Indipendensa! – il referendum e la presunta identità Veneta (parte 2)
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Cattolicesimo, Federalismo e Conservatorismo

Per comprendere la “questione veneta” è fondamentale guardare all’intreccio tra la storia e la struttura economica e politica del territorio. Come noto, il Veneto è conservatore e localista, sempre sospettoso del governo centrale; infatti fin dagli albori del Regno d’Italia si sono riscontrati movimenti anti-statisti. Sembra che già da prima della nascita dello Stato italiano, ai tempi della tanto rimpianta Serenissima, vi fosse una diffidenza tra l'entroterra della repubblica e il governo Centrale, situato a Venezia. Questa diffidenza si è poi trasformata al momento dell’annessione all’Italia, spostando il nemico verso Roma. Non appare casuale quindi, che sia proprio l’entroterra Veneto, tra le campagne delle province di Treviso, Vicenza e Padova, il territorio in cui gli autonomisti hanno sempre riscontrato un maggior numero di consensi.

Con l’annessione del Veneto al Regno d’Italia, il Clero inizia a essere il protettore degli interessi locali. In questo modo la gestione del potere e dell’ordine del territorio (soprattutto nelle campagne Venete più lontane dalle istituzioni) inizia a basarsi sull’influenza della chiesa e della famiglia. Quest’importanza dell’elemento familistico e spirituale riesce a perpetuarsi anche durante il ventennio fascista nonostante le sue politiche patriottiche. Alla nascita della Repubblica italiana, nonostante i compromessi tra il regime fascista e la Chiesa, quest’ultima rimane il vero collante sociale tra i cittadini e le istituzioni, e non perde il suo ruolo di riferimento nel territorio euganeo. Questa concezione è perseguita nel corso degli anni, tanto da far diventare il Veneto una roccaforte della Democrazia Cristiana. Nonostante la DC proteggesse gli interessi locali, riusciva a garantire un controllo politico e istituzionale della regione a livello nazionale. A fianco della DC erano però presenti molte voci critiche, che richiedevano un maggior distacco da Roma.

L’idea che il Veneto dovesse aspirare a una maggiore autonomia, o addirittura che non fosse Italia, si ritrova nei discorsi politici già dagli anni ’20, quando iniziavano a circolare le prime idee indipendentiste tra i partiti politici e i giornali, sia a destra che la sinistra. Con il fascismo queste sono forzatamente messe a tacere, per poi rinascere verso gli anni ’70, dopo il boom economico, quando i movimenti autonomisti e indipendentisti iniziano a istituzionalizzarsi. Questo periodo coincide con il cosiddetto “miracolo del Nord-Est”, quando, grazie al passaggio da uno sviluppo basato sull’agricoltura ad uno sviluppo industriale basato sulle piccole-medie industrie, questo territorio riesce a sollevarsi dalla povertà e dalla depressione. Il Veneto diviene l’emblema di quella che viene definita “Terza Italia”, che contrappone l’Italia dei distretti industriali al triangolo industriale (Milano-Genova-Torino, la prima Italia) al Sud Italia (con un economia di industrializzazione assistita). Da questo periodo è incominciata la fioritura di diversi distretti industriali ad alto potenziale, caratterizzati da un capitale sociale estremamente forte, improntati su una subcultura bianca (di area cattolica) che permetteva stretti rapporti tra le imprese, il territorio e la comunità.

La Terza Italia (che comprende oltre al Nord-Est, anche Toscana, Emilia Romagna e Marche), divenne un modello di sviluppo a cui guardava tutto il mondo, e viene considerato uno degli esempi più eclatanti di passaggio da un sistema fordista a uno postfordista. Grazie a questa struttura economica, in poche generazioni il Nord-Est ha visto la sua popolazione trasformarsi da contadina - afflitta da carestie e dalla piaga della pellagra, costretta a cercare fortuna in Brasile, Svizzera, Argentina e addirittura in Romania - a piccolo borghese, trascinatrice dell’economia, locomotiva d’Italia. La maggior parte dei protagonisti di questa rinascita erano contadini, proprietari di piccoli pezzi di terra, che hanno iniziato a creare micro imprese, in genere a carattere familiare e artigianale, che a stento raggiungevano i 10 dipendenti. Nasce così il mito del Veneto gran lavoratore, che con le proprie forze è riuscito a rinascere dalle proprie ceneri e ottenere ricchezza e benessere. Un benessere che per molti veniva “minacciato” dallo stato centrale, e in particolar modo dai fondi utilizzati per risanare il mezzogiorno. Negli anni '70 e '80 è stata infatti l'improvvisa ricchezza che ha portato la classe media a diventare protagonista di rivendicazioni di tipo indipendentistico soprattutto per motivi fiscali (per mantenere la ricchezza dove la si è prodotta). Iniziano così a formarsi dei veri e propri partiti autonomisti, tra cui la Liga Veneta, nel 1979.

Con l’ingrandirsi della Liga Veneta e il processo di secolarizzazione della chiesa, inizia a nascere una nuova concezione della politica locale più laica della DC, che riesce a catalizzare meglio il malcontento popolare, unendo le questioni dell'autonomia a quelle del federalismo fiscale. Alla fine degli anni '80 la Liga Veneta formerà la Lega Nord, e con l’inizio della seconda repubblica il Veneto diventa una roccaforte del Carroccio. La Chiesa non ha comunque mai perso del tutto la sua influenza nella regione, e in molti comuni si è ritrovata ad essere il principale rivale della Lega. Essa continua tutt’oggi a interessarsi delle vicende politiche locali, basti pensare che alcuni giornali cattolici hanno invitato i fedeli a votare sì per quest’ultimo referendum, un consiglio che sembra aver poco a che fare con le questioni spirituali.

