Sabato, 10 Gennaio 2015 00:18

Di Charlie Hebdo e di comune umanità

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«Non tutti gli islamici sono terroristi». Una precisazione assai ripetuta nelle ultime ore, ovvia ed evidente; tuttavia, stante lo scarso ricorso delle masse alla razionalità, necessaria.
«Non tutti gli occidentali disprezzano la fede e insultano il profeta Maometto». Questo, invece, possiamo dirlo? Possiamo davvero dire che non tutti in Occidente siamo come i carcerieri di Guantánamo, che strappavano pagine del Corano e vi orinavano sopra?
Confesso di aver provato forte stupore di fronte all’ondata di solidarietà levatasi a sinistra nei confronti di Charlie Hebdo, con note ben lontane dalla normale condanna della barbarie e dal rifiuto della violenza: la reazione è infatti consistita nell’assunzione apologetica della linea editoriale di Charlie Hebdo, identificata in ultima analisi con la libertà di stampa. Una reazione tanto emotiva e tanto rivendicatrice del diritto di sprezzare l’Islam la si sarebbe attesa piuttosto dalle destre xenofobe. Tale situazione ha scoperchiato ai miei occhi un rilevante filone dell’attuale condizione della sinistra.

Lo stile culturale di Charlie Hebdo mi pare ben esemplificato da una loro copertina che ha avuto molta diffusione in questi giorni: un disegnatore e un arabo che si baciano, sotto il titolo l’amour plus fort que la haine. C’è da dubitare che l’amore consista nello sbavarsi addosso; certo, la satira ha sempre condiviso, fin dal mondo antico, la sfera semantica dell’esuberanza e della sessualità. Proprio per questo è necessario avere coscienza di dove ci si deve fermare. Nel saggio Sulla questione ebraica il giovane Marx opera una critica del principio di libertà che sostanzia la Costituzione francese del 1793 (quella giacobina, più radicale), osservando che «quella libertà individuale […] lascia che ogni uomo rinvenga nell’altro uomo non la realizzazione, ma piuttosto il limite della propria libertà» e riprendendo (rovesciandone il senso) le parole di Rousseau cui i giacobini si ispirarono. Nel caso di Charlie Hebdo, però, siamo addirittura oltre il concetto rousseauiano e molto vicino allo slogan sessantottino “vietato vietare”.

È solo un problema di satira? No, almeno secondo voci note come Michele Serra («non mi soffermerei più di tanto sull’aspetto “libertà di satira”, qui c’è un aspetto di libertà e basta») e François Hollande («questi uomini, queste donne, sono morti per l’idea che avevano della Francia, vale a dire per la libertà»). Hanno ragione: viene chiamato in causa l’intero mondo della libertà in Occidente, un tipo di libertà che oggi scivola sempre più verso il nichilismo: è proprio a una simile idea di libertà che attinge Serra nel descrivere il casus belli delle vignette su Maometto come un «problema tecnico»; è ancora la stessa idea che ha ispirato in un campo diverso, ma con un sentire comune, il parere con cui lo scorso settembre il Consiglio etico tedesco ha raccomandato l’abolizione del reato di incesto tra adulti consenzienti.

Si tratta, a ben vedere, di una mera estensione di tendenze già presenti da decenni nelle società occidentali e avvertite da intellettuali di varie estrazioni. Nel 1974 Pasolini vide nella grande vittoria del divorzio l’affermazione di nuovi ceti medi, orientati a un marcato consumismo di tipo americano; l’anno seguente Augusto Del Noce, filosofo reazionario già militante antifascista della sinistra cristiana, osservò che il Kulturkampf anticattolico non aveva prodotto una nuova coscienza illuminista bensì un mero vuoto della coscienza; più tardi Pietro Scoppola fece notare come nello stesso giorno del 1981 gli italiani avessero votato contemporaneamente contro due referendum abrogativi di segno molto diverso, quello sull’aborto e quello sull’ergastolo. A un simile consumismo, centrato sul godimento privato in una misura maniacale ed egoista, ben si attagliano non soltanto le blasfemie satiriche e dunque il disprezzo verso la sensibilità del prossimo, ma anche il loro uso a fini di aumenti di tiratura e di vendite.

