Je suCredo che sia stato giustissimo scendere in piazza e reclamare il diritto alla satira, e urlare contro chi ha voluto estirpare quel diritto mettendo per sempre a tacere coloro che, in maniera radicale quella libertà l’hanno resa così tangibile da averne pagato il prezzo con la propria vita, in modo coraggiosamente beffardo, facendosi quasi eroicamente (o in maniera incosciente, a seconda dei punti di vista) letterali beffe delle minacce subite e quindi persino della morte stessa. Forse i giornalisti e i vignettisti di Charlie Hebdo esageravano, e probabilmente avevano esagerato anche allora, con vignette molto spinte sulla religione islamica o sul fondamentalismo islamico, ma, giustamente shoccati, sconcertati dalla loro morte, abbiamo riempito le piazze per difendere anche quel loro diritto all’esagerazione, e nessuno si pose il problema, in quella circostanza – né in altre che ci toccavano fino a uno certo punto – del “fin dove può arrivare a colpire la satira”. Presi dall’entusiasmo per una legittima e, a mio avviso, sacrosanta battaglia ideologica (nel senso positivo del termine) che innalzava la propria voce contro ogni tentativo di imbavagliare la libertà di espressione (soprattutto quando avviene nella maniera più crudele e annientatrice), ci siamo forse però dimenticati di riflettere un po’più a fondo sui limiti (etici) verso cui può o deve spingersi questa libertà. Fino a poco fa io stessa ero la prima ad avere una visione molto netta sulla questione, pensando che la libertà, di espressione (laddove questa non sfoci nell’offendere o denigrare qualcuno senza giustificato motivo – o meglio, per motivi ingiustificabili – poiché diventerebbe diffamazione o aggressione verbale, perseguibili per legge; diventerebbe violenza verbale e anche psicologica quando l’offesa lede fortemente la persona o indirettamente incita addirittura ad atti di violenza fisica su di essa), e, soprattutto di satira (che, a livello giuridico, in gran parte del panorama occidentale, non corre neanche il rischio di diventare diffamazione o aggressione verbale), sia assoluta, anche quando quest’ultima può far male, anche quando non la si condivide, anche quando risulta sgradevole e offensiva.
Bene, oggi, però, le vignette di Hebdo mi hanno spinta a riflettere di nuovo sulla questione dei limiti o meno della satira, per quanto resti pienamente convinta dell’assolutezza politica e giuridica di questa libertà. Mi rendo anche conto, tra l’altro, che sia un po’troppo comodo indignarci quando questa satira tocca situazioni che ci riguardano da vicino e non farlo quando si tratta di un credo religioso che non sentiamo nostro, o di altre realtà, entità, esistenze e individualità che avvertiamo più distanti, ma che possono sconcertare in maniera altrettanto potente, chi certe “ingiurie” invece le sente sue, chi le avverte sulla propria pelle, così come noi sentiamo nostro il dramma del terremoto. Con questo, ribadisco, rimango ben convinta che la libertà di satira vada difesa e sinceramente trovo, eufemisticamente parlando, molto allarmante il fatto che adesso chi era sceso in piazza con un cartello con su scritto “je suis charlie” magari stia pensando che in fondo in fondo, quella morte, i giornalisti della redazione di Charlie, se la siano cercata o addirittura meritata. Al contempo però non credo si tratti di un ossimoro ammettere il dovere e il desiderio di continuare a difendere una libertà che non dovremo mettere in discussone – anche quando fa male, anche quando è sgradevole, anche quando è totalmente respingente – e nello stesso tempo chiederci se tutta la satira sia giusta o accettabile, se la domanda la si pone da un punto di vista etico, e non politico o giuridico. Quelle vignette indignano ed è normale che sia così, ma l’indignazione non deve portarci a rinnegare un valore, come appunto quello della libertà di fare satira, anche su ciò che non ci piace, che dovrebbe essere un caposaldo delle società libere e democratiche. Inoltre, per quanto ritenga che l’indignazione e lo sconcerto di fronte alle vignette sul terremoto siano comprensibili e condivisibili, non penso che sia produttivo fermarsi allo sdegno, strabuzzando gli occhi senza neanche soffermarsi un minimo per tentare di cogliere ciò che di vero, ahimé, se diamo una sottile interpretazione a quella vignetta, si potrebbe celare dietro di essa. Secondo me a quella ignobile immagine potremmo infatti attribuire due interpretazioni, una, appunto, più sottile, ma che forse non era nelle intenzioni degli autori e chi scrive è troppo ottimista cercando di vedere ciò che in realtà non c’è, ovvero la denuncia del “malaffare italiano”, di ciò che troppo spesso accade in Italia: un sistema affaristico che, attraverso speculazioni, infiltrazioni mafiose, appalti e/o abusi edilizi, si fa una grande scorpacciata di tragedie come quella appena avvenuta... Insomma, almeno secondo me, quella vignetta intitolata “sisma all’italiana” poteva magari (ma ripeto, forse in una visione troppo ottimistica) lasciare intendere sia la mala gestione che sta dietro a queste tragedie e che contribuisce notevolmente a rendere così maledettamente alto il numero delle vittime, sia, soprattutto, poteva alludere alle probabili speculazioni, agli sciacallaggi e alle strategie affaristiche di chi subito cercherà di “approfittare” di questo disastro, leccandosi i baffi per il bottino che intravede da un tale disastro; non dimentichiamoci a tal proposito (per quanto non sia un ricordo di cui andare fieri), di esser tristemente reduci da quella penosa intercettazione post terremoto dell’Aquila in cui qualcuno già si stava fregando le mani pregustando “tutto ciò che finalmente si sarebbe potuto costruire” in quelle zone irrimediabilmente ferite, non solo dalla “natura matrigna” di eco leopardiana, ma anche dalla mano dell’uomo che niente fa per limitare il limitabile, per salvare il salvabile, o che troppo fa quando si tratta di costruire laddove le condizioni ambientali, e soprattutto geomorfologiche non lo consiglierebbero affatto.