Nell'ultimo decennio, a ridare forza agli indipendentismi ci ha pensato la Crisi Economica: le piccole imprese, che sono rimaste le protagoniste dell'economia Veneta, sono passate da un periodo di benessere a uno di depressione. In questo modo si è iniziato a diffondere un malcontento generale, in quanto il ceto medio si è ritrovato a sprofondare verso il basso da una posizione privilegiata, duramente conquistata, che sino a poco tempo fa risultava tra le più eminenti nel panorama industriale europeo. Inizia quindi a diffondersi una visione distorta di questa situazione: le persone devono subire la crisi economica causata dalle grandi banche estere, dall'Euro ed altri fattori, una crisi che viene dall'esterno e che si contrappone al precedente miracolo economico che viene visto come un successo interno, il risultato degli instancabili lavoratori veneti, che da povera realtà contadina sono diventati il motore economico d’Europa. Questa concezione ignora però che lo sviluppo dell’Italia del dopoguerra è stato influenzato soprattutto da “fattori esterni” alla regione, in primis i fondi del piano Marshall.

Che la questione della struttura economica sia strettamente legata al sentimento autonomista è evidente anche dai risultati del referendum in Lombardia. Dai dati si evince come tra i territori Lombardi che hanno partecipato più attivamente al referendum dell’autonomia sono quelli di Bergamo e Brescia. Queste province sono anch’esse caratterizzate da una struttura economica simile a quella del Nord-Est, fatta di distretti Industriali diffusi. Invece a Milano, vera locomotiva d’Italia e centro della grande industria italiana, il malessere per una fiscalizzazione troppo alta è meno presente, e ciò si è tradotto in una bassissima affluenza alle urne. Un altro fattore di malcontento derivante dalla situazione politica ed economica è il differente status del Veneto con le realtà circostanti: le altre due Venezie storiche sono infatti state dichiarate per ragioni differenti “a Statuto Speciale”, e godono quindi di maggiori privilegi. La questione delle regioni a Statuto Speciale è delicata e a mio avviso in parte anacronistica: attualmente sono venute a mancare alcune delle ragioni storiche che motivavano la scelta di considerare i territori del Trentino Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia meritevoli questi privilegi.

Il Trentino Alto Adige, composto dalle province autonome di Bolzano e Trento, è diventato a statuto speciale nel 1946, dopo i trattati di pace del dopoguerra, in risposta alle richieste di autonomia e alle proteste della popolazione di lingua tedesca. Lo Statuto in questo caso è stato utilizzato come garanzia di tutela per la popolazione di lingua tedesca, compensando così i danni del ventennio fascista, che aveva attuato politiche di italianizzazione forzata. Il Friuli Venezia Giulia è invece stata l’ultima regione a divenire a statuto Speciale, nel 1963, non tanto per la presenza di una minoranza Slovena all’interno del territorio, quanto per l’importanza strategica e politica della regione, che si trovava in una zona di confine tra la Jugoslavia di Tito e il blocco occidentale.
Questo ultimo punto, “l’invidia” dello Statuto Speciale, è uno dei fattori principali che ha portato la gente a votare al Referendum. Lo stesso Zaia, forte del risultato della consultazione, ha dichiarato di voler trattare con lo stato proprio l’ottenimento di un Veneto a Statuto Speciale.

Identità, politica e cultura

Quella Veneta è un’identità che non si fonda su una reale cultura condivisa, ma rappresenta una narrazione, spesso enfatizzata per motivi politici. Esistono effettivamente somiglianze culturali nei territori delle Venezie, tradizioni, usi e costumi tipici della regione storica, che accomunano la popolazione di questi luoghi. Ma regioni con tradizioni comuni sono presenti anche nel restante territorio italiano: perché non esiste un forte sentimento indipendentista anche in Piemonte, nelle Marche o in Basilicata? Nel caso del Veneto ogni localismo è stato gonfiato, enfatizzato e portato all’estremo. Si elogia un presunto “popolo Veneto”, che sembra più unito dalla tendenza al conservatorismo e dall’ostentata difesa del proprio territorio e dei propri interessi più che da una tradizione degna di essere perpetuata e conservata. Nella costruzione di una “venecità autentica” sono infatti in gioco interessi storici ed economici, che però hanno ben poco da spartire con il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Ma d’altronde l’utilizzo dell’identità come mezzo politico è uno dei capisaldi di moltissimi movimenti, partiti e rivendicazioni a partire dagli anni ’60 fino ad oggi. In questo caso però non si tratta di una rivendicazione di un’identità subalterna negata o di una cultura di minoranza, ma di un’invenzione identitaria, costituita su miti ben precisi, e tesa al mantenimento dei propri privilegi e il proprio status quo.
L’identità Veneta viene così gonfiata, creando un tradizionalismo enfatizzato, che tende a imputare a cause esterne i problemi e i mali che ci circondano. Eppure la Mafia del Brenta, il fallimento della banca di Vicenza e Veneto Banca, il Mose i Pfas nell’acqua …. Sono tutti “disastri nostrani”, Veneti DOC.

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INDIPENDENSA! - il referendum e la (presunta) identità Veneta – parte uno

Il 24 aprile 2017 Luca Zaia ha emanato un decreto per chiamare i veneti alle urne, con lo scopo di far scegliere ai cittadini se approvare o meno una maggiore autonomia regionale rispetto allo stato centrale. Nello stesso giorno anche nella Regione Lombardia si è tenuto un referendum non dissimile, che però è stato meno partecipato rispetto a quello del vicino orientale: l’affluenza in Veneto ha raggiunto quasi il 57,2%, mentre in Lombardia hanno votato solo il 38,2%. In tutti e due i referendum, la vittoria del sì è stata schiacciante.

Alla luce dei risultati dei due Referendum appare chiaro, anche per chi in Veneto non ha mai vissuto, che pur proponendo un quesito simile ed essendo accorpati in un’unica data, le due consultazioni nascevano da bisogni e sentimenti diversi, e sono stati vissuti dalla popolazione delle due regioni in maniera molto differente.
In particolare, il divario tra i risultati del referendum tra Lombardia e Veneto sono indicativi della differente storia politica e sociale dei due territori, in quanto rende evidente un sentimento “identitario venetista”, derivante da molteplici fattori economici e sociali, che ha pervaso la storia politica del Nord-Est negli ultimi decenni, e che in Lombardia è assente. Se si vuole capire a fondo il successo di questa consultazione, si deve quindi tenere in considerazione non solo ragioni politiche e finanziare, ma anche le narrazioni separatiste che da anni pervadono il nord Italia, in particolare il Nord-Est.

