Martedì, 29 Aprile 2014 00:00

Renzi, il populismo e la (possibile) strada italiana

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Consigliamo di abbinare a questo articolo un altro pezzo pubblicato ormai qualche tempo fa, di Jacopo Vannucchi, cliccando qui

Occorre cominciare a mettere meglio a fuoco la figura di Renzi, il suo governo, le sue intenzioni generali, i suoi obiettivi “tattici”, il loro realismo, i loro ostacoli fondamentali, le condizioni della loro fattibilità, anche emancipando i nostri cervelli dal fumo propagandistico di mass-media televisivi indegnamente asserviti oltre che incompetenti su ogni cosa, così come dal fracassismo e dal bullismo del personaggio e dalle nostre stesse schematizzazioni d'antan. Ciò che ogni dato ci indica è che è in avvio il tentativo, per mano del governo Renzi, di una grossa svolta e di un grosso riaggiustamento della realtà italiana.

Si può partire, mi pare, con un elogio a Stefano Rodotà. Egli ha colto due dati basilari della realtà renziana: il carattere populista soft della posizione generale e la sua portata antidemocratica parimenti soft. “Soft” in termini tutti relativi, si intende: cioè paragonati alla brutalità, alle sconcezze, ai grumi di fascismo e di cialtroneria più o meno significativi operanti nelle varianti populiste precedenti di Forza Italia, Lega Nord, MoVimento5Stelle.

Quindi si può dire così: che Renzi viene a completare il quadro politico e istituzionale italiano, in profonda e crescente crisi e continuamente terremotato, di un ulteriore ingrediente, che tende a coprire anche parte estesa dello spazio di simpatie ed elettorale della sinistra. Ci si meraviglia di continuo di come questa deriva possa coinvolgere un'area politica, culturale e di popolo storicamente legata alla democrazia e a modi civilizzati del far politica: ma questo significa fondamentalmente, mi pare, che la crisi economica, sociale, politica, istituzionale, morale della realtà italiana si è fatta assai profonda, inoltre che continua ad approfondirsi, e che a essa non è più dato rispondere con i mezzi precedenti degli interventi parziali, diluiti, minimi, realizzati attraverso procedure democratiche consolidate e in tempi biblici. Mi pare molto semplice. Quando in televisione vediamo e ascoltiamo Cuperlo, Bersani, D'Alema non a caso ci viene il fiatone: lo stile e le prese di posizione seguono i criteri di un tempo che fu, e non se ne sono ancora accorti, affascinati narcisisticamente dai loro giochi di fioretto e di palleggio. E' chiaro che Renzi è solo preoccupato da loro possibili trappole parlamentari, non certo dal rischio di un loro ritorno vittorioso dentro al PD.

In secondo luogo occorre riflettere sui significati del populismo. Siamo un po' tutti rimbecilliti dal facilismo dei mass-media, stando ai quali il populismo è una forma di esercizio della politica e della leadership che tende al rapporto immediato al popolo e alla sua mobilitazione, in una forma o nell'altra, bypassando corpi intermedi e istituzioni rappresentative dello stato; e una forma di esercizio della politica i cui messaggi sono necessariamente elementari, asseverativi, urlati, brutali, ecc. Ma non c'è solo questo. C'è, intanto, da chiedersi perché oggi il populismo sfondi; e c'è da chiedersi se basti alla sua analisi la rilevazione del suo rapporto direttamente al popolo. La risposta a questi quesiti a me pare questa: che la crisi ha modificato in profondità la richiesta di popolo alla politica, nel senso di provvedimenti a contrasto significativo, tangibile e immediato di una condizione di acuta sofferenza materiale; che la crisi ha quindi rotto il rapporto del popolo alle forme organizzate tradizionali di esercizio della politica, data la loro attitudine a non rettificare nulla di se stesse; che la crisi, parimenti, tende a far fuori anche le soluzioni populiste, una volta che ne abbia constatato l'inefficacia (vedi Forza Italia e Lega Nord), favorendo però, necessariamente, nuove formazioni populiste (vedi M5S e Renzi); che il successo del populismo, in quanto tendenza generale, si deve al fatto che comunque esso parla delle questioni reali della sofferenza popolare (altra questione sono in genere le ricette); ancora, e soprattutto, che il populismo ha la capacità, per questo e per il linguaggio, di indicare credibilmente presso quote più o meno rilevanti di popolo non solo ricette ma anche nemici; in altre parole, che ha la capacità di unificare queste quote di popolo, altrimenti parcellizzate, dato che ogni frammento di popolo, ragionando sulla sua condizione immediata e con i suoi strumenti particolari, arriva a conclusioni particolari non coincidenti con quelle degli altri frammenti, a volte opposte. In questo scenario, infine, il ruolo di un leader con capacità carismatica risulta decisivo: è il leader infatti non solo lo strumento fondamentale di trasmissione del messaggio unificante, ma il suo stesso creatore.