Insomma, inutile coprirci dietro un dito o dietro un sussulto di comoda, per quanto emotivamente condivisibile, indignazione, e negare del tutto che, seppure in maniera troppo feroce e fastidiosamente sgradevole, quella vignetta – che comunque ha sconcertato anche chi scrive – potrebbe raffigurare una faccia del nostro paese di cui dovremmo vergognarci, che dovremmo combattere e non nascondere ipocritamente sotto la sabbia, o, per meglio dire, sotto le ennesime macerie. Oppure, in un’interpretazione più immediata e a quel punto intollerabile e ingiustificabile, semplicemente gli autori, sono partiti dagli “spaghetti all’amatriciana” e hanno fatto un pout pourri di pasta all’italiana col sangue dei morti e i resti delle macerie. E se questo soltanto fosse il senso della vignetta (come può benissimo darsi che sia), allora davvero la troverei qualcosa di ancor più raccapricciante, da far ancor di più accapponare la pelle. In ogni caso, che si dia l’una o soprattutto l’altra, interpretazione, credo che quella vignetta non sia giustificabile né dal punto di vista “formale” né contenutistico (essendo i contenuti troppo volgari, nel senso lato del termine), ma così come non lo erano altre vignette che la redazione di Charlie Hebdo ha tirato fuori su altre cose, che però non ci hanno indignato, perché non ci toccavano da vicino.
Ad ogni modo, per rimanere su quell’immagine che invece ci ha sconvolto intimamente, anche avesse voluto raccontare (ma in maniera orrenda e schifosa) una tremenda verità sulla gestione speculatoria, mafiosa, disumana che parte del nostro paese ha messo, mette e metterà in atto pre, durante e post terremoto, bisognava secondo me stare molto attenti a non spingersi oltre certi limiti, che, – fortunatamente – non sono dettati da vincoli politici, legislativi o di censura, ma che dovrebbero derivare dal pudore e dalla sensibilità individuali, da un’etica personale, dalla propria umanità e dal rispetto verso il prossimo, che sia un morto, un fedele di qualsiasi religione, un omosessuale, una minoranza etc. Quella vignetta ferisce coloro che stanno subendo una tragedia inimmaginabile, coloro che hanno perso i propri cari, che hanno perso la propria casa e la serenità della propria esistenza e su cui non ha senso ridere o provare a far ridere in questo modo così squallido e violento. Neanche un riso tragico riescono a strappare, perché non si avverte una tragicità di fondo, ma solo un ghigno malvagio e sprezzante, una buffoneria maligna che ridicolizza dei morti innocenti e un disastro che ha devastato paesi interi e distrutto vite intere. Quelle immagini non fanno per niente ridere ma offendono e ledono il sentire già martoriato di chi ha perso tutto e, anche, indirettamente, di chi no c’è più, né per ridere né per piangere. C’è modo e modo di scherzare, ed è vero che non ci sono (ed è giusto che non ci siano) argomenti tabù, sui quali sia vietato poter ridere, o sorridere, o ghignare in maniera amara; non c’è evento né persona che non possano esser passibili di derisione o sbeffeggiamento, neanche un morto gode di questo privilegio e l’unica cosa che possiamo fare è voltarci da un’altra parte o non comprare un certo giornale, almeno quando fa uscire vignette che ci disgustano. Ma proprio perché, almeno nella maggior parte del mondo occidentale, non esistono tali vincoli politici concreti, pragmatici, reali, questi limiti dovrebbero però esistere in maniera virtuale, evanescente, nello spirito e nella testa di chi fa satira. C’è una soglia del tollerabile, del dolore, del rispetto verso il prossimo, che, secondo me, non andrebbe superata, anche quando si fa satira, nonostante sia consapevole che fa parte della sostanza stessa della satira lo spingersi oltre ogni soglia. Dovrebbe esserci una sorta di principio categorico che impedisca a chi ha il dono di disegnare e scrivere vignette o frasi satiriche, di spingersi troppo in là nel suo potere assoluto di far ridere su e di chi vuole,che impedisca di abusare di questo potere affinché il riso, la beffa o il ghigno non diventino una violenza fatta di parole e immagini intollerabili, che feriscono, che offendono in maniera troppo profonda e lancinante. È vero, si dice che la satira non è satira se non punge. E la satira deve pungere, deve essere affilata, ma forse non così tanto da spezzare, metaforicamente parlando, il cuore di chi legge, non così tanto da urtare in maniera troppo pesante la sensibilità altrui, che sia il sopravvissuto di una catastrofe o che sia un fervido credente, musulmano o cattolico che sia (e probabilmente se la satira cadesse sul primo saremmo, come siamo stati, tutti Charlie Hebdo, ma non sono sicura che lo stesso fervido slancio di appassionata compartecipazione al mondo della satira e alla sua difesa, coinvolgerebbe tutti, se un simile tipo di satira colpisse la religione cattolica o un cristiano!).
