Mercoledì, 04 Ottobre 2017 00:00

La crisi è spagnola non solo catalana

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La crisi è spagnola non solo catalana

La richiesta di indipendenza dal regno di Spagna da parte di una maggioranza (o, fino a tempi recenti, forse non esattamente una maggioranza) della popolazione catalana ha motivazioni dirette o indirette non molto diverse da analoghi fenomeni altrove in Europa. Al fondo gioca l’intenzione di tenere per sé, essendo un territorio ricco, il più possibile delle proprie tasse. Giocano inoltre grandi differenze di storia, di cultura e di lingua. E gioca, molto pesantemente, la lunga non encomiabile storia della Spagna sul versante delle popolazioni di lingua non castigliana.

Personalmente non so, se fossi catalano, come mi sarei orientato. Non essendo cittadino spagnolo, essendo perciò uno spettatore di cose altrui, credo di non essere obbligato ad appoggiare o a rifiutare la richiesta catalana di indipendenza. In via astratta ritengo che tutte le minoranze territoriali abbiano un diritto di base all’autodeterminazione. Poiché, tuttavia, quasi sempre la pratica dell’autodeterminazione porta a conflitti armati e a massacri (comunque essa avvenga, per via legale o attraverso strappi), buonsenso vorrebbe che l’obiettivo di tali minoranze fossero riforme costituzionali garantenti il massimo di autonomia linguistica (o religiosa ecc.) e vasti poteri di governo in sede economica, giuridica, ecc. Però vale anche l’opposto in sede di buonsenso: se il potere centrale nega questi diritti, drena a sé parte eccessiva delle risorse fiscali dei territori di minoranze, se la richiesta di trattative da parte di esse non trova una risposta accettabile da parte del potere centrale, addirittura la risposta è la repressione, allora l’esercizio dell’autodeterminazione e la sua conclusione in forma di indipendenza sono, a mio avviso, politicamente e moralmente indiscutibili.

Qui è il punto. È vero che la Costituzione post-franchista cosiddetta di compromesso del dicembre del 1978 assegnò grande autonomia a una serie di regioni, tra cui (ma non solo) quelle di lingua non castigliana, cioè Catalogna, Valencia, Baleari, di lingua catalana, Paesi Baschi, Navarra, in larga parte di lingua basca, Galizia, di lingua vicina al portoghese (a esse furono anche aggiunte l’Andalusia, per la sua storica arretratezza economica, e le Canarie, dato il ceppo berbero originario della sua popolazione e i residui della sua lingua e della sua cultura nel locale castigliano). Ma è anche vero che la Catalogna è stata munta economicamente di continuo (così come il Paese Basco, anch’esso più sviluppato), ed è vero che ciò ha contato molto negli umori popolari catalani, avendo la Spagna come tutta quanta l’Europa sofferto della crisi del 2008 e delle balorde politiche di “rigore” addirittura rafforzate, su comando tedesco, dalla Commissione Europea, inoltre avendo di ciò sofferto in maniera speciale le classi popolari e buona parte di quelle medie di tutta la Spagna, vale a dire quasi tutta la popolazione spagnola.. Ed è anche vero che da parte dei governi del partito popolare, operanti senza soluzione di continuità dal 2008, a guida Mariano Rajoy dal 2011, le autonomie dei territori non di lingua castigliana sono state via via limate il più possibile (con la cooperazione dei governi locali dell’Andalusia, in mano al settore corrotto del partito socialista, avendone esso in cambio favori clientelari), mentre tali territori rivendicavano inascoltati il pieno esercizio della loro autonomia costituzionale (inoltre a ciò aggiungevano qualcosa di più, in ragione della crisi economica e sociale).
Non da oggi quindi è aperta la crisi della Spagna sul versante catalano (e, quanto meno, sul versante del Paese Basco e della Navarra: come di più si sa in Italia data la lunghissima lotta della popolazione basca, anche con mezzi militari, per l’indipendenza).

Come ho scritto, questa crisi ha avuto dal 2008 una sua accelerazione e un suo aggravamento, mescolando ragioni nazionali e ragioni sociali ed economiche. Un governo spagnolo minimamente avveduto avrebbe consentito da subito alla trattativa richiesta dalla Catalogna (e dai territori baschi). È accaduto invece l’esatto contrario, cioè la pratica massima possibile, nelle condizioni istituzionali date, dello storico centralismo castigliano, o, meglio, madrilegno.
E questo contrario è stato come gettare benzina sul fuoco: i popolari spagnoli sono gli eredi storici quasi diretti del franchismo, sono cioè il risultato della fusione del partito fascista dominante in Spagna dal 1939, a seguito della sua vittoria militare contro la repubblica democratica, con piccole pattuglie di democristiani non fascisti; e il franchismo tra le prime cose che fece fu l’annullamento dei diritti linguistici delle popolazioni non castigliane. Quanto i popolari spagnoli siano non solo gli eredi ma, nei limiti delle contestuali possibilità, i sostanziali continuatori del franchismo è facilmente dimostrato dagli eventi stessi di questi giorni. Così come sono i continuatori del centralismo monarchico. Rammento come esso si affermò fa in Spagna tre secoli, per secoli i catalani erano stati indipendenti. Gli Asburgo spagnoli si erano estinti nel 1701 dando sèguito a una guerra di successione che si chiuderà nel 1714 portando al dominio dei Borbone ovvero a Filippo d’Angiò come re di Spagna: che annullò subito le istituzioni che facevano della Spagna una monarchia composta da due territori indipendenti, l’Aragona, comprendente il complesso dei territori di lingua catalana (più altri territori non solo in Spagna), e la Spagna castigliana, e centralizzò su quest’ultima l’Aragona, che perciò scomparve a tutti gli effetti come stato.

