L’intervista è ripresa dal sito www.arciempolesevaldelsa.it e fa parte della campagna del Comitato Arci Empolese Valdelsa “Kurdi! Una Roccia è forte al suo posto”
Luigi D’Alife è il regista di Binxet – Sotto il confine, un documentario totalmente autoprodotto che racconta, attraverso testimonianze e spiegazioni schematiche ma approfondite, la situazione del popolo curdo sulla linea del confine che separa la Siria dalla Turchia. La striscia di terra che si trova sotto il confine si chiama appunto Binxet. Le persone incontrate qui sono persone comuni con alle spalle storie di lotta, di dolore, di resistenza e di amore toccante. Al documentario, frutto di cinque viaggi fatti dal regista in territorio curdo, ha prestato gratuitamente la propria voce Elio Germano. Abbiamo avuto modo di incontrare D’Alife domenica 16 luglio alla festa di Settembre Rosso -associazione affiliata Arci- in occasione della proiezione del suo documentario.
In memoria di Orhan Doğan - Libertà al popolo curdo
Il 29 giugno sono stati dieci anni dall’improvvisa scomparsa di Orhan Doğan: un compagno curdo che conoscemmo bene, mia moglie Silvana Barbieri e io, al processo a carico suo e di Leyla Zana, Hatip Dicle, Selim Sadak che si tenne ad Ankara dal marzo del 2003 all’aprile del 2004, quattordici udienze consecutive a un mese di distanza l’una dall’altra.
Come che siano andate le cose, paiono comunque evidenti le reciproche intenzioni, una più pericolosa dell’altra. Quella del regime siriano è di evitare di trovarsi a gestire, come invece tende ad accadere, una ridotta porzione del territorio siriano, rappresentata dalla metà meridionale della sua metà occidentale, dalla striscia costiera e dal suo immediato retroterra (sotto stretto controllo russo), dal corridoio che a nord porta verso Aleppo nonché da questa città (quasi tutto il nord-ovest essendo invece in mano all’ELS, alla Turchia, ecc., e l’est sempre più all’FDS). Una tale prospettiva renderebbe inevitabile, al termine del conflitto o ancor prima, la fine del regime, l’esilio di Assad, ecc., probabilmente anche con il consenso di Russia e Iran. Mentre l’intenzione, quanto a Trump, pare ormai essere il controllo stabile, per il
Una guerra, in Medio Oriente, che non si chiude anzi si allarga
Considero per primi i passaggi subiti dai conflitti armati mediorientali in corso che precedono il cambiamento di presidenza negli Stati Uniti; poi ricapitolerò quelli successivi. Da quando ci ho provato l’ultima volta i cambiamenti di prospettiva di buona parte degli attori in campo sono stati enormi, sino a delineare un quadro generale molto diverso, quello precedente essendo determinato dalla centralità di Daesh – dal suo uso turco, dal contrasto portatogli da regime siriano, Russia, Stati Uniti e loro alleati, Iran e forze a esso legate – mentre Daesh ormai sta per essere sconfitto sia in Iraq che in Siria.
Ricapitolando fino a “prima” rispetto al quadro attuale
Esso era venuto assumendo la forma di un’instabile o ridotta, a seconda dei momenti, alleanza tra Russia e Stati Uniti, unita dall’obiettivo di far fuori Daesh. L’intervento russo aveva consentito di sbloccare un conflitto che durava da cinque anni e che stava portando al totale disfacimento della Siria, al consolidamento della forma semistatale assunta da Daesh, all’espansione parallela di al-Nusra (l’al-Qaeda siriana), a quella della coalizione Ahrar al-Sham nonché di una miriade di altri gruppi islamisti minori, a volte solo sigle di copertura delle due realtà maggiori, a volte loro alleati, a volte in conflitto con uno di essi o con tutt’e due, a volte su base etnica (soprattutto turcomanna), ecc. La Giordania, incaricata dall’ONU del censimento di queste forze, ne conterà 65.
L’ombra nera del Califfato arriva in Europa e scuote nuovamente un continente provato dalla crisi economica. La percezione è quella di un nemico oscuro e irrazionale, quasi apocalittico nello scontro di civiltà che porta avanti. Causa di questa percezione del presente sono sia il sistema di informazione, che, principalmente, la classe politica: risultano imbarazzanti rispetto all’effettiva realtà con cui abbiamo a che fare.
La traduzione della complessità, di cui abbiamo scritto anche recentemente su queste pagine (Un atlante per provare a capire il mediterraneo) è operazione delicata, a cui andrebbe dedicata la necessaria attenzione.
Complessità. Se dovessimo individuare una parola adatta a descrivere la situazione che il Mediterraneo, in particolare che i paesi definiti come ME.NA (Middle East and North Africa) vivono oggi, di sicuro quella parola sarebbe complessità.
