Venerdì, 17 Aprile 2015 00:00

Socialdemocrazia oggi, tra riformismo e sinistra radicale

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I periodi di crisi, al di là dell'insopportabile aneddotica popolare sui caratteri cinesi, spingono le persone a trovare nuove categorie per spiegarsi ed agire sul mondo.

Vecchie concezioni ideologiche vengono spazzate via in quanto inadatte a spiegare fenomeni complessi di ordine morale e sociale, alle vecchie subentrano più o meno lentamente nuovi sistemi simbolici e quindi nuovi discorsi.

L'inesplicabile genera ansia, il vulnus tra come dovrebbe essere (o come sarebbe giusto che fosse) e com'è la realtà terrorizza e necessita immediatamente di spiegazione: l'uomo deve rendersi di nuovo in grado di agire da essere politico, pena un'inaccettabile impotenza.

La Grande recessione europea ha spiazzato le forze conservatrici centriste meno rispetto alle forze progressiste, semplicemente perché l'armamentario ideologico delle prime è risultato più resiliente in quanto maggiormente potente sul piano esplicativo.

Il moralismo e l'enfasi sulla responsabilità individuale hanno testualizzato con naturalezza il disordine economico in una narrazione in cui alcuni popoli (più o meno buoi) hanno mollemente ottenuto dalla politica irresponsabile dei rispettivi stati livelli di prestazioni ben al di sopra delle capacità e della sostenibilità delle pubbliche finanze; consegue che l'unica cura – assieme morale ed economica – al disordine così generato è un'austerità rigenerante, imposta con la forza della prescrizione e la speranza di far prima o poi interiorizzare le stesse prescrizioni nel bagaglio morale dell'irresponsabile politica degli stati debitori e del loro vorace elettorato.

Al di là del merito della narrazione, si comprende come mai queste forze abbiano saldamente in mano il timone dei paesi “creditori” dell'euro-nucleo.

Le forze progressiste invece sono state quasi tutte colte dalla crisi economica proprio in mezzo al guado – con radici storiche e teoriche in via di rottamazione ma senza che la “terza via” liberaldemocratica avesse avuto abbastanza tempo per sedimentarsi, o addirittura mentre era in piena fase di rigetto.

Alle forze di centrosinistra – con differenze e distinguo tra i singoli stati che non smentiscono l'assunto generale – rimane in mano solo una sempre più esangue idea di conciliazione della società basata sul compromesso, che le porta più o meno tutte a sdraiarsi sul cavallo di battaglia del centrodestra, l'austerità e la sua predicazione (per quanto attiene ai paesi economicamente “forti”) o i “sacrifici” (nei paesi debitori), uniti al più in spericolate coppie ossimoriche – “austerità espansiva”, “sacrifici per fare gli investimenti” – che rivelano più la nostalgia per alcuni elementi del defunto “big government” che un'autentica riflessione strategica.

Formule che non possono accontentare nessuno a sinistra, perché non riescono a fornire all'elettore piccolo borghese e supra-proletario categorie in grado di spiegargli l'ingiustizia della sua situazione, ma che anzi sembrano dal punto di vista morale rinfacciargli, come in un assurdo processo kafkiano, una colpevolezza senza colpa. Ne consegue l'impotenza politica, che declinata nella pratica delle “larghe intese” sanziona sul piano pratico quello status di vassallaggio nei confronti del centrodestra delle vecchie (e in passato potenti) forze socialdemocratiche che già era chiaro sul piano ideale, e un progressivo calo di affezione e consensi.

Questione parzialmente diversa quella del Partito Democratico italiano: esempio da manuale di questa tendenza generale il partito agonizzante di Bersani ed epigoni, rilanciato nel PD pigliatutto grazie alla mutazione genetica renziana, ovvero rompendo con la tradizione diessina socialdemocratica e abbracciando un'organicità centrista-conservatrice con marcati tratti populistici.