L’ex franchista Rajoy cosa ci sta raccontando? Che il referendum catalano è nullo, è ininfluente sotto il profilo costituzionale, è cioè illegale, è una farsa, ecc. Che bisogno c’era, allora, di mandare la Guardia Civil ad attaccare con una brutalità estrema i votanti (sento in questo momento dalla tv di almeno 850 feriti e che essi erano persone disarmate, famiglie con bambini e anziani, ecc.). Dunque che altro è se non coazione a ripetere? Che altro è se non che i fascisti sono fascisti?
C’era una possibilità di transazione? C’era. Era, intanto, ricercata dagli stessi indipendentisti catalani, che guardavano nei loro ragionamenti a esperienze europee in corso. La transazione poteva cioè consistere nella trasformazione della Spagna in federazione di stati: come era accaduto all’ex Belgio centralista con quella sua Costituzione del 1993 che gli aveva consentito di superare la pesantissima crisi istituzionale attivata dall’indipendentismo fiammingo. La Svizzera è un altro esempio che va nella medesima direzione: lì non solo le lingue ufficiali sono quattro ma non vige nessun primato istituzionale della lingua parlata dai due terzi della sua popolazione cioè del tedesco. Poteva essere un ostacolo, ma fino a un certo punto, il carattere monarchico dello stato spagnolo, dato che catalani e baschi sono ovviamente a larghissima maggioranza repubblicani. Soprattutto a fare da ostacolo era diventata la corruzione incivile della famiglia reale, cui catalani e baschi hanno opposto in questi anni la richiesta di un referendum sulla sopravvivenza o meno della monarchia. Ma qui stava un altro dei motivi dell’irrigidimento della destra popolare: il ritorno della monarchia in Spagna è parte del lascito intoccabile del franchismo.

Ho scritto che la transazione “era” possibile: mi pare che ne sia ormai saltata la possibilità (non, beninteso, nel senso che non la si possa recuperare più avanti nel tempo, attraverso, per esempio, una sconfitta elettorale del partito popolare). In questo momento tutto tira, mi pare, nel senso della dichiarazione da parte catalana di indipendenza, e di converso nel senso della cancellazione da parte del governo dell’autonomia catalana e non so di che altro in sede di repressione. Anche perché quella del 1° ottobre del 2017 dell’indipendentismo catalano è stata in realtà una grande vittoria: nonostante l’azione repressiva brutale del governo centrale metà della popolazione è riuscita ad andare a votare, la stragrande maggioranza dei votanti si è espressa per l’indipendenza, a votare sono andati anche molti, vedi la sindaca Colau di Barcellona, la cui posizione si limita ad affermare il diritto catalano a referendum che determinino la posizione istituzionale di fondo della Catalogna. Se fino a ieri non era chiaro se esisteva una maggioranza di catalani orientata all’indipendenza, adesso ritengo che una maggioranza ci sia, che molti catalani che all’indipendenza erano contrari, che chiedevano una soluzione intermedia, ecc., non possono che essere passati all’obiettivo dell’indipendenza, non considerando più il potere centrale spagnolo altro che un potere brutale e illiberale oltre che antisociale.

Non è chiaro come si svolgeranno nel tempo medio le cose, c’è più di uno sviluppo possibile. Ma la situazione spagnola risulta improvvisamente passata a uno stadio molto più avanzato della sua crisi. C’è una popolazione in rivolta. Un’altra popolazione, quella basca, può tornare alla rivolta: nei territori baschi ci sono state in questi giorni grandi manifestazioni di popolo in appoggio al diritto della Catalogna all’autodeterminazione. La Costituzione spagnola può dichiarare quello che vuole, ma ciò che la rendeva effettiva, cioè accettata da tutte le popolazioni della Spagna, convinte o critiche che fossero, si è fracassato. I fascisti si sono dati la zappa sui piedi.

Immagine da www.politico.eu

Ultima modifica il Mercoledì, 04 Ottobre 2017 11:47
Luigi Vinci

Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.

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