Questa affermazione necessita di essere ribadita in particolare oggi, all'indomani dell'attacco che ha segnato la capitale d'Europa, Bruxelles, e che ha seguito quelli che a novembre hanno coinvolto Parigi. Il pericolo di semplificazioni, di strumentalizzazioni, di risposte istintive è più che mai dietro l'angolo. E l'invito alla riflessione e all'analisi è proprio ciò che caratterizza la nuova versione del 2016 dell'Atlante Geopolitico del Mediterraneo, curato da Francesco Anghelone e Andrea Ungari ed edito da Bordeaux edizioni in collaborazione con il CeSI (Centro Studi Internazionali).
È passato quasi un mese da quando il caccia F16 che ha abbattuto il Sukhoi Su-24 russo nella zona liminale tra lo spazio aereo turco e quello siriano ha soffocato sul nascere ogni ipotesi di grande coalizione contro il Califfato. In quella sottile striscia di cielo ad andare in frantumi è stata tutta la retorica confezionata nelle settimane precedenti dalla leadership occidentale, e dai suoi portavoce a reti unificate, sulla civiltà da opporre al barbaro alle porte. Il delirio alla fin fine rassicurante sullo scontro di civiltà è stato bruscamente ricondotto sul terreno del nudo scontro di potenza, all’interno del quale ognuno gioca la propria partita a prescindere da presunti interessi comuni a tutto “il mondo libero”, ed ognuno combatte un’assurda guerra senza che della guerra sia enunciato uno dei presupposti fondamentali, ossia il nome del nemico.
In questo quadro, una volta preso atto della scellerata spregiudicatezza delle élites di Ankara, dell’evidente impossibilità per la Francia di risolvere unilateralmente una centenaria questione di carattere globale (fatta salva l’immediata e scontata reazione dimostrativa), e della coerente ma per molti indigesta strategia russa di identificazione tra lotta al Califfato e stabilità del regime baathista in Siria, l’interrogativo più grande sul tappeto rimane l’atteggiamento degli Stati Uniti, in bilico tra la propensione ad una svolta da più parti invocata come necessaria, e lasciata intravedere nel momento dell’appeasement con Teheran, e l’ancoraggio ad uno status quo geopolitico di lunghissimo periodo.
Arabia Saudita e Turchia, in questo senso, rappresentano gli snodi essenziali delle contraddizioni occidentali. Paradossalmente, la potenza egemone risulta incapace di affrancarsi da una sorta di “patronage alla rovescia” esercitato dagli alleati minori, forti della loro debolezza e della loro sbandierata insostituibilità. La necessità di puntellare il regime del terrore saudita e gli scogli che esso frappone alla legittimazione dell’Iran come attore di primo piano della regione; l’appoggio incondizionato ad Erdogan, espresso ancora a caldo nell’ora della patente dimostrazione della sua irresponsabilità; la volontà di escludere un qualsiasi ruolo russo nel Mediterraneo, che Mosca inevitabilmente si ritaglierebbe se inserita nella coalizione anti-Califfato: tutto ciò è alla fine giunto in rotta di collisione con la proclamata volontà di lottare uniti contro l’avanzata dell’ISIS. Nonostante la retorica imperante e la solidarietà di maniera, non è detto che sia sufficiente la tragica morte di duecento persone in territorio francese, nessuna delle quali peraltro di nazionalità americana (un dettaglio che ha un suo peso), a convincere il Presidente Obama e la complessa macchina dell’Amministrazione USA a stravolgere un’inerzia geopolitica operante da più di mezzo secolo: lo ha dimostrato il recente incontro tra Obama ed Hollande, ricco di parole quanto vacuo nel profilare soluzioni concrete. Ed infatti, mentre John Kerry continua a perorare la causa di una presunta “opposizione moderata” al regime di Assad, realmente esistente, forse, soltanto in qualche sottoscala di Langley, cominciano a prender campo piani a tavolino di destrutturazione dello Stato siriano e di quello iracheno lungo linee etniche e confessionali, senza che i popoli direttamente interessati siano minimamente interpellati.
Già a seconda guerra mondiale ancora in corso il Presidente Franklin D. Roosevelt, cosciente del ruolo giocato dall’approvvigionamento petrolifero nelle guerre moderne, aveva affermato che “la difesa dell’Arabia Saudita è vitale per la difesa degli Stati Uniti”, ed alla fine del conflitto la dinastia regnante a Riad aveva concesso al Pentagono l’utilizzo della base di Damman “per dimostrare che la sicurezza dell’Arabia Saudita dovrebbe costituire un impegno vitale per entrambi i paesi”. Dagli anni Settanta in poi il legame era destinato ad intensificarsi, nel momento in cui i petrodollari accumulati a Riad in seguito allo shock petrolifero cominciarono ad esercitare una decisiva funzione di stabilizzazione della bilancia commerciale statunitense. Arabia Saudita ed emirati del Golfo sono ancor oggi i terzi finanziatori esterni del debito di Washington, dopo Cina e Giappone, grazie soprattutto all’assorbimento di ingente tecnologia militare americana. Provvidenziale per gli USA è poi il ruolo dei sauditi all’interno dell’OPEC, a garanzia dell’attuale ribasso (del resto contenuto, per non penalizzare le estrazioni in Alaska o Texas) del prezzo del greggio. Una centralità geopolitica, quella di Riad, se possibile amplificata – ancora a partire dalla fine degli anni Settanta – dalla cacciata dello Scià da Teheran e conseguente diserzione persiana dal fronte egemonizzato dagli USA.