Il progressivo appassire delle forze della socialdemocrazia “storica” genera come contropartita a sinistra, per ora specialmente nei paesi del sud Europa, la rigenerazione delle finora marginali forze della cosiddetta “sinistra radicale”: conosciamo tutti il successo di SYRIZA in Grecia, su cui sono stati versati fiumi d'inchiostro, o l'arrembante scalata di Podemos in Spagna o ancora l'inesorabile avanzare del Sinn Fein irlandese. Forze con programmi e intenti pragmatici, radicati in quello stesso keynesismo che costituiva (e in un certo senso costituisce) l'identità socialdemocratica.

Il loro successo, oltre che al discredito delle forze del centrosinistra si può forse spiegare con la costruzione di un'efficace retorica, che rovescia elementi della retorica della destra e riesce così a fornire proprio al già citato (ex) elettore di centrosinistra un set euristico potente e una galassia morale rassicurante, che non lo colpevolizza: la colpa della crisi è della cieca avidità dei banchieri e del cosiddetto “capitalismo finanziario”, la politica è impotente perché in mano a pochi oligarchi o al potere degli “eurocrati”, il debito non è affare nostro, è affare dei politicanti che l'hanno creato e dei creditori che ci hanno speculato sopra, e via discorrendo.

La galassia ideologica dei “nuovi socialdemocratici” non è nata ieri, ha mosso i primi passi nell'eurocomunismo, è cresciuta nella stagione dei movimenti di inizio millennio ed è maturata nel malcontento causato dalla crisi economica mondiale, e ha sempre avuto un suo seguito fedele ma ristretto.

Ma un singolo elemento può forse essere identificato come l'autentico fermento che ha permesso che un fenomeno essenzialmente crepuscolare come quello del mainstream della “sinistra radicale” europea assumesse dimensioni di massa: la forma del concetto di lotta di classe. La sofferenza della condizione proletaria e piccolo borghese nella crisi si spiega come sintomo del male morale della disuguaglianza economica, cui una labile quanto netta distinzione tra “oppressi” e “oppressori” conferisce un aspetto intelligibile e narrativamente coerente, conferendogli così un potere esplicativo quasi illimitato – qualunque mossa di un avversario politico moderato può essere letta come un “favore ai ricchi” o all'infernale “Europa dei banchieri” – e un set di linee guida per l'agire politico. Si badi bene la forma, il tipo, una concettualizzazione troppo forte, come quella autenticamente marxista, frustrerebbe le capacità esplicative dell'ideologia e soprattutto farebbe finire tra gli avversari anche persone che percepiamo vicine, il nerbo della piccola borghesia impoverita, gli “imprenditori buoni” e i tanti epigoni del self-made man che popolano la nuova sharing economy.

La coerenza tra ideologia, programmi e azione politica non è veramente di grande importanza, le concrete rivendicazioni welfariste sono infatti semplicemente giustapposte o legate solo allusivamente alle categorie ideologiche, lasciando spazio a un grande pragmatismo. I compromessi, le “intese”, non strangolano i nuovi socialdemocratici come stanno strangolando i vecchi.

L'esempio greco è lampante: importa governare contro l'austerity, poco importa se per farlo ci si affida al sostegno di un populista di destra, omofobo e antisemita. In conclusione, ripeto: non voglio con questo articolo operare valutazioni di merito.

Io stesso guardo con fiducia alle mosse di quelli che ho definito (sia chiaro, assolutamente senza intenti dispregiativi) come “nuovi socialdemocratici”; nonostante la mia cultura politica mi spinga a non seguirli nell'impresa per cercare diverse e più radicali vie per la politica e la cultura.

Mi si lasci però aggiungere, come postilla, una nota di nostalgia. Probabilmente esistono “altri modelli” di capitalismo migliori e più giusti, al di là dell'ortodossia dell'austerity. Ma patrimonio di pochi è rimasta la seria coscienza della necessità di una rottura dello stato di cose capitalistico, e si rischia che paradossalmente proprio questa necessità sia la prima vittima del fermento della sinistra europea. Consapevoli dell'attualità dell'ideale rivoluzionario, sta a questi pochi organizzarsi e fare in modo che ciò non accada.

Ultima modifica il Giovedì, 16 Aprile 2015 15:40
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