Tutto quanto osservato vale anche prescindendo dalla particolare tensione tra Islam e Occidente. Allarghiamo un po’ lo sguardo: tre anni fa le Pussy Riot irruppero in una cattedrale moscovita durante una funzione e si esibirono in una canzone dal contenuto blasfemo. Il loro obiettivo politico era contestare il potere autoritario esercitato da Putin; la forma della protesta dava esemplarmente voce all’idea che si aveva della democrazia tanto richiesta: il “vietato vietare”, la libertà intesa come assenza totale di freni e vincoli per l’individuo (laddove tale assenza era proprio ciò che si esecrava nel potere statale). La medesima sensibilità che fu volano per le vittorie referendarie di divorzio e aborto pare ora aleggiare attorno alla frontiera dei diritti lgbt e dei diritti riproduttivi: occorrerebbe invece (almeno a sinistra!) ribellarsi a un’alternativa tra omofobia/oscurantismo e diffusione della “cultura” da Las Vegas, chiarire che queste battaglie riguardano il rapporto tra l’amore e le istituzioni, non un permanente satyricon. Poco prima di Natale, discutendo con un amico poco più giovane di me, osservavo appunto che il diritto all’amore indiscriminato dev’essere difeso non soltanto contro l’omofobia putiniana ma anche contro quella lettura occidentale che vede nei diritti civili la libertà del sesso indiscriminato; il mio interlocutore, con netta lucidità, mi spiazzò osservando che i giovani sono più ricettivi verso quest’ultima visione e che un ragionamento fondato sull’amore e non in prima battuta sul sesso è tra essi poco popolare. A questa conversazione ho ripensato nel leggere sui social una ragazza chiedersi «come si può avere il coraggio di bruciare i sogni a colpi di fuoco» alla giovane età che alcuni dei terroristi parigini sembrano avere. Forse, si può pensare nel tentativo di rispondere, quegli stessi giovani terroristi hanno visto i loro sogni bruciare nel fuoco. Nell’estate 2005, a seguito degli attentati di Londra, il saggista Ian Buruma espresse la propria idea sullo scontro di civiltà. Buruma, che aveva da poco pubblicato Occidentalism: The West in the Eyes of Its Enemies e stava lavorando a un testo sull’omicidio di Theo Van Gogh, disse: «L’odio contro l’Occidente è come la trama di un film. Il ragazzo campagnolo lascia il paese sedotto dalle luci della grande città. Ma là si ritrova solo come un cane. Tutti gli mentono e si approfittano di lui. Vede la ricchezza intorno a sé, tutte quelle belle donne. Alla fine si sente umiliato e medita vendetta».

Tale fu infatti la parabola della vita di Sayyid Qutb, il fondatore dei Fratelli Musulmani che finì impiccato nell’Egitto laico di Nasser. Nato nel 1906 in un villaggio dell’Egitto rurale, Qutb fu da giovane un appassionato occidentalista, convinto che solo l’influenza dei Paesi civilizzati (in primis quelli anglofoni) avrebbe potuto trarre il suo Paese dalla cappa del tradizionalismo religioso. Questo suo orientamento fu sconvolto da due anni che egli trascorse negli Stati Uniti grazie a una borsa di studio: Qutb ricavò l’impressione di una società violenta e disumana, non solo negli aspetti più esplicitamente brutali come il razzismo ma anche e soprattutto nel pesante materialismo che informava tutti i rapporti umani, provocandone la superficialità.

Nella degradazione dell’essere umano superficialità e brutalità, lato spirituale e lato materiale, procedono di pari passo. Nell’ottobre 1977 Maria, una lettrice di Lotta continua, scrisse al quotidiano nei giorni convulsi che seguirono l’uccisione del giovane Roberto Crescenzio: morto per le ustioni riportate nel rogo dell’Angelo Azzurro, bar torinese considerato di destra, non era però un militante politico e quindi la sua morte fu giudicata “accidentale”. Fra i tanti che si allontanarono da un movimento ritenuto ormai impazzito e tendente alla disumanità, Maria scrisse significativamente della riluttanza a condividere sentimenti e problemi privati: «esiste […] il timore di sembrare “cattolici”». Esiste il timore di sembrare retrivi e addirittura moralisti nel riconoscere l’esistenza di un lato profondo e debole della sentimentalità umana; si preferisce aderire a un nichilismo che solleva dalle responsabilità, come si sentiva sollevato Eichmann.

Mi hanno colpito le parole della ragazza sui sogni bruciati a colpi di fuoco, poiché mi hanno ricordato ciò che scrive ne La notte Elie Wiesel ricordando la sua prigionia nei campi di sterminio: «Mai dimenticherò quelle fiamme, che bruciarono per sempre la mia fede […] e i miei sogni, che presero il volto del deserto». L’attentato a Charlie Hebdo pone interrogativi che veramente trascendono il problema della satira per coinvolgere tout court la nostra libertà. Oggi in molti Paesi d’Europa gli eredi politici del nazismo primeggiano nel consenso elettorale per la prima volta nel dopoguerra; uno di questi Paesi è proprio la Francia. Se si ama l’umanità, se si vuole scongiurare il ritorno al potere dell’odio genocida, una delle migliori medicine immunizzanti è la gelosa custodia del rispetto. Il rispetto chiama rispetto tanto quanto il disprezzo chiama disprezzo. Per me ha poco senso far notare che una matita non uccide e un mitra sì, poiché anche una singola palla di neve è molto meno pericolosa della valanga che può provocare. Gli eredi del nazismo studiano come provocare valanghe e dividere i corpi sociali per poterli dominare e spingerli alla guerra; gli antifascisti e la sinistra in particolare dovrebbero porsi il problema di come portare tutti gli uomini a riconoscere la loro comune umanità. La strada seguita da Charlie Hebdo – siamo tutti egualmente umani degni e rispettabili poiché tutto ciò in cui crediamo è egualmente disprezzabile e definibile come merda – non mi sembra (chiedo scusa) la migliore.

Ultima modifica il Sabato, 10 Gennaio 2015 00:34
Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

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