Sembrerebbe proprio il caso di dire che tutto il mondo è paese ma forse sarebbe meglio ricordarci che le dinamiche di sfruttamento che portano le potenze del mondo ad agire in modo riprovevole sono le stesse da molto tempo.
Ci sono riusciti. Dopo le botte e le minacce in stile mafioso a rappresentanti sindacali e dopo diversi blocchi forzati da camion, finalmente il padronato della logistica è riuscito ad ammazzare un operaio. E non un operaio dei più innocui, ma un operaio che aveva acquistato coscienza delle proprie condizioni, professore e iscritto all'USB uno di quei sindacati di base che stanno combattendo più duramente le condizioni di sfruttamento nel settore. Le mobilitazioni e gli scioperi spontanei in tutto il Paese sono partiti immediatamente. La solidarietà non è mancata da parte degli altri sindacati di base che si sono immediatamente uniti nel cordoglio e c'è da scommetterci che faranno altrettanto nella lotta. Ciò che vorrei fare in queste poche righe, oltre a rendere omaggio ad Abdelsalam Eldanf, è ragionare sulle ragioni di un tale omicidio.
Operai ricattati, sfruttati, costretti a turni di lavoro massacranti, sottoposti a molestie sessuali reiterate sul posto di lavoro. Non siamo nei sobborghi inglesi del 1843 dove F. Engels colpito dalle condizioni lavorative della manodopera inurbata dalla rivoluzione industriale scrisse "La situazione della classe operaia in Inghilterra", bensì nell'ormai celebre interporto di Bologna, al centro di molte cronache sugli scioperi che costantemente colpiscono le cooperative che si occupano con molta solerzia di gestire la manodopera per le imprese che in questi anni, grazie allo sviluppo delle tecnologie informatiche, si dedicano alla massima virtù capitalista: tirar su lauti profitti in settori dove la domanda galoppa sulla pelle di lavoratori sempre più ridotti a bestiame da soma.
Migranti e lavoro: lo sfruttamento lavorativo nel territorio fiorentino
Negli ultimi anni, soprattutto grazie allo scoppio di proteste che hanno interessato l'Italia da nord a sud (tra gli esempi recenti le proteste contro l'Ikea e la Granarolo in Emilia e le proteste dei raccoglitori di pomodori a Rosarno), sono balzate all'onor di cronaca situazioni di grave sfruttamento che hanno visto come protagonisti i lavoratori migranti.
Quando non sfociano in proteste, o in drammatici incidenti (come l'incendio del capannone a Prato del 2013, nel quale morirono sette operai) queste gravi forme di sfruttamento risultano però praticamente invisibili. Ciò accade poiché da una parte gli strumenti giuridici esistenti risultano spesso insufficienti al fine di contrastare il lavoro sommerso, mentre dall'altra vi è un'effettiva problematicità da parte dei diretti interessati ad agire e denunciare la propria situazione. Questa difficoltà è dovuta, oltre che a una scarsa conoscenza da parte dei migranti dei propri diritti, anche a una situazione di vulnerabilità caratterizzata dalla paura di perdere il permesso di soggiorno, che permette ai datori di lavoro di ricattare costantemente i lavoratori.
Reduce da un mese di incontri organizzati da collettivi universitari e centri studi in cui si è tentato di analizzare cause e conseguenze del fenomeno migratorio, sviluppando il discorso con particolare attenzione ad un approccio transdisciplinare, tento qui di seguito di sintetizzare i risultati dei ragionamenti sviluppati nel corso del ciclo di autoformazione "Siamo uomini o caporali?" tenutosi a Torino tra il 16 e il 19 marzo, in cui si è partiti da un'analisi delle migrazioni in Italia per arrivare ad analizzare l'impatto del fenomeno delle agromafie sul territorio, e della conferenza del Cest (Centro per l'Eccellenza e gli Studi Transdisciplinari) "La costruzione dello straniero. Identità e diritti dei migranti" del 20 aprile, in cui si è presentato il lavoro congiunto di esperti nell'ambito giuridico, sociologico e filosofico sul tema.
