L’Unione Europea riprende sostanzialmente questo indirizzo, con più concreti adeguamenti economici, vista la nascita di un mercato integrato e della moneta unica, facendo aumentare i volumi di scambi con vantaggi concreti per i consumatori che non devono più pagare anche le tasse di importazione, mentre per le aziende questo si traduce in un aumento del fatturato e ciò permette nuovi investimenti, quindi un progresso, e anche un arricchimento dello Stato che vede accrescere il suo PIL.
Questi guadagni sono colti principalmente dagli Stati che rapidamente hanno adeguato la loro struttura organizzativa alle nuove opportunità offerte dall’Unione. Inoltre si è aperta un’ulteriore gamma di possibilità: scambi culturali tra le élite intellettuali, facilitazione nei viaggi di formazione e non, che permettono di ampliare la cultura e il senso di appartenenza ad un luogo comune portando, quindi, anche ad un progresso intellettuale.
Tutto questo è stato fatto, però, tralasciando qualcosa: infatti all’unione monetaria non è corrisposta una vera e propria “unione delle politiche monetarie”, anche perché non si è di fronte ad uno stato, né ad una federazione o ad una confederazione, sia perché si è di fronte ad un processo di integrazione tra paesi, sia perché ci si illude che il buon funzionamento dell’euro dipenda da come ci si comporta in patria. Gli Stati Uniti, ad esempio, sono una federazione di stati, con un'unica moneta e, di conseguenza, una politica economica comune senza una politica monetaria demandata agli stati federali. Nel vecchio continente invece, gli organismi europei hanno responsabilità unicamente nel settore dell’equilibrio monetario, mentre riguardo all’economia reale (produzione, occupazione) ogni paese mantiene la propria autonomia, ossia non ci sono concrete politiche economiche comuni, che evitino speculazioni o “cadute” di alcuni stati membri o che limitino la concorrenza fiscale. Senza di esse il sistema doganale che abbiamo e l’unità monetaria servono a ben poco. Senza una delegazione dell’economia reale agli organi centrali questo problema continuerà a persistere e dovremo continuare a sentir parlare di “politiche di rigore” e così via: armonizzare e decentrare dovranno essere le parole d’ordine.
Ma questo non basterà se non si ovvierà al problema del controllo della disciplina economica: esso è difatti affidato a quegli stessi soggetti che sono chiamati a rispettarla: i ministri economici. Si è assistito spesso a una forte indulgenza nei riguardi dei colleghi o a scambi di favori tra i governi. Vi è, tuttavia, uno spiraglio di luce: con il Consiglio Europeo del 28 e 29 giugno si è posta una direzione nuova: si prevedono la nascita di una unione bancaria, di bilancio, economica (per la crescita) ed una politica che comporterà una maggiore legittimazione democratica delle decisioni.
Per l’Italia, nonostante le leggende metropolitane riguardo al benessere diffuso durante la lira (ottenuto in maniera fittizia dalla droga dell’aumento del debito pubblico), l’euro rappresenta un fattore di potenziale innovazione delle industrie e, quindi, anche del benessere. Prima della moneta unica, e nonostante alcuni sprazzi di buoni rendimenti economici e qualche industria tra le prime nel mondo (ma mai nei veri settori trainanti come l’informatica, la chimica e la farmaceutica), si aveva un forte ritardo (e lo si ha tutt’ora ed è uno dei motivi delle politiche di austerity) nello sviluppo dovuto, in parte, al deprezzamento cui la lira poteva ricorrere. Ciò comportava una sicurezza negli imprenditori che, invece di investire in un processo che avrebbe consentito di essere all’avanguardia nel settore della produzione, portava ad assestarsi su un tipo di produzione elementare, adatto più ad un paese in sviluppo. La colpa non fu solo degli industriali: l’incapacità dei governi di creare un ambiente favorevole agli investimenti e la grande frattura tra destra e sinistra che ancora lacera il paese, sono fattori di non poco conto. Tutto questo non è più possibile nell’ambito di una logica sia comunitaria sia globale che, anzi, ci costringe ad adeguarci agli standard europei (ben più elevati dei nostri) e quindi dovrebbe portare anche ad una ristrutturazione, dolorosa ma necessaria, delle infrastrutture produttive (cosa che gioverebbe anche agli addetti).
Tornando all’Europa nel suo insieme, ritengo che una delle cause del passo da lumaca con cui si muove in campo economico sia la paura (forse un residuo nazionalista?) di perdere la propria autonomia economica (di conseguenza politica, militare e così via): per una nazione essa è fondamentale perché permette una libertà decisionale che altrimenti non avrebbe. È una paura di uscire dalla minorità, si potrebbe dire: sappiamo che cedendola potremmo avviarci con maggior fermezza verso un’unione vera e propria, e ne abbiamo le condizioni. Siamo quindi nell’età di illuminismo, quella che consentirebbe il passaggio all’età illuminata, saremo in grado di abbandonare la paura dell’irreversibilità storica, gli interessi personali e il nazionalismo ed aprire la porta?