Altrettanto paralizzante il pluridecennale abbraccio sul fronte turco, risalente allo scoppio della guerra fredda. Dal ’47 in avanti gli Stati Uniti hanno sempre fornito appoggio incondizionato a qualsiasi regime al potere ad Ankara, purché garante dell’esclusione della presenza sovietica nel Mediterraneo: i missili russi installati a Cuba e rivolti contro le coste della Florida furono non a caso giustificati dalla leadership sovietica come una risposta a quelli americani presenti in Turchia; e la crisi nucleare fu superata soprattutto grazie al simultaneo smantellamento di entrambi i sistemi missilistici. La volontà di estromettere l’URSS dal Mediterraneo aveva già condotto gli Stati Uniti ad incrociare minacciosamente con proprie portaerei le acque di Damasco nel 1958, e prima ancora (1953) ad appoggiare i piani inglesi di destabilizzazione contro il governo iraniano di Mossadeq.
Emerge, nel caos che si è cercato di descrivere, l’impotenza del Vecchio Continente, un fattore che è quasi diventato una nota a margine fissa quando si tratta di disegnare scenari geopolitici. Oggi più di ieri la radice dell’afasia pare risiedere nella mancata presa d’atto della divergenza tra gli interessi americani e quelli degli europei, che da anni ormai combattono guerre per procura, salvo poi ritrovarsi a subirne le conseguenze più spiacevoli. Nell’impossibilità di costruire una grande coalizione che, oltre a sconfiggere il Califfato, si impegni per una soluzione complessiva, pacifica e multipolare, della questione mediorientale, l’avventurismo turco e la politica patentemente filo-terrorista di Riad, imbaldanziti dall’impunità assicurata loro fino a questo momento dagli Stati Uniti, rischiano di far saltare il tabù dello scontro diretto tra le superpotenze. Al di là della retorica occidentalista, l’Europa non può davvero permetterselo.
La catastrofe è in corso, ma è arrestabile. A determinate condizioni prima di tutto politiche.
L’intervento russo nella tragedia siriano-irachena e la terribile strage del 13 scorso a Parigi a opera dei killer fanatici dello Stato Islamico pare stiano cambiando parte delle coordinate insensate, politiche e militari, con le quali Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Unione Europea hanno affrontato da cinque anni a questa parte questa tragedia. Sarà sufficiente quel che si comincia a vedere? Non è detto; non è detto, prima di tutto, che il comportamento occidentale riuscirà a essere coerente. Anzi si può già constatare come non abbia l’intenzione di essere tale.
Nell'ambito dell'International Days of Peace, abbiamo intervistato Valerio Nicolosi, militante della sinistra romana, fotografo e video maker in occasione della presentazione, assieme a Eleonora Forenza, del suo libro Be Filmaker a Gaza organizzata dal gruppo Antifascisti Bruxelles.
1) Valerio è innanzitutto un attivista della sinistra romana. Ed è anche un fotoreporter. Lo scorso anno è stato a Gaza per tenere un corso, presso l’Università di Al Aqsa, per insegnare tecniche di videomaking e fotografia. Ci racconti qualcosa del tuo progetto?
Da tempo il Centro Vik e alcune realtà italiane stavano organizzando una carovana di solidarietà che lasciasse qualcosa di tangibile nella Striscia di Gaza e avevano pensato ad un festival di scambio e formazione che compredeva parkour, arte e intrattenimento per bambini, writing e arte, videomaking e fotografia. Io sono anche un docente proprio delle ultime due materie e come responsabile formazione dell'assocazione nazionale filmaker e videomaker italiani ho deciso di partecipare coinvolngendo tutta l'associazione.
I dati che l'Onu restituisce dal monitoraggio del nuovo focolaio di guerra mediorientale iniziato lo scorso 26 marzo in Yemen sono impressionanti almeno quanto l'indifferenza con cui è stato accolto questo conflitto in Occidente.
Le cifre riportano 850mila bambini malnutriti, 21 milioni di civili senza accesso regolare a acqua, cibo e cure mediche. L’UNHCR stima che l'ondata di rifugiati costretti a riparare in altri paesi a loro volta poverissimi sia di 15 milioni di persone, di queste 1,2 milioni sarebbero gli sfollati interni mentre gli altri avrebbero trovato accoglienza in Somalia, nel Gibuti e in Etiopia. L'OHCHR (Office of the High Commissioner for Human Rights) sta invece monitorando il numero delle vittime che è salito a 6.221, ma è in continuo aggiornamento, di queste 1.950 civili e 398 bambini, i feriti sarebbero a quota 22.110.
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