Ogni tanto la patina di silenzio dei media è costretta a lasciare emergere qualche spiraglio di luce dalle condizioni reali di chi, lottando disperatamente, cerca di rivendicare condizioni di vita e di lavoro più degne e più umane. Così, capita che persino il Wall Street Journal (il primo quotidiano americano online che si occupa principalmente di finanza, fino al 2007 di proprietà della Dow Jones & Company e poi rilevato da Rupert Murdoch) arrivi a interessarsi delle condizioni degli operai edili migranti del Dubai (leggi qui). E così emergono per un istante queste rivolte dei neo-schiavi sconosciute ai più, su cui prontamente il vortice massmediatico riesce a chiudere ogni approfondimento delle condizioni reali di lavoro di questi per poi ritornare subito a fagocitare gli animi verso i nuovi orizzonti di sviluppismo più sfrenato.
Il Grande Fratello vince su Spartaco, puntualmente. Anche la notizia più tragica diventa una merce che nel mondo delle big corporation dell'informazione si deteriora rapidamente una volta venduta. Ebbene, le rivolte degli operai nel Golfo non sono certo una notizia su cui si può sorvolare facilmente, tanto più che avvengono ormai da nove anni a questa parte (il primo grande sciopero risale al 2006) e in nazioni in cui i diritti politici e civili semplicemente non esistono, ma con le quali l'Occidente continua a intrattenere rapporti economici e politici senza che nessuno si scandalizzi più di tanto. Se non fosse stato per il solenne rifiuto della first lady Michelle di indossare il velo alla cerimonia funebre del re saudita Abdullah nessuno saprebbe delle tragiche condizioni dei sudditi sauditi, però il petrolio serve e d'altra parte non è un segreto che il prezzo del petrolio sia finito al centro dell'attuale scontro economico e geopolitico mondiale, quindi i peroratori del diritto umanitario dovranno accontentarsi del coraggio di Michelle. Ad esempio la legge negli Stati retti dagli emiri vieta espressamente gli scioperi, ma questi avvengono ugualmente grazie ai veri atti di coraggio di lavoratori che, seppur puntualmente repressi con la deportazione, decidono di lottare pagandone tutte le tragiche conseguenze sulla propria pelle, come è accaduto ai capi della rivolta sindacale dell’Arabtec colosso delle costruzioni che ha realizzato, tra l’altro, il Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo (830 metri) che ospita l’Hotel Armani con camere da 700 euro a notte.
Ancora, in Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar è in vigore il sistema di reclutamento della manodopera detto della Kafala (garanzia) che lega indissolubilmente il lavoratore al proprio datore di lavoro, un sistema di reclutamento tanto libero e foriero di garanzie che assomiglia pericolosamente all'acquisizione di uno schiavo: un ufficio di collocamento nel paese d'origine trova un datore di lavoro disposto a sponsorizzare il lavoratore immigrato, che da quel momento non può cambiare posto di lavoro per tutta la durata del contratto. Chi si sottrae al sistema può essere incarcerato o, di fatto, sequestrato. Chi scappa è colpito da huroob, una denuncia che trasforma il lavoratore in una sorta di schiavo fuggitivo. La gravità del fenomeno è data proprio da ciò, dalla messa a sistema e dalle conseguenti dimensioni di massa del fenomeno che investe milioni di lavoratori e lavoratrici con svariate categorie che vanno dagli operai edili, agli addetti dei mega store, alle collaboratrici domestiche. I numeri sono veramente impressionanti e riportano tassi di suicidi e di morti sul lavoro crescenti. Per rendere l'idea dei diritti lavorativi si può descrivere il caso che nel maggio del 2011 fece scalpore innescando poi la rivolta all'Arabtec: Athiraman Kannan, operaio indiano di 38 anni che percepiva 150 euro al mese per 12 ore di lavoro su sei giorni settimanali, si lanciò dal 147˚ piano del grattacielo che stava costruendo dopo che il suo superiore gli rifiutò un permesso per tornare in India in seguito alla morte del fratello.
Dal 1998 ad oggi, cioè da quando si ha notizia delle condizioni di sfruttamento di queste masse di migranti in arrivo dalle zone povere dell'Asia (India, Nepal, Sri Lanka, Bangladesh, Indonesia e Filippine) e del Corno d'Africa (Somalia, Eritrea e soprattutto dall'Etiopia) i “migrant workers” hanno dovuto lottare praticamente per ogni cosa della loro vita quotidiana. Tuttavia, ogni minima conquista viene pagata dai lavoratori a carissimo prezzo se si pensa che nel solo 2013 sono stati espulsi per ritorsione centomila lavoratori dal solo territorio saudita.
