allora si tratta di un mito televisivo. Hanno sì fatto la differenza, ma nella prassi, da un punto di vista della logistica.

4) In Italia la politica internazionale sembra interessare meno della cronaca rosa: il provincialismo della penisola è un luogo comune o esiste una peculiarità tutta nostra sull'assenza di interesse verso "i fatti del mondo"?

In generale le opinioni pubbliche non hanno in cima alle loro preoccupazioni la politica internazionale. perchè è "politica estera". Non parlo del "popolo", in riferimento a categorie che non amo. Magari anche l’esperto costituzionalista non si interessa della Siria, perché ha altre preoccupazioni.

In più la politica estera è piuttosto complessa e come detto l’opinione pubblica si appassiona poco, complice la lontanza.

Questo vale ovunque.  

C’è però una peculiarità. Dalla fine del fascismo abbiamo smesso di pensare il mondo in Italia, se mai lo abbiamo fatto, e credo che sia il caso di un periodo piccolo e a livello elitario, prima della prima guerra mondiale. Questo anche perché socialmente siamo stati un paese molto arretrato fino al miracolo economico. Da 60 anni a questa parte (salvo Enrico Mattei e pochi altri) l'Italia ha smesso di pensare il mondo. Soprattutto negli ultimi 30 anni. Questo vuol dire che fondamentalmente non c’è un vero dibattito sulla politica estera. Dopo la fine della seconda guerra mondiale era tabù anche un termine come geopolitica, perché non si poteva derogare dal vangelo statunitense. Finita la guerra estera è finita la politica estera (ci ha provato un po’ De Michelis). Il problema è che ci siamo dimenticati della quarta sponda. Non è che abbiamo smesso di pensare come avere il nostro impero, ma abbiamo smesso anche di "fare manutenzione" ai vicini più prossimi, dai balcani al nord Africa.

Più che altro ci sono state, nell'ultimo periodo, iniziative di politica estera personale (come i rapporti tra Berlusconi e Putin), che è stato quanto di più simile a una politica estera ambiziosa. Questo ci ha dato dei vantaggi relativamente esigui, poi spazzati via dal fatto che le persone in questione (soprattuto nel caso di Bush jr.) sono transunti dalle loro cariche.

Francia e Gran Bretagna, che continuano a coltivare ambizioni, anche sproprorzionate rispetto al loro peso specifico, hanno nel loro dna un'attenzione, una cultura e un'eccessiva ambizione nel pensare il mondo.

5) Sullo sfondo delle già citate questioni egiziana e siriana, abbiamo avuto l'avvio di nuovi negoziati tra Israele e Palestina. I rappresentanti si sono incontrati attraverso la mediazione del Segretario di Stato americano John Kerry. Nonostante i buoni propositi espressi da entrambe le parti, il negoziato ha incontrato un enorme stallo nella questione della costruzione di insediamenti per i coloni israeliani in territori palestinesi. La Palestina rischia di essere un problema irrisolto. La soluzione due stati-due popoli continua ad essere quella più utile per il consolidamento di un processo di pace? Quanto pesa oggi la questione palestinese nell'area del Medio Oriente?

Il problema fondamentale è che ci sono molti attori regionali per i quali il problema palestinese ha cessato di essere tale quando è stato considerato irrisolvibile (anche da parte di molti stati arabi, non solo di Israele). Se si decide che non c’è soluzione una questione, questa smette di essere un problema e diventa un dato di fatto, come la morte o la pioggia

Israele sul frazionamento ha costruito un pilastro della sua strategia di sicurezza. Specialmente in questo momento, con le primavere arabe e le aperture dell'Iran agli USA, da parte israeliana non c’è un anelito alla soluzione dei due stati. A Israele non conviene anche per una questione demografica, la componente interna araba cresce è vero, ma la divisione in due stati comporterebbe comunque uno squilibrio demografico con un vicino.

Israele non si fida dei suoi vicini.

In generale non vedo grandi entusiasmi per uno stato che minaccia di essere uno stato fallito.

C'è poi il problema dei profughi che è ormai irrisolvibile (un eventuale ritorno è impensabile).

Non dobbiamo tralasciare la comodità della situazione palestinese, che ai fini interni è un comodissimo spauracchio per i vari regimi e governi (soprattutto arabi). Il fatto che ci sia una condizione di ingiustizia accettata da tutti e di cui non frega più niente a nessuno è comodo perchè consente, ad esempio alla monarchia giordana, di stare col piede in due staffe (amici degli USA ma anche anti-americani).

Sono molti elementi che cospirano a sfavore di un accordo. Il primo comunque è la scarsa propensione del governo israeliano.

Io credo che non si risolverà quasi niente a brevissimo.

Dal punto di vista statunitense:

1) gli USA hanno perso molta capacità di deterrenza e autorità in Medio Oriente e senza un arbitro riconosciuto come tale è difficile avviare il processo di pace

2) quella citata nella domanda non è un’iniziativa di Obama ma di Kerry, che è un ripiego (voleva Susan Rice, bruciata con l’attentato di Bengasi) e ha una visione della politica estera diametralmente opposta da quella di Obama. Si tratta di un'iniziativa personale del ministro degli esteri degli Stati Uniti, che però è isolato dal resto della Casa Bianca.

In prospettiva quella dei due stati sarebbe la soluzione migliore ma non la vedo praticabile.

La questione palestinese pesa perché è un elemento di tensione, ma non è determinante (le partite fondamentali sono quelle di Siria e Iran).

Immagine tratta da www.flickr.com/cedric_v/

Ultima modifica il Lunedì, 14 Ottobre 2013 09:42
Dmitrij Palagi

Nato nel 1988 in Unione Sovietica, subito prima della caduta del Muro. Iscritto a Rifondazione dal 2006, subito prima della sconfitta de "la Sinistra l'Arcobaleno". Laureato in filosofia, un dottorato in corso di Studi Storici, una collaborazione attiva con la storica rivista dei macchinisti "ancora IN MARCIA".

«Vivere in un mondo senza evasione possibile dove non restava che battersi per una evasione impossibile» (Victor Serge)

 

www.orsopalagi.it
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