L’unione non è, però, solo (o non dovrebbe essere solo) “economia”. Ritengo infatti che vi siano anche altri problemi, che talvolta sono concatenati a quelli di cui abbiamo appena parlato. L’Unione si articola su sette istituzioni con competenze diverse e non centralizzate che rallentano i lavori, e che risultano poco chiare all’elettore per la loro complessità. Vediamo perché.
Vi è il Consiglio Europeo, composto dai capi di stato e dai ministri degli esteri, che esamina i processi di integrazione europea o con altri paesi. Questo propone il Presidente della Commissione Europea (il potere esecutivo), la cui nomina deve essere ratificata dal Parlamento Europeo (il potere legislativo), il quale è eletto diversamente da paese a paese. Il presidente, d’accordo con gli stati membri, sceglie i commissari dell’Unione Europea, che devono avere la ratifica del Consiglio dell’Unione Europea ( fa accordi internazionali e ha anche questo il legislativo), formato dai ministri dei paesi aderenti, la cui presidenza è coperta a turno.
Questo coacervo di organi non è eletto dai cittadini europei, ma dai cittadini degli stati europei. Se vi fossero delle elezioni europee, dove si vota da cittadini europei, si eleggerebbero in comune il presidente (potere esecutivo), il parlamento (legislativo), che si accollerà anche i compiti del consiglio. Rimane il giudiziario, affidato alla corte di giustizia europea, che risolverebbe le controversie tra stati, facendo anche da garante. Questo porterebbe una maggiore chiarezza, dovuta ad una semplificazione, utile anche per avvicinarsi sempre più alla federazione, e ad una maggiore partecipazione, quindi ad una nuova coscienza europea.
Proseguendo su questo sentiero avremmo anche indirizzi culturali comuni, un esercito ed una polizia comuni, eliminando i reparti nazionali, che convoglierebbero in quello federale. Cultura ed esercito erano, oltretutto, strumenti chiave dei nazionalismi: in questo modo potremo rivoltarglieli contro ed anzi, potremmo proiettarci in un’ottica ancor più futura poiché esistono già collaborazioni culturali e militari in ambiti extraeuropei che creando una cooperazione, quindi un senso di fratellanza, potrebbero portare a qualcosa di più globale.
Inoltre, guardando ad un futuro forse più prossimo, dobbiamo renderci conto che nuovi conflitti potrebbero presentarsi di fronte ai nostri occhi, magari tra forze integraliste o dittatoriali: pensiamo agli interessi cinesi in Africa, che stanno già muovendo la Francia in quella direzione per arginare il potere della dittatura capitalistica cinese. Oppure pensiamo al Kashmir, che potrebbe essere coinvolto in una guerra tra Pakistan ed India per il controllo delle sue riserve idriche. Pensiamo, infine, a tutti i conflitti che potrebbero nascere per le riserve dei gas e del petrolio: le avvisaglie, anche qui, ci sono già: la Cina ed il Giappone per il controllo delle isole Senkaku, oppure Russia, USA, Norvegia e Danimarca per il Polo nord. Ecco perché vi è bisogno di una forza militare e politica di stima e valore riconosciuta a livello internazionale che medi preparando il terreno per un alleanza globale: questo ruolo mi sembra posso averlo solo l’Europa, vista la sua peculiarità di una possibile federazione nascente di stati che smettono di essere tali per andare in contro a qualcosa di migliore.
In un mondo che è sempre stato “globale” ed è sempre più globale ci sono già forze che lavorano in questa direzione, cercando di creare cooperazione internazionale, rispetto dei diritti, pace, basandosi sul principio per cui gli altri uomini non sono un mezzo ma il fine, come le ONG. Ma molti altri sono i segnali di un possibile cambiamento: internet, la cultura e le notizie sempre meno “nazionali”, la facilità sempre maggiore di viaggiare anche in luoghi prima considerati irraggiungibili, i melting pot che ogni paese vive sulla propria pelle.
Chiudersi nuovamente nei propri confini e negare gli aspetti positivi della globalizzazione equivarrebbe ad un suicidio: la chiusura comporta arretratezza, nazionalismo e quindi esaltazione della patria, cioè razzismo. Da una possibile linearità della storia si passerebbe ad una ciclicità della storia.
Sembra un’utopia ma, citando Jacques Attali, economista francese ex consigliere speciale del presidente socialista François Mitterrand, chi lo credesse ripensi a quando Tommaso Moro, nel 1516, sognava che i capi di Utopia fossero eletti: oggi i capi del suo paese lo sono.
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