È però opportuno ricordare che a beneficiare dei vari strumenti di irrigidimentazione della manodopera che noi consideriamo "immorali", dalla kafala all'huroob, sono spesso virtuose, evolute e idolatrate imprese occidentali che praticano l'unica legge conosciuta nel sistema capitalista: il profitto senza limiti. Per poter fare ciò simili oasi di schiavitù sono benedette come manna dal cielo anche dalle nostrane Alitalia, Piaggio, Eni, Eataly e Finmeccanica. I rapporti tra la nostra economia ancora troppo statalizzata secondo l'ideologia dominante e gli emiri che stanno facendo shopping in occidente non sono mai stati così intensi. Infatti, se l'episodio di Michelle Obama risale al 28 gennaio, l'ultima visita del nostro Presidente del Consiglio è di poco precedente e risale all' 8 gennaio. L'Expo, mastodontica operazione di greenwashing, non poteva che mirare a portare i fondi sovrani degli emiri a investire in Italia, rivelando quanto siano intersecate le questioni dello sviluppismo e dei nuovi settori tecnologici spacciati come ecofriendly. Il primo maggio (data simbolica) nei padiglioni dei paesi del Golfo saranno presentate soluzioni altamente tecnologiche per le energie rinnovabili e lo sviluppo sostenibile, evidentemente centrali proprio nel settore dell'edilizia, in cui il basso impatto ambientale delle costruzioni avveniristiche dettate dal sopracitato sviluppismo viene venduto con il paradossale slogan per una petrolmonarchia "l'acqua è più importante del petrolio". In realtà, come visto sopra, le connessioni tra l'economia italiana e quella degli emirati sono molto più estese e vanno dal settore della Difesa a quello della metallurgia fino a quello energetico, dei trasporti e ora pure del cibo Made in Italy di Farinetti. È chiaro che in materia commerciale i diritti umanitari non valgono, come non valgono i diritti civili e politici: tutto è valido purché segua le solenni leggi del profitto e giacché il profitto non è mai anomico, ma risponde alle leggi del Capitale, perché non chiedere agli emiri anche una mano per risolvere la questione libica? E infatti nell'ultimo incontro dell'8 gennaio si discusse anche di questo, cioè di come ingabbiare la manodopera che pretende di essere libera prendendo in parola coloro che vanno cianciando da un trentennio ormai di libertà dei mercati. Tuttavia, le varie monarchie ancora non si sono accordate per spartirsi le risorse petrolifere della zona, per cui è probabile che la guerra tra bande continuerà e che gli odiati "clandestini" continueranno ad "assediare" un'Europa che risponde divenendo sempre più fortezza.
Ecco che mentre l'assedio degli straccioni e dei poveracci impensierisce i leghisti, viceversa, lo shopping degli emiri è il benvenuto, e lo è a tal punto che un fondo qatariota lo scorso 27 febbraio ha acquistato una partecipazione pari al 100% del progetto Porta Nuova di Milano (380 unità abitative e 22 edifici, e non è che il caso più celebre) senza che i difensori supremi della "nostra" identità avessero nulla da eccepire.
Insomma, a proposito di argomenti totalmente insabbiati dai media, si potrebbe concludere dicendo che Mafia Capitale (vero specchio del nostro sistema politico-economico) ha dimostrato che il vero affare per l'una e l'altro è l'immigrato, il quale è importante risorsa politica ed economica proprio per coloro che vorrebbero chiudere le frontiere agli esseri umani ma non disdegnano invece l'apertura delle frontiere ai capitali cumulati con la sopraffazione più feroce.
Tra le tante menzogne che ci vengono propinate dai media e fatte ingoiare a forza dalle nuove narrazioni che hanno acquistato ampia risonanza anche nei comitati scientifici, senza dubbio quella più grave è che la lotta di classe costituirebbe ormai un rottame novecentesco inapplicabile qui e ora.