La stessa data del referendum è indicativa degli intenti degli enti promotori, ed è stata scelta per “fomentare” gli animi degli autonomisti. Questa è stata fissata in un giorno che per molti è altamente simbolico: il 22 ottobre 2017, nel giorno del 151° anniversario del plebiscito del Veneto (tenutosi il 21 e 22 ottobre 1866) che sancì la fine della terza guerra d'indipendenza e l'unificazione delle province venete e di quella di Mantova al Regno d'Italia. Annessione che per alcuni revisionisti storici sarebbe illegittima.
Un secondo dato da considerare è che questo referendum, oltre ad essersi svolto in una data particolarmente significativa, si inserisce in un periodo storico particolare, in cui la questione delle autonomie diventa sempre più importante a livello europeo. Dal referendum Scozzese alla Catalogna fino alla Brexit, lo scontro tra una società sempre più sovranazionale e le resistenze dei localismi sta trovando sempre più spazio nelle cronache internazionali. Queste tematiche non sono mancate durante la campagna elettorale, e a livello di società civile non sono mancate le manifestazioni di sostegno ai localismi, in primis alla Catalogna, in quanto “popolo oppresso (quello Veneto) solidale con un altro popolo oppresso (quello catalano)”.

Questo sentimento del Veneto come “stato occupato” dall’Italia non è una novità: in Veneto questo referendum ha cavalcato decenni di rivendicazioni indipendentiste, non tutte legate alla lega. Seppur questi movimenti siano solitamente legati a idee di Destra, essi hanno una storia che inizia molto prima degli anni ’90 e hanno poco da spartire col Carroccio. Per comprendere quanto la “voglia” di autonomia sia trasversale è eloquente un documento del 2012, quando il consiglio regionale del Veneto presentò la risoluzione n°44 per “il diritto del popolo Veneto alla compiuta attuazione della propria autodeterminazione”, firmata non solo da esponenti leghisti, promotori dell’iniziativa, ma anche da consiglieri di Forza Italia e di Rifondazione Comunista. A livello locale, importanti sindaci del PD come quelli dei capoluoghi di Treviso e Vicenza, si sono schierati apertamente per il sì. Il risultato del referendum in Veneto non è quindi da vedere come un successo della Lega, ma è un dato che oltrepassa i confini del partito in quanto va ad intaccare un movimento che esiste da più di cinquant'anni.

Chi vede in questo referendum la sconfitta del PD e del M5s non ha a mio avviso compreso che sono molte le forze politiche in campo che sostengono l’autonomia, o che aspirano a un Veneto a Statuto Speciale, come le altre regioni del Triveneto. L'abilità della Lega è stata quella di sfruttare al meglio un periodo favorevole e un risentimento nei confronti dello stato Italiano che esisteva ormai da anni, convogliando questi movimenti e questi bisogni identitari sotto la sua bandiera.
Da una parte, è vero che questo referendum non porterà probabilmente a nulla di concreto a livello politico (il caso dell’Emilia Romagna, che ha iniziato le pratiche dell’autonomia senza voto popolare è stato citato da tutti coloro che ne hanno criticato l'utilità); dal punto di vista simbolico, esso ha avuto un significato molto potente perché ha rafforzato il potere contrattuale tra il Veneto e Roma consacrando Zaia come uomo di punta della Lega. In secondo luogo, la consultazione ha messo in luce tutta una serie di sentimenti indipendentisti e identitari, di cui si preferiva ignorare l’esistenza, e che in genere venivano messi a tacere dalle tendenze “assimilazioniste” dello stato centrale. In questo modo ha anche ridato vigore a una serie di movimenti, spesso visti come “elementi folkloristici” pronti a utilizzare questo referendum per aumentare la propria forza.
Questa non è stata l'unica volta che è stato proposto un referendum per promuovere l'autonomia o addirittura l'indipendenza del Veneto. Infatti, nel corso degli anni diverse fazioni e gruppi politici hanno più volte cercato di ottenere il via libera per una consultazione popolare. L’ultimo di questi tentativi è avvenuto nel 2014, quando il partito “plebiscito.eu” tentò di cancellare l’annessione del Veneto al Regno d’Italia con un malriuscito referendum digitale nel 2014. Questo referendum costituiva un’azione simbolica, nata dopo una serie di tentativi fallimentari a livello istituzionale, quasi sempre bocciati in quanto in contrasto con la Costituzione.

Indipendentismo nella cultura popolare

Come accennato in precedenza, il 22 ottobre 1866 si è svolto il plebiscito del Veneto per sancire l'annessione al Regno d'Italia le terre cedute alla Francia dall'Impero austriaco a seguito della terza guerra di indipendenza. Si tratta di un fatto storico dibattuto, visto da alcuni storici come il primo atto di “colonialismo” verso la regione Veneta. Il plebiscito del 1866 è stato più volte messo in discussione da molteplici tentativi di revisionismo storico, che vedono nell’annessione all’Italia del Veneto un atto illegale, un inganno frutto di una truffa architettata dal Regno d’Italia. Questa visione venne ripresa da un gruppo di otto persone della campagna padovana denominato “Veneta Serenissima Armata”, più famosi come “i Serenissimi” (appellativo dato loro dai mass media), considerati come terroristi dallo Stato italiano, che occuparono simbolicamente tra l’8 e il 9 Maggio 1997 il campanile di san Marco dichiarando illegittima l’annessione del Veneto al Regno d’Italia.
Il gruppo era armato di alcuni fucili e un “Tanko artigianale”, un autocarro travestito da carro armato. Nonostante non avessero grandi mezzi e la loro impresa sia durata poche ore, i Serenissimi ebbero un grosso impatto mediatico, portando la questione veneta anche sulla Cnn e diventarono un simbolo per tutta una serie di partiti e movimenti autonomisti. Nel 2014 si è tentato di ripetere l’impresa, ma è stata sventata dalle forze dell’ordine prima che il mezzo blindato venisse assemblato. Circa una quarantina di persone tra indipendentisti veneti e bresciani sono state arrestate, tra cui due ex-serenissimi. Da allora il “Tanko” è entrato nell’immaginario collettivo “Veneto”, protagonista di magliette e meme.