Come argomenta efficacemente Ernesto Laclau, studioso argentino di politica di formazione largamente gramsciana nel suo libro (da leggere) La ragion populista, giova quindi assumere il populismo in quanto necessità a un certo momento dentro alle crisi di ampia portata e smetterla di considera una bestemmia questa parola. C'è populismo e populismo, c'è posizione populista e posizione populista, c'è leadership populista e leadership populista. Mass-media asserviti, quindi impauriti dell'entrata diretta in campo politico da parte popolare, non possono che ridurre il populismo agli elementi eventualmente aberranti di questa o quella sua esperienza e quindi connotare sistematicamente in modo negativo questa parola. Analogamente essi non possono che fare l'apologia di quei tentativi populisti (da Berlusconi a Renzi) di riduzione della democrazia parlamentare, perché strutturalmente a rischio che le richieste popolari vi pratichino sfondamenti, evitando, in questi casi, di parlare di populismo. Dobbiamo dunque analizzare su base molto concreta ogni fenomeno populista. Soprattutto non dobbiamo dimenticare che tutti i grandi processi rivoluzionari socialisti sono stati, se adottiamo il ragionamento di Laclau, populisti, certo in un loro modo specifico. I partiti che li hanno guidati avevano leadership forti e carismatiche, si rivolgevano direttamente alle masse di popolo proponendo obiettivi immediati da praticare attraverso l'azione diretta e indicando i nemici e i poteri da togliere di mezzo, escludevano ricorsi che non fossero tattici di portata immediata all'azione nelle sedi istituzionali; se agitavano l'obiettivo della creazione di sedi istituzionali democratiche, come nel caso della Resistenza italiana, è perché l'obiettivo delle sinistre, egemoni in essa, era la sconfitta di tedeschi e fascisti e una democrazia progressiva aperta alla possibilità del socialismo. Così come indubbiamente populisti sono stati i vari fascismi. Papa Wojtiła e Papa Francesco rappresentano due figure eminentemente populiste: diversissime, per non dire opposte. Si tratta in ogni caso, tutte quante, di esperienze espresse da crisi di grandi dimensioni, che dirottano la funzione politica dagli schemi precedenti, prima di tutto su richiesta di quote di popolo. Un ulteriore, conseguente, caratteristica del populismo è la sua attitudine bonapartista, in senso marxiano: la capacità non semplicemente di strutturare blocchi sociali, ma anche di dominarli, disciplinandole e impedendo, anche con mezzi duri, le spinte a uscire dalla comune disciplina.

Torniamo a Renzi, tentando allora di uscire da schemi banalizzanti. Ho accennato a come il suo tentativo sia di una grossa svolta e di un grosso riaggiustamento della realtà italiana. Quale. Mi pare evidente, ormai, da più atti, che il disegno portato da Renzi è la razionalizzazione a guida alto-borghese del “sistema” complessivo italiano: politico, istituzionale, ma non solo, anche economico. L'Italia è giunta da tempo a una situazione non solo materialmente irreggibile per le classi popolari ma anche, e qui da ogni punto di vista, per la parte “forte” della grande e media borghesia, imprenditoriale, finanziaria, ma non solo, anche delle professioni, della cultura, dell'informazione; e dunque l'Italia è giunta a una situazione che non può più essere gestita come nelle varie forme sperimentate nel dopoguerra, pena un tracollo sistemico; essa rischia, prima o poi, rivolte sociali, del cui potenziale c'è già sentore; rischia, e la cosa è evidente da tempo, una regressione globale definitiva nella gerarchia economica mondiale. Tra gli elementi che risaltano nella documentazione del carattere ademocratico, o semi-autoritario che dir si voglia, nonché semibonapartista dell'operazione sistemica affidata a Renzi dai suddetti “poteri forti” campeggia, indubbiamente, il complesso delle “riforme” istituzionali: primo, la legge elettorale, violentemente antirappresentativa, dunque antidemocratica, dichiaratamente orientata a un bipolarismo affidato a forze o aree politiche trasformate nel senso di una loro superiore congruità all'operazione, una di derivazione PD e l'altra di derivazione Forza Italia, o qualcosa del genere, data l'incipiente disgregazione di questo partito, e in grado di fornire al paese governi al cui seguito possa essere anche meno di un quarto dell'elettorato complessivo, anzi molto meno se si guarda all'astensione; secondo, la “riforma” delle province e del Senato, che non si limita a razionalizzare elementi di funzionamento dello stato ma che ulteriormente riduce la democrazia, essendone il risultato assemblee la cui elezione è di secondo grado. Insieme le due cose rappresentano davvero una potente svolta istituzionale. L'intesa Renzi-Berlusconi non è dovuta perciò al fatto accidentale di PD e Forza Italia come forze politiche principali che debbono trovarsi per forza d'accordo se si vogliono realizzare alcune “riforme” ecc., né, a parer mio, c'entrano granché, al di là di alcune analogie di contenuto, le “riforme” autoritarie che voleva la P2: quell'intesa è quanto richiede oggi, in tempi cambiati, la parte “forte” della grande e media borghesia. Un'operazione populista organicamente appoggiata alle richieste che vengono dalle classi popolari richiederebbe, al contrario, più democrazia, proprio come strumento fondamentale della loro unificazione e mobilitazione.