La “new economy”, “il progresso tecnologico”, “la terziarizzazione” avrebbero dovuto spianare la strada alla tanto agognata e mai raggiunta eliminazione della classe operaia. In modo silenzioso e il più indolore possibile il soggetto che avrebbe dovuto muovere la storia a un certo punto è stato fatto fuori anche dal campo delle ipotesi scientificamente accreditate. Queste erano le promesse: niente più classi, niente più lotta, niente più guerra e pace per tutti, la ormai celebre “fine della storia” per l'appunto (nella versione aggiornata pare che si includa pure il niente più fascismo, ergo niente più antifascismo, basta crederci).
Se è vero che viviamo in una società in cui l'immediatezza è sempre più centrale e in cui la funzione dell'immagine tende a soverchiare il ruolo della parola, allora sarebbe impossibile non restare sconvolti davanti alle immagini uscite dal Cie di Lampedusa e che hanno fatto il giro del mondo. I detenuti, per manifesta colpa d'esistenza, si ritrovano imprigionati in questi centri per un periodo che può prolungarsi fino ai 18 mesi. Vengono fatti incolonnare in un capannone, nudi, in pieno mese di dicembre, e disinfestati dalla scabbia col getto di una pompa come neanche nei canili. Una scena che inevitabilmente rimanda ai lager, e che fa scalpore, per un giorno, forse due. Poi le anime belle torneranno a dormire, come sono tornate a dormire dopo i tragici naufragi
Di Alex Marsaglia
Articolo uscito sul numero cartaceo di agosto scaricabile in pdf qui
Nella notte tra giovedì 21 e venerdì 22 marzo inizia la lunga mobilitazione dei lavoratori della logistica. Milano, Piacenza, Bologna, Torino, Genova, Padova, Brescia, Verona, Treviso, tutti i più grandi centri logistici del Nord Italia vengono bloccati da uno sciopero dei facchini dal forte carattere etnico (più del 50% sono immigrati) oltre che di classe. I siti interessati dalla mobilitazione sono i nuclei della grande distribuzione legati a multinazionali come l’Ikea, la Coca-Cola, la TNT, la DHL, la GLS e ad altre sigle di portata nazionale quali l’SDA, la Bartolini, l’Esselunga, Coop e Bennet. Le rivendicazioni degli scioperanti organizzati dai sindacati Si Cobas e Adl Cobas abbracciano un ampio spettro di richieste che vanno dalla rivendicazione di maggior democrazia sindacale con il riconoscimento dei sindacati di base nel CCNL, alla tutela dei lavoratori nei cambi d’appalto, passando per la limitazione del subappalto e le otto ore lavorative con pagamento dell’eventuale straordinario, per arrivare al pagamento totale di malattia, infortunio, Tfr, festività e permessi, fino all’aumento salariale uguale per tutti al fine di recuperare l’inflazione.
Intervista a Roberto Iovino (Responsabilità Legalità Nazionale CGIL) a cura di Diletta Gasparo e Alyosha Matella
1. Cominciamo con una domanda un po’ più generica. Come nasce l’Osservatorio Placido Rizzotto e di cosa si occupa?
L’Osservatorio nasce nella primavera del 2012, in un momento di forte spinta emotiva per l’intero movimento sindacale italiano. Erano proprio i giorni delle celebrazioni dei funerali di Stato per Placido Rizzotto, sindacalista e partigiano, morto ammazzato per difendere i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici delle terre siciliane. Rizzotto era uno dei tanti capi lega e sindacalisti (se ne contano circa 62) ammazzati dalla mafia tra il ’44 e il ’61. Il movimento bracciantile siciliano si mobilitò attraverso una straordinaria stagione di lotte con l’obiettivo di rivendicare il pezzo di terra che i Decreti Gullo avevano garantito per legge a tutti e che la mafia si rifiutava di consegnare ai contadini. Erano gli anni della strage di Portella della Ginestra, passati alla storia come stagione di terrorismo politico/mafioso, perché caratterizzata da connivenze, insabbiamenti e depistaggi: non è un caso che quasi tutti questi omicidi siano rimasti impuniti e che i processi non abbiamo mai portato a condanne processuali. L’Osservatorio, composto da operatori interni e esterni al mondo
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