Oltre a queste azioni ad impatto, in molti sono stati gli episodi di singoli cittadini o movimenti che hanno cercato di mostrare la loro lontananza dallo Stato italiano, da sindaci che hanno esposto gigantesche bandiere del leone di san Marco, ai numerosi graffiti che inneggiano al Veneto stato. Numerosi sono i partiti che già dal nome presentano programmi politici improntati sull'indipendentismo o sull'autonomia dall'Italia, come Progetto Nord-Est (che mira alla costruzione di una Macro-Regione che comprenda tutte le tre Venezie), Indipendenza Veneta e Liga Veneta Repubblica. Ironia della sorte, dove non sono riusciti i vari referendum e gruppi eversivi è arrivato un errore della Lega: attualmente il tanto agognato Regio Decreto che sanciva l’annessione al Veneto non esiste più, in quanto Calderoli, durante il suo mandato come Ministro delle semplificazioni, ha dato alle fiamme – con un'azione dimostrativa - numerose norme, tra le quali quella dell’annessione del Veneto all’Italia.

Cos’è l’identità veneta?

“Tre millenni di civiltà hanno fatto del Veneto una regione ricca di arte, di tradizioni e di memoria e hanno consolidato una cultura locale, un insieme di parlate e unodo di “essere nel mondo” chiaramente determinato”. Questa descrizione viene dal sito della Regione Veneto, che presenta una sezione sull’identità e la lingua veneta al fine di mostrare “l’impegno della Regione nel favorire iniziative di ricerca, di divulgazione e di valorizzazione del patrimonio culturale e linguistico su cui trova fondamento l’identità veneta”. Quest’impegno viene promosso tramite una serie di iniziative e finanziamenti tesi a diffondere la cultura e l’identità del territorio ai propri abitanti. Si tratta di una concezione dell’identità che l’antropologo Aime definisce come «istituzionale», come se l’identità di un popolo “fosse un elemento strutturale, in grado di essere gestito e organizzato dall’alto come scuola, industria, sanità, e non un valore che dovrebbe nascere dal basso ed essere continuamente rinegoziato”.
Ma in cosa consiste quest’identità veneta tanto decantata dai leghisti e dagli altri movimenti autonomisti/indipendentisti? Esiste una reale Identità Veneta tra la popolazione del Nord-Est?

In genere per comprendere il sentimento identitario di un popolo si guarda dapprima alla sua storia, alla sua lingua, alle sue tradizioni, ai suoi usi e costumi. Il Veneto storico si componeva della Venezia Euganea (attuale Regione Veneto), della Venezia Giulia (attuali province di Trieste e di Gorizia, l'Istria) e della Venezia Tridentina (attuale Provincia di Trento). Nonostante questi territori siano stati unificati per più di mille anni, la nostalgia per la Serenissima non fa parte dei discorsi identitari e politici di tutto il Nord-Est e attualmente a livello politico nessun trentino o friulano o istriano si è mai mosso a favore di un indipendentismo Veneto, né si sente legato a una cosiddetta “Identità Veneta”.

Da un punto di vista storico e culturale non si può parlare di un'identità veneta vera e propria, ma piuttosto si possono ritrovare delle analogie culturali e linguistiche tra i residenti nelle tre Venezie. D’altronde è difficile pensare al “popolo Veneto” come unitario: i modi di vivere e la stessa “łéngua vèneta” differiscono notevolmente, variando a seconda dei comuni e dei territori. Basti pensare alle enormi differenze che passano tra il Cadore - territorio di montagna con molti luoghi che rischiano lo spopolamento e l’abbandono - dove il dialetto non è una variante del veneto ma deriva dal Ladino e la Laguna veneziana - zona industriale densamente popolata affacciata sull’Adriatico - caratterizzata da stili di vita e necessità completamente diverse da quelle dei Cadorini e dove si parla il dialetto Veneziano (che presenta molteplici varianti al suo interno).

Dal punto di vista politico e amministrativo “i veneti” non si amano troppo tra di loro. Non è un caso che in quest’ultimo referendum fosse previsto per la sola Provincia di Belluno un ulteriore quesito, per chiedere una maggiore autonomia dalla Regione Veneto per il territorio bellunese. Questa Provincia è infatti completamente montuosa, ed ha bisogno di attenzioni specifiche, che non sempre Venezia riconosce; per questo motivo negli anni si è creato un malcontento contro l’amministrazione regionale, e da tempo molti partiti richiedono l’autonomia dal Veneto. Per motivi non dissimili nel corso degli ultimi anni sono stati ben 31 i referendum di comuni di confine, tra cui la stessa Cortina D’Ampezzo, che hanno richiesto l’annessione (motivandola spesso non solo per motivi fiscali, ma anche storico-culturali) al Trentino Alto-Adige o al Friuli Venezia Giulia. Nessun Comune ha mai sentito la necessità di passare alla Lombardia o all'Emilia Romagna.

Anche la narrazione politica della Lega palesa iper-localismi, che usano come punto di riferimento non la regione, ma i singoli territori: basti pensare che si è arrivati a farneticazioni deliranti quali quelle del fu sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini sull’esistenza di una fantomatica “Razza Piave”, priva di impurità.
Alla luce di queste riflessioni sembra difficile riuscire ad immaginare un’identità forte e compatta, tale da poter definire i veneti come popolo a sé stante, in perenne lotta con il potere centrale.

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Martedì, 10 Ottobre 2017 00:00

Questione catalana e sinistra

Questione catalana e sinistra

Il referendum autoconvocato dalla Catalogna sulla questione dell’indipendenza evoca analogie e differenze con il caso scozzese. Una regione ricca chiede di separarsi per poter avere il controllo completo delle proprie risorse; il governo centrale di Madrid ha risposto però in modo molto diverso rispetto a quello di Londra, negando ogni spazio per un processo legale verso l’indipendenza (e reprimendo ovviamente il processo illegale).

A sinistra si sono avuti giudizi diversi sulla vicenda: per alcuni non vi è differenza tra il governo regionale di Barcellona e l’egoismo fiscale della Lega Nord; per altri la lotta contro Madrid può essere un grimaldello per rompere l’equilibrio costituzionale spagnolo e passare a uno Stato federale e repubblicano.