Pur non smettendo di credere che sia giusto mantenere un’assoluta libertà politica alla satira, penso che di fronte a tragedie ancora così fresche e così grandi, di fronte a macerie che forse sono bare di morti non ancora ritrovati, di fronte a un dolore che neanche ha avuto il tempo di sfogarsi, di prender coscienza di sé; di fronte a un evento che molti magari non sono neanche riusciti a realizzare pienamente, la matita o la penna del giornalista satirico dovrebbe (ma per una sorta di massima interiore e non per una legge esterna) cercare di essere più docile, più cauta, più pudica, per non ferire ulteriormente. Dovrebbe trovare altri modi e altri momenti per riversare tutta la sua potenza. Forse anche di fronte a tante altre cose occorrerebbe andarci cauti, non solo sulle tragedie umane: anche andar troppo oltre nello sbeffeggiare un credo o una fede intima e profonda forse è molto lesivo. Così come scherzare su alcune minoranze potrebbe esser persino pericoloso, perché potrebbe indirettamente spingere anche a un odio o un’emarginazione maggiori, a un senso di solitudine e isolamento che già l’individuo potrebbe provare di per sé, quotidianamente, senza bisogno che una vignetta offensiva aumenti questo senso di esclusione, di inadeguatezza, di “non conformità” alla norma stabilita, più o meno esplicitamente, dalla società, qualunque essa sia (etnica, religiosa, sessuale, di classe..).
Però ecco, non possiamo e non dobbiamo creare argomenti tabù su cui non si possa più scherzare, anche quando lo scherzo disgusta e avvilisce, perché finiremmo, o, per rendere qualsiasi argomento potenzialmente vergine dagli “stupri” satirici, o per tutelare solo quelli che, come società cattoliche borghesi e perbeniste ci fa più comodo tutelare, quindi va bene sbeffeggiare l’islamista fanatico o “la checca” ma guai a chi tocca il Dio cristiano o il macho etero e il padre o la madre di famiglia! O tutto diventerebbe “politically correct”, imbavagliando e censurando ciò che politically correct proprio non è, oppure, difendendo dall’ “attacco” satirico solo quei valori cattolico-borghesi che siamo interessati a difendere, così da poter apparire come una civiltà degna di rispetto che riesca a mostrarsi (o fingersi) pura e innocente, solo perché si sarà auto-protetta ipocritamente contro qualsivoglia tentativo che miri a smascherare, talvolta in maniera tremendamente insensibile e urtante (come è accaduto in questo caso), i suoi scheletri nell’armadio. Ragionare su una questione delicata come quella della libertà di satira secondo me non deve perciò significare porsi nettamente, superficialmente e pericolosamente, a favore di una specie di ritorno alla censura o di un anti “Je suis Charlie” (per quanto, ripeto, i vari “je suis” siano a mio avviso ipocriti e settari di per se stessi), ma significa interrogarsi sull’accettabilità etica di un certo tipo di satira, e chiedere, a coloro che la satira la fanno, se possa esserci, a livello di sentire umano, un minimo di freno, morale, deontologico o istintuale/emozionale che sia, che impedisca, “di seppellirci tutti con una grande risata”, prendendo a prestito la frase resa nota da Bakunin (e divenuta poi motto del ’68: “la fantasia distruggerà il potere ed una risata vi seppellirà), sparando a zero su chi morto lo è già o su chi, magari, leggendo quella vignetta, si sente morire per la prima o per la seconda volta. Ne uccide più la lingua (in questo caso la penna, o la matita) che la spada, recita un motto dell’Antico Testamento, e in certi casi, questo è proprio vero e, ribadisco, a livello etico e umano non riesco a difendere l’atroce vignetta di Charlie Hebdo, ma, nel bene, e purtroppo, anche nel male (come appunto in questo caso), restano vere quelle parole, diventate quasi uno slogan alla moda, attribuite a Voltaire ma partorite dalla penna della scrittrice britannica Evelyn Beatrice Hall (e che compaiono sulla sua biografia del filosofo francese), che scriveva sotto lo pseudonimo di S. G. Tallentyre: “I disapprove of what you say, but I will defend to the death your right to say it” (“Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”).