L'operazione è suscettibile di successo, a differenza delle buche in cui sono incorse Lega Nord e Forza Italia? Direi proprio di sì, per il semplice fatto che sono diversi, oltre che ben più ampi, gli stati maggiori sostanziali e gli appoggi sociali, e che gli stati maggiori sostanziali sono di alto livello qualitativo e dispongono di immensi mezzi materiali e di condizionamento sociale. Intendo per tali stati maggiori, forse è da precisare, non tanto lo staff di governo, effetto di transazioni interpartitiche di vecchia natura e di un'operazione pubblicitaria all'insegna della valorizzazione di donne e di figure giovani, bensì i vari modi, in genere informali, nei quali vertici economici proprietari e manageriali e opinion makers borghesi si ritrovano per prendono decisioni e per portarle a politica. Qui c'è tutto il Gotha imprenditoriale e finanziario italiano, e con tanto di ammanicamenti esteri di grande forza materiale e politica.

Non solo. L'operazione Renzi viene condotta, mi pare ormai evidente anche questo, con grande sagacia sul terreno di una riorganizzazione sociale il cui obiettivo primario sono l'accentuazione e il consolidamento della frantumazione politica delle classi popolari. Quest'operazione, intanto, usa il discredito popolare verso la politica tradizionale e le sue figure fondamentali per l'attacco alla democrazia rappresentativa, alle forze politiche minori, alle istituzioni rappresentative, ai corpi sociali intermedi, dai sindacati alle associazioni padronali; e lo fa a nome di una “nuova politica”. Essa prosegue l'agitazione in tema di lotta alla disoccupazione giovanile, proponendo un'ulteriore sofisticazione del precariato; e lo fa ricorrendo a misure giustificate come modi per ridurre questo versante della disoccupazione. Soprattutto, con la riduzione di 80 euro mensili del prelievo IRPEF sui redditi inferiori, essa tende a raccogliere simpatie trasversali nel lavoro dipendente e nel piccolo lavoro autonomo, e così a separarli dalle rivendicazioni di reddito di altre aree sociali, come i pensionati. Però, alt!: per questi ultimi ci saranno provvedimenti l'anno venturo. La valorizzazione di figure femminili nei rinnovi del management pubblico, così come nella composizione del governo, segnala un'attitudine civile mai vista in precedenza nella politica italiana; ma tende al tempo stesso a velare la pesantissima condizione materiale e sociale di tantissima parte delle donne italiane, per le quali non viene fatto nulla, anzi, che continuano a essere oggetto di azioni criminali, dallo spostamento in avanti dell'età della pensione alla liquidazione progressiva del sistema di servizi sociali. Analogamente la riduzione degli emolumenti scandalosi di parte del management pubblico segnala un'attitudine parimenti civile, in un paese la cui maggioranza si sta impoverendo, spesso in termini drammatici; ma al tempo stesso allarga il potere di governo nell'economia, a nome delle richieste generali dei “poteri forti”.