Pubblicato in A Dieci Mani
Mercoledì, 04 Ottobre 2017 00:00

La crisi è spagnola non solo catalana

La crisi è spagnola non solo catalana

La richiesta di indipendenza dal regno di Spagna da parte di una maggioranza (o, fino a tempi recenti, forse non esattamente una maggioranza) della popolazione catalana ha motivazioni dirette o indirette non molto diverse da analoghi fenomeni altrove in Europa. Al fondo gioca l’intenzione di tenere per sé, essendo un territorio ricco, il più possibile delle proprie tasse. Giocano inoltre grandi differenze di storia, di cultura e di lingua. E gioca, molto pesantemente, la lunga non encomiabile storia della Spagna sul versante delle popolazioni di lingua non castigliana.

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La Spagna e le autonomie regionali: il vero quesito dietro al voto referendario in Catalogna

In queste ultime settimane il dibattito politico europeo ha avuto, insieme alle elezioni federali in Germania, come argomento principale il referendum per l’indipendenza della Catalogna. Il Parlamento catalano e il leader Carles Puigdemont avevano annunciato lo scorso giugno il referendum, il secondo dopo il voto del 2014 considerato dal governo spagnolo come consultivo e non vincolante. Motivo per il quale anche la partecipazione dei catalani al voto era stata deficitaria (solamente il 35 % degli aventi diritto per il quale non fu raggiunto il quorum, 80 % dei votanti favorevole alla indipendenza della Catalogna). In realtà la contesa iniziò nel 2010, quando la Corte Costutizionale annullò la legge varata con un referendum dal governo di Zapatero che regolava i rapporti tra stato spagnolo e autonomia regionali.

Pubblicato in Internazionale
Mercoledì, 26 Ottobre 2016 00:00

Identità irlandese: dalle origini ad oggi

 di Jacopo Vannucchi, pubblica sul numero cartaceo di marzo

Identità irlandese: dalle origini ad oggi


«De Valera […] aveva cercato di convogliare risorse umane ed economiche nelle campagne, nella convinzione che le attività agricole fossero quelle più adatte ad un popolo di santi e di repubblicani. […] La visione ignorava non solo i desideri degli irlandesi di fare fortuna e migliorare i loro standard di vita […] ma anche i costi umani e sociali dell’arretratezza economica: in particolare la tubercolosi, le malattie infantili, […] [m]entre nelle campagne l’agricoltura e la Chiesa perpetuavano un asfissiante regime patriarcale».
Eugenio F. Biagini, Storia dell’Irlanda dal 1845 ad oggi


«Fu divertente finché durò. […] L’Irlanda si sentiva libera, alla fine. […] Libera dalla religiosità autoritaria che compensava l’assenza di moralità civica. Libera dal bisogno di celebrare una pittoresca povertà per fare virtù di una bieca necessità. In questi anni l’Irlanda era rozza e talvolta volgare, governata in modo insufficiente e intralciata dall’assenza di una visione di lungo periodo e di una genuina ambizione pubblica. Era caotica, talvolta al limite dell’anarchia. Ma c’era, al fondo di tutto, una ragione di ottimismo».
Fintan O’Toole, Ship of Fools. How Stupidity and Corruption Sank the Celtic Tiger

Il bipartitismo Fine Gael / Fianna Fáil (almeno fino alla recente crescita dello Sinn Féin) è stato, pochi anni fa, ricondotto addirittura a diversità genetiche. Il primo partito conterebbe su una base prevalentemente di discendenza anglo-normanna, il secondo su una soprattutto gaelica.

Senza bisogno di ricorrere a simili determinismi, è evidente che i tratti culturali dell’Irlanda, nell’Éire come nell’Ulster, sono figli di una secolare maturazione.

L’identità irlandese moderna inizia a consolidarsi nel XVI secolo, con la definitiva fusione di due ceppi etnici: quello gaelico autoctono e quello dei “Vecchi Inglesi”, discendenti dai conquistatori normanni (vassalli, all’epoca, del re d’Inghilterra). In questo periodo l’alterità dell’Irlanda rispetto a Londra ruotò attorno al fallimento della Riforma anglicana, ostacolata sia da insufficienti infrastrutture di comunicazione interna sia dal timore inglese di non sollecitare un intervento spagnolo in difesa dei cattolici. In ogni caso si provvide a insediare una cospicua popolazione protestante nell’Ulster, organizzandone la colonizzazione secondo il modello già sperimentato nelle terre americane della Virginia. La maggiore ondata di coloni protestanti fu però frutto di migrazioni private dalla Scozia.

Questi coloni, circondati da una popolazione cattolica, si stabilirono in insediamenti fortificati (in modo non dissimile dalla gentry bianca nell’odierno Sudafrica post-apartheid). Le violenze contro i coloni perpetrate dai cattolici nel 1641, nel quadro della guerra civile inglese, sono all’origine della sindrome di assedio tuttora operante nell’Irlanda del Nord: i protestanti, che costituiscono la maggioranza dell’Ulster, risultavano e risultano però in netta minoranza nella dimensione pan-irlandese. Questa identità confessionale-locale, peculiarmente combattiva, fu ulteriormente consolidata dalle vicende dell’assedio di Derry del 1689. La città resistette all’assedio del re cattolico Giacomo II, ma le navi inglesi inviate in supporto dal protestante Guglielmo d’Orange in un primo momento si ritirarono, dando ormai per spacciata la sorte degli assediati. I protestanti dell’Ulster compresero che avrebbero sempre dovuto far conto su se stessi più e prima che sul governo di Londra.
Nel resto dell’Irlanda il veemente puritanesimo di Cromwell aveva portato dopo il 1649 a spoliazioni ed espropri agrari ai danni dei cattolici. Dopo il 1689 le leggi restrittive anticattoliche furono ulteriormente inasprite. La popolazione di obbedienza romana si rivolse così a formazioni extra-statali (principalmente la Chiesa e le società segrete rurali), mentre, d’altro canto, furono i protestanti a sviluppare un proto-nazionalismo. Oltre che nell’Ulster essi erano presenti soprattutto a Dublino, dove, come esponenti della borghesia locale, dettero vita a una riflessione politica analoga a quella partorita in quello stesso periodo dai coloni americani.

