Non vedo contraddizione nell’essere stati tutti Charlie Hebdo e nell’essersi indignati per le vignette satiriche sul terremoto. Al di là che trovi abbastanza retorico e anche ipocrita “l’essere questo e quest’altro”, dato che, o lo si fa per qualsiasi vittima nel mondo, o non ha senso farlo selezionandone alcune, credo che la partecipazione emotiva per quello che avvenne ai giornalisti della redazione satirica avesse un significato molto forte, giusto e sentito: difendere il diritto ad esprimersi, il diritto alla libertà di parola, di opinione, di pensiero, di critica e, anche, di satira. Forse, a ripensarci meglio, proprio per questo, in quel caso, il “je suis Charlie” aveva già più senso di tutti gli altri “je suis” che si sono succeduti ad ogni strage (occidentale), perché in quel caso Charlie era il simbolo di un’entità, di un valore universale che va al di là delle singole vittime, ovvero la libertà di espressione, che non ha nazionalità né sesso né colore, ma che appartiene, o dovrebbe appartenere, al mondo intero e che il mondo intero dovrebbe rivendicare, quindi in quel caso, davvero tutti, potevamo essere Charlie, se a Charlie diamo quel significato astratto.
Ho cercato la libertà, più che la potenza, e questa solo perché, in parte, assecondava la prima.
Marguerite Yourcenar
Anche Firenze l'otto gennaio, in piazza Ognissanti davanti all’Istituto francese, si è stretta intorno al dolore di Parigi, così dilaniata da una ferita che probabilmente non si rimarginerà mai. Una ferita che scava nel suo cuore più profondo, più genuino, più fortemente suo rispetto a qualsiasi altra città: la libertà. La libertà di espressione, di parola, di pensiero. E oggi piangiamo lacrime amare, per quella libertà che in un momento è stata massacrata, fatta a pezzi, uccisa, censurata con i colpi dei kalashnikov e col sangue versato.
Premesso che ogni intervento in merito alla recentissima tragedia della strage al giornale satirico "Charlie Hebdo" deve aprirsi con la più totale solidarietà verso la redazione uccisa mentre esercitava un diritto inviolabile come quello della libertà di espressione, occorrerebbe però cercare di andare oltre per capire quali saranno le ricadute di un simile epocale evento e a cosa miravano gli attentatori.
«Non tutti gli islamici sono terroristi». Una precisazione assai ripetuta nelle ultime ore, ovvia ed evidente; tuttavia, stante lo scarso ricorso delle masse alla razionalità, necessaria.
«Non tutti gli occidentali disprezzano la fede e insultano il profeta Maometto». Questo, invece, possiamo dirlo? Possiamo davvero dire che non tutti in Occidente siamo come i carcerieri di Guantánamo, che strappavano pagine del Corano e vi orinavano sopra?
Confesso di aver provato forte stupore di fronte all’ondata di solidarietà levatasi a sinistra nei confronti di Charlie Hebdo, con note ben lontane dalla normale condanna della barbarie e dal rifiuto della violenza: la reazione è infatti consistita nell’assunzione apologetica della linea editoriale di Charlie Hebdo, identificata in ultima analisi con la libertà di stampa. Una reazione tanto emotiva e tanto rivendicatrice del diritto di sprezzare l’Islam la si sarebbe attesa piuttosto dalle destre xenofobe. Tale situazione ha scoperchiato ai miei occhi un rilevante filone dell’attuale condizione della sinistra.
Dopo le stragi nelle metropolitane di Londra e Madrid, un altro deciso attacco in una grande capitale europea da parte del terrorismo di matrice islamica. O perlomeno questa è la definizione scelta e ripresa dai media di tutto il mondo per dare un volto alla banda di assassini che ha attaccato la sede del giornale di satira francese “Charlie Hebdo”, nel cuore di Parigi in Rue Nicolas Appert, a due passi da Place de la Bastille. Un attacco pensato e organizzato con cura, come dimostra la scelta del giorno della riunione mensile di redazione, nella quale erano riunite le principali firme del giornale: Jean Cabut, Georges Wolinski e Bernard Verlhac in arte “Tignous” insieme al celebre direttore “Charb”, Stèphane Charbonnier, tutti uccisi a sangue freddo dai terroristi. Condanna a morte arrivata a causa della pubblicazione nel corso degli anni di vignette satiriche nei confronti del terrorismo islamico, che avevano causato un primo attacco nel 2012 nel quale la sede del settimanale era stata colpita da delle molotov causando un pur piccolo incendio.
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