Ciò consente, siamo tornati al tema del riaggiustamento globale della realtà italiana, di porre termine, sul versante popolare, al ruolo di mediazione politica delle richieste del mondo del lavoro per il tramite delle organizzazioni sindacali; parimenti, di porre termine all'analogo ruolo in fatto di richieste imprenditoriali effettuato da Confindustria, Confcommercio. Ecc. e dalla stessa Associazione Bancaria Italiana; infine, di eliminare un settore potente della nostra grande borghesia imprenditoriale, quello costituito da un management pubblico sostanzialmente autonomizzato dalla proprietà, cioè dallo stato, e le cui convenienze tendono a ostacolare non solo la possibilità di politiche industriali ma anche il riavvio potente di privatizzazioni, a tutto vantaggio di grandi banche e grandi gruppi capitalistici, italiani e non. Ognuno deve metterci del suo, ognuno deve dare il buon esempio, è questo il messaggio di Renzi al paese. Attivismo e ghe pensi mi sono dati caratteriali, ma anche propaganda di sostegno a una politica il cui obiettivo ambizioso è una superiore funzionalità del complesso economico del paese alle richieste di grande capitale e di grande finanza privati, e che richiede sfondamenti di resistenze. L'ABI non pianga miseria, non è proprio il caso, accetti il prelievo al 26% sulle rendite finanziarie. Giova aggiungere, come mostra la marginalità in cui sono precipitate Confindustria, Confcommercio, ABI, che l'operazione non esclude affatto, anzi vuole, un setacciamento del complesso delle realtà imprenditoriali e finanziarie orientato a liquidarne la parte non recuperabile a condizioni di mercato, e che pesa sulla condizione finanziaria dello stato in più modi.    

L'operazione Renzi è suscettibile di scontrarsi con difficoltà insuperabili e di finire su un binario morto, o di collassare? Anche a questo proposito direi di sì. Le difficoltà istituzionali sono evidenti, dovute a un complesso eterogeneo di resistenze, in parte orientate alla riproduzione di aree di privilegio politico, in parte a preoccupazione democratiche. Metterei però soprattutto l'accento sulla qualità delle difficoltà provenienti dal quadro economico, in due sensi. Intanto gli impegni che il governo Renzi dichiara comportano il ricorso a mezzi più inesistenti che esistenti, se le condizioni della spesa pubblica rimangono quelle dettate dal Trattato di Maastricht: deficit pubblico al massimo al 3% del rapporto al PIL, debito pubblico al 60%. Al tempo stesso l'economia non macina, al di là delle strombazzate su cose inessenziali, anzi, tendendo alla deflazione, rischia di rimanere al palo per un periodo assai lungo. La Commissione Europea non si metterà di traverso, in un modo o nell'altro, dinanzi al fatto che il governo Renzi non tende al pareggio di bilancio e, pur non dicendolo, anzi parlando di impegni da rispettare, se ne stropiccia del fiscal compact? Suggerisco inoltre di non sottovalutare la tendenza nell'area euro e in Italia in particolare alla deflazione. Essa significherebbe, se si realizzasse a pieno, una lunga situazione di stagnazione dell'economia italiana: che accentuerà, in più modi, la tendenza all'indebitamento pubblico, altro che suo rientro, imporrà di fatto alle banche, anche se hanno avuto migliaia di miliardi dalla Banca Centrale Europea, di non effettuare prestiti a imprese e famiglie, essendo essi ad altissimo rischio di non restituzione. Quando l'ABI piange per l'innalzamento del prelievo fiscale sulle rendite finanziarie e afferma che la perdita che ciò comporta saranno prestiti in meno a imprese e famiglie, in realtà intende avanzare pretesti dal lato della futura assenza di questi prestiti. Che farà Renzi, dunque? Nazionalizzerà o comunque imporrà alle banche a fare prestiti, garantendone il ritorno da parte dello stato, avvierà un piano a realizzazione eminentemente pubblica di grandi opere e di reindustrializzazione del paese, farà cioè quelle cose che possono contrastare la deflazione? Ma con quali denari? E' più che lecito pensare che si incarterà. Tenterà, è probabile, di alzare la polemica verso la Commissione Europea, ma anche ipotetici successi su questo versante, che non potranno che essere di ridotta portata, non basterebbero. Non basterebbero pochi miliardi, ne occorrerebbero molte decine. Avrà il coraggio di mettere in crisi la governance europea, il contenuto dei vari trattati, ecc.? E' improbabile, non se ne vedono, almeno al momento, i mezzi politici, data la natura sociale della sua operazione.

Quindi la crisi politica potrà avere un suo ulteriore rilancio, e la sorte dell'operazione Renzi fare la stessa fine di quelle populistiche che l'hanno preceduta.

Vedremo. Nel frattempo, oltre a stare a “vedere”, come sinistra, dovremmo tentare di tornare a essere seri e a contare; e questo vale sia che l'operazione Renzi funzioni sia che fallisca. Altrimenti il rischio è che al peggio che sta colpendo da tempo l'Italia e le sue classi popolari non ci sia davvero limite, che ciò avvenga in un modo o avvenga in un altro.

Immagine liberamente tratta da blogs.ft.com

Ultima modifica il Domenica, 27 Aprile 2014 22:32
Luigi Vinci

Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.

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