Nel 1798 la rivoluzione indipendentista di Wolfe Tone (anch’egli un protestante), sostenuta dalla Francia, pur fallendo, convinse Londra a sopprimere l’autonomia parlamentare concessa a Dublino nel 1782. Dal 1801 l’Irlanda fu inclusa con la Gran Bretagna nel nuovo Regno Unito. I protestanti, in maggioranza, si rassegnarono all’Unione, vedendola come il male minore; furono i cattolici, da allora, a ereditare il sentimento nazionalista. Al tempo stesso, sulla scena irlandese, furono i Tories (conservatori) a restare più schiettamente anglofobi, anche per idiosincrasia verso il presunto filo-cattolicesimo degli Whigs (liberali). (L’antipatia dei Tories irlandesi per Londra si doveva anche al fatto che la Chiesa d’Irlanda, pur restando parte della comunione anglicana, era autonoma dalla Chiesa d’Inghilterra.)
Negli anni 1840, appena prima della Grande carestia delle patate e mentre in Gran Bretagna maturava il cartismo, il proprietario cattolico Daniel O’Connell mobilitò enormi masse di fittavoli suoi correligionari battendosi per tre obiettivi: l’abrogazione delle leggi discriminatorie anticattoliche, i diritti dei fittavoli, la revoca dell’Unione. Questo movimento, poi travolto dalla carestia, da un lato iniziò la saldatura tra nazionalismo, cattolicesimo e movimenti agrari; dall’altro lato, fu il primo episodio in cui la politica irlandese si appoggiò sulla Chiesa cattolica per colmare le proprie lacune organizzative. Entrambe le questioni si sarebbero ripresentate trent’anni dopo, con la Grande deflazione.

Nel frattempo la Chiesa cattolica irlandese aveva assunto un profilo più militante e compatto, favorita anche dagli effetti sociali della carestia. Per un verso questa aveva decimato le popolazioni dell’Ovest rurale, più devote alla contaminazione coi riti pagani, favorendo dunque l’uniformità delle pratiche di culto; per altro verso, le famiglie contadine, memori della carestia, tendevano a evitare il frazionamento delle terre e quindi destinavano più figli alla vita ecclesiastica. Questa rinnovata influenza sociale produsse per contrasto un ulteriore arroccamento dei protestanti, irritati anche dalla politica conciliatoria di Londra tesa a evitare di spingere la Chiesa cattolica nelle braccia dei nazionalisti. Fu però una minoranza intellettuale di protestanti à la Wolfe Tone a recuperare nel XIX secolo le tradizioni gaeliche, viste come punto di riferimento per un’Irlanda a-confessionale.

Gli anni della carestia e quelli immediatamente seguenti videro, com’è ovvio, un momentaneo acquietarsi delle pulsioni rivoluzionarie. Fu tuttavia in questo periodo che il nazionalismo definì meglio la propria impalcatura concettuale: in concomitanza con le Rivoluzioni del 1848 l’obiettivo nazionale fu affermato essere subordinato ai diritti dei fittavoli, poiché la Repubblica, si diceva, poteva avere una base solida solo nella proprietà contadina. L’iniquità dei patti agrari era del resto alla radice della morte per fame di un milione di persone, dipendenti dalle patate, in un Paese che restava esportatore di cereali. Proprio dalla piccola borghesia contadina provennero i ranghi della Irish Republican Brotherhood, la prima organizzazione nazionalista moderna (1858).
Queste linee di frattura storiche erano destinate a manifestarsi in tutto il loro potenziale esplosivo dopo il 1912, l’anno in cui il Parlamento britannico approvò definitivamente la Home Rule per l’Irlanda. Londra avrebbe voluto un’Irlanda unita, sia per liberarsi completamente della questione irlandese sia per avere la garanzia che grazie alla minoranza protestante il nuovo Dominion sarebbe rimasto fedele all’Impero. Nel convulso decennio che separa l’approvazione della Home Rule (mai entrata in vigore, per via dello scoppio del conflitto mondiale nel 1914) dal Trattato anglo-irlandese (dicembre 1921) il mantenimento dell’Ulster protestante nello Stato irlandese si rivelò però impossibile.

Dopo la divisione dell’isola, nel 1922, l’Éire (“Stato Libero Irlandese” fino al 1937) e l’Ulster percorsero binari diversi, come diverse erano le due società, ma paralleli. Il tratto comune fu la permanenza al potere di forze conservatrici risolute a impedire sviluppi democratico-progressivi. Nel Nord il governo unionista pose in atto una strategia segregazionista che ricalcava fedelmente quanto avvenuto, oltreoceano, negli stati ex-confederati: la divisione artificiale delle classi inferiori in modo da integrarne una parte a sostegno del regime conservatore e, in specifico, evitare l’affermazione di un partito laburista di massa come invece avvenuto in Gran Bretagna dopo il 1918. L’Irlanda del Nord era tra le aree più disagiate del Regno Unito, per cui un impiego pubblico o l’assegnazione di un alloggio popolare facevano spesso la differenza tra la miseria e una vita decente. La discriminazione occupazionale (e anche elettorale, tramite un attento disegno delle circoscrizioni) tra proletari protestanti e proletari cattolici, in un contesto in cui il potere economico era in mani protestanti, consentì l’erezione di una barriera tra le due comunità religiose. Anche dopo il 1945, quando le sinistre toccarono l’apice storico, la risposta governativa consisté nell’aumento della spesa assistenziale e di impieghi nel settore pubblico. L’inconveniente di questa politica fu che alcune frange della classe operaia protestante si radicalizzarono su basi confessionali, sostenendo a partire dagli anni Sessanta l’estremismo religioso del pastore Ian Paisley.

Nel caso dell’Éire gli elementi di freno furono l’arretratezza delle strutture agrarie e il potere della Chiesa cattolica, sui quali andarono ad agire le profonde divisioni politiche seguite alla guerra civile del 1922. La prima classe dirigente del nuovo stato, improntata ad una visione liberista e liberale e raggruppata nel Cumann na nGaedheal, rappresentava gli interessi finanziari, commerciali, industriali e delle aziende agricole più grandi e moderne. Per contro i nazionalisti seguirono nei primi anni una tattica astensionista, mentre i laburisti stentavano a decollare. Ciò lasciò il Cumann privo di sostanziale opposizione, in un sistema politico zoppo. Unitamente alla sua debolezza organizzativa, ciò spinse il partito a fare affidamento sull’appoggio della Chiesa cattolica, alla quale in cambio fu riservata un’influenza ancora maggiore nel campo culturale e dei costumi.

L’arrivo al potere dei nazionalisti (Fianna Fáil), nel 1932, paradossalmente, si tradusse in una spinta ulteriormente conservatrice sul piano sociale. Il loro leader De Valera, veterano dell’Insurrezione di Pasqua e già capo del Governo provvisorio nel 1919, restava fedele al ruralismo ottocentesco e impostò la politica economica sul sostegno alle campagne (da cui il FF riceveva la maggior quota di voti), ove dominava il clero cattolico. La neutralità irlandese durante la Seconda guerra mondiale preservò in parte il Paese dalla ventata progressista che investì nel dopoguerra le nazioni belligeranti: l’assistenza sociale restava imperniata su basi caritatevoli e la tubercolosi si confermava una malattia endemica. Gli elettori segnalarono comunque la necessità di un ricambio: nel ’48 il governo del FF fu sostituito da una coalizione tra laburisti e moderati del Fine Gael; tuttavia, la debolezza del nuovo esecutivo e l’instabilità politica impedirono qualsiasi riforma e, assieme al clima della Guerra fredda, rafforzarono ancor di più la posizione della Chiesa (che senza fatica riuscì a stroncare un primo tentativo di introdurre il divorzio).

Fu solo negli anni Sessanta che l’Irlanda sembrò smuoversi verso il futuro. La classe dirigente forgiatasi nei conflitti di mezzo secolo addietro lasciò il posto a una generazione più giovane, anche tra i laburisti che da partito socialista-agrario presero un’impronta maggiormente cosmopolita e liberal. Gli investimenti industriali crebbero cospicuamente e il Paese iniziò ad abbandonare l’identità agricola. A partire dagli anni Ottanta un regime fiscale particolarmente conveniente e l’ampia disponibilità di manodopera anglofona disposta a lavorare a salari comparativamente bassi hanno attirato numerose imprese multinazionali, specialmente, negli ultimi anni, del settore informatico.
Alla fine del XX secolo non solo l’Éire si era guadagnata l’epiteto di “tigre celtica” per la celere corsa del suo PIL, ma anche l’Ulster ha avviato a soluzione il trentennale conflitto armato e la secolare segregazione della comunità cattolica. È tuttavia emblematico che, poco dopo l’accordo di pace (1998), i partiti “moderati” tradizionalmente rappresentativi delle due comunità siano stati scavalcati nel consenso dalle frange più radicali (il Partito unionista dell’Ulster dal Partito unionista democratico di Paisley, il Partito socialdemocratico e laburista dallo Sinn Féin). Il fatto che entrambe le confessioni scelgano che nella nuova condivisione del potere siano i partiti “estremi” a rappresentarle, ritenendoli evidentemente in grado di negoziare più duramente, è un segno della prudenza e forse della diffidenza con cui ci si approccia alla pace.

Per ciò che riguarda l’Éire, sebbene il PIL irlandese sia nel suo complesso cresciuto a ritmi “cinesi” (e stia adesso tornando a galoppare dopo la recessione), ciò si è accompagnato ad un altrettanto marcato aumento della diseguaglianza. Le statistiche sulla crescita del profitto occultano, cioè, la persistenza di sacche di sotto-sviluppo sociale. L’influenza reazionaria della Chiesa cattolica appare essersi disintegrata nel giro di pochi anni: soltanto nel 1985 è stata liberalizzata la vendita dei contraccettivi, nel 1993 depenalizzata l’omosessualità, nel 1996 introdotto il divorzio e chiuse le “case della Maddalena” (istituti di segregazione per donne “disonorate”). Sebbene restino forti restrizioni all’interruzione di gravidanza, nel 2015 il matrimonio è stato esteso agli omosessuali, cinque anni dopo l’introduzione delle unioni civili.
Tuttavia questa potente spinta libertaria, incoraggiata dal capitalismo cosmopolita, innestandosi sul corpo di un Paese a lungo tenuto sotto una cappa di oscurantismo, sembra aver più che altro prodotto una variante “stracciona” del turbocapitalismo. A cento anni dall’Insurrezione di Pasqua l’Ulster resta separato mentre nella Repubblica d’Irlanda le aspettative sociali della rivoluzione sembrano andate ancora una volta deserte.

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Lunedì, 28 Settembre 2015 00:00

Catalogna: Junts pel sì, sì que es pot

Risultato elettorale ampiamente previsto, quello che arriva dalla Catalogna, meno prevedibili saranno gli scenari che interesseranno la regione nell'immediato futuro.

A scrutinio quasi concluso la coalizione attualmente alla guida della Generalitat Junts pel sì (composta dai moderati di Convergenza Democratica - orfani dei meno separatisti di Unione Democratica - e dalla sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya, uniti in funzione indipendentista al di là delle divergenze ideologiche) ha ottenuto 62 seggi (sui 135 del locale parlamento), che sommati ai 10 (dai 3 uscenti) della lista Candidatura d'Unitat Popular (movimento senza leader che raggruppa molte sensibilità della sinistra indipendentista), assicurano al fronte indipendentista la maggioranza nel Parlament. In crescita l'affluenza (oltre sei punti in più rispetto alle scorse consultazioni), in quello che la propaganda indipendentista ha definito “il voto della tua vita”.
Seconda lista (si vota con il proporzionale e le liste bloccate) quella dei Ciudadanos, formazione di centro-destra recentemente cresciuta nella propaganda anti-corruzione, e sulla quale si è concentrato buona parte del voto anti-indipendentista. Alla formazione guidata da Albert Rivera vanno 25 seggi (9 i consiglieri uscenti).

Al terzo posto il PSOE (16 seggi), formazione politica che si è già liberata, negli scorsi anni, di quei socialisti favorevoli all'indipendenza, e che localmente propone, in sostanza, una autonomia ancora maggiore ai catalani. Dietro la formazione guidata da Iceta, si piazza la composita lista unitaria della sinistra Catalunya, sì que es pot. La lista, composta dalla locale federazione di Izquierda Unida (comprendente a sua volta i comunisti catalani del PSUC-viu), Podemos e ICV (i verdi catalani), con 11 seggi presidia uno spazio politico a sinistra ma non cresce, contrariamente a quanto era avvenuto pochi mesi con le vittoriose comunali di Barcellona. Al contrario la sinistra perde due seggi rispetto alle precedenti consultazioni, nelle quali era presente unicamente Izquierda Unida (appare dunque scarso il contributo del partito di Iglesias in queste elezioni).

Estremamente probabile che il mancato decollo del listone della sinistra sia attribuibile alla sofferenza che la sinistra nazionale spagnola ha sempre avuto rispetto alle varie spinte indipendentistiche che attraversano il Regno dei Borbone (non soltanto nel caso catalano, ma anche, ad esempio, in quello basco). L'appiattirsi di tutta la discussione politica catalana sul tema dell'indipendenza ha, con ogni evidenza, polarizzato il voto, penalizzando chi come Podemos ed IU non ha preso una posizione definita sul tema (limitandosi ad affermare il diritto ai catalani ad un referendum).

11 seggi il Partito Popolare, che ne lascia per strada otto rispetto al 2012. Non sono infatti bastati gli appelli anti-indipendensti di Obama e Merkel, nonché la chiusura della campagna elettorale con la presenza dell'ex presidente francese Sarkozy per compattare il voto “spagnolista” sull'ex sindaco di Badalona Xavier Garcia Albiol.

Acquisito il risultato si proporranno, fatalmente, le incognite sul destino prossimo della Catalogna. Scontato che altre spinte indipendentiste (baschi, galiziani) otterranno maggiore legittimità dai risultati usciti dalle urne di Barcellona, sarà inevitabile un irrigidimento del governo centrale rispetto ai passi, già indicati dal capo della Generalitat Artur Mas, verso l'indipendenza.
Già in passato, la corte costituzionale di Madrid aveva tolto ogni legittimità alla consultazione indipendentista (che ebbe largo sostegno popolare, in primo luogo dai sindaci) ed alle altre prove di forza verbali rispetto allo statuto catalano (come l'inserimento del concetto di nazione catalana). Altre tensioni potrebbero interessare il complesso dei “paesi catalani” - definizione politica dentro la quale stanno insieme anche Valencia ed un pezzo (La Franja) di Aragona - stretti tra spinte di unione con la Generalitat (impossibili per l'attuale Costituzione spagnola) e sofferenze per la supremazia di Barcellona (recenti, in tal senso, le polemiche suscitate tra Valencia e Barcellona per le parole del Consigliere alla Giustizia della Generalitat Germà Gordó, per il quale "la costruzione di uno stato non deve far scordare la nazione intera").

Rimane inoltre da capire, e gli ultimi comunicati della Commissione non aiutano a capirlo, i rapporti tra una Catalogna indipendente e l'Unione Europea.
Quel che è certo è che dentro l'attuale Europa sono sempre più le insofferenze (di destra, di sinistra e di centro, come nel caso di Mas) verso diversi stati nazionali (i casi più clamorosi riguardano Scozia e Belgio) e che non sarebbe più così sorprendente trovare tra qualche anno una Spagna priva del 16% della sua popolazione e del 25% del proprio PIL.

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Mercoledì, 24 Settembre 2014 00:00

Sul referendum in Scozia

È passato solo qualche giorno dal 18 settembre, dal referendum sull'indipendenza scozzese e già sembra che niente sia successo.

Dopo che televisioni e giornali hanno improvvisamente scoperto che in Scozia esistono istanze indipendentiste e per giorni hanno annunciato servizi, alle volte molto banali, sul tema con musichine a base di cornamuse, dopo la vittoria del “no” tutto tace. Già, perché oramai lo spettro dell'indipendenza, dello sfascio dell'Europa, si è allontanato.

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La storia di un uomo che ha lottato per l'indipendenza e il sogno di una società più giusta ed equa in Angola.
Per chi ha vissuto questa esperienza è normale essere un po’ frustrato, nonostante quel che è successo si possa comprendere… Ed io lo comprendo: c’era bisogno di creare una borghesia perché oggi, nel mondo, non c’è altro sistema, e siamo dovuti entrare nel mondo del capitalismo, aspettando che un giorno ci sia un’alternativa”.

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"Sono un prigioniero politico. Sono un prigioniero politico perché sono l’effetto di una guerra perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero, schiacciante, non voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra. Io difendo il diritto divino della nazione irlandese all’indipendenza sovrana, e credo in essa, così come credo nel diritto di ogni uomo e donna irlandese a difendere questo diritto con la rivoluzione armata. Questa è la ragione per cui sono carcerato, denudato, torturato." da Il diario di Bobby Sands

“Discipline, dignity and unity”. Disciplina, dignità ed unità. Così titolava il numero di An Phoblacht (mensile pubblicato dal partito Sinn Féin in Irlanda ed il cui titolo significa “La Repubblica”) di domenica 3 maggio 1981. La disciplina, la dignità e l'unità a cui ci si riferiva erano quelle dei militanti dell'IRA rinchiusi da anni nel carcere di alta sicurezza di Long Kesh, vicino a Belfast, dove a lungo sono stati vittime di violenze ed atroci torture. Il gruppo di detenuti nel marzo dello stesso anno aveva preso la decisione, guidati da Bobby Sands, di iniziare uno sciopero della fame che li avrebbe condotti alla morte nel caso il Primo Ministro della Gran Bretagna, una Margaret Thatcher eletta da poco al suo primo mandato, non avesse riconosciuto loro lo status di prigionieri politici.

Pubblicato in Umanistica e sociale

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