La domanda che mi sono posta è, banalmente, come può inserirsi la sinistra in questa manipolazione e quali sono i suoi margini di manovra?
Partiamo dalla condizione che viviamo quotidianamente. L’evoluzione del capitalismo ha portato ad una forma che, come ricordava Alessandro citando Bertinotti, da una parte ha visto un rovesciamento del conflitto di classe che gli permette di non dover più scendere a patti con forze progressiste e rivoluzionarie (che, aggiungo io, al momento si sono, per usare un eufemismo, sensibilmente diradate) e dall’altra è costretto a mascherare questo cambiamento sotto spoglie democratiche. Ed è così che, ad esempio, i cittadini europei continuano a votare per eleggere parlamenti e governi che sono di fatto svuotati di gran parte del potere di legislazione in materia economica (e votano i membri di un Parlamento Europeo che non ha il minimo potere di contrastare le politiche delineate dagli organismi esecutivi dell’Unione). Ma allo stesso modo la regressione di almeno quarant’anni nel riconoscimento dei diritti dei lavoratori e la creazione di un mercato completamente frastagliato e incidentale vengono “mascherate” inglobando concetti che storicamente non appartengono minimamente alla narrazione del classe dei padroni.
Concetti, appunto, come quelli di condivisione e cooperazione. Ed è così che, sempre in nome di quella ricerca di legittimazione democratica di cui ha tanto bisogno, il capitalismo ingloba la sua critica, abolendo i rapporti e le modalità organizzative verticistiche e promuovendo quelle paritarie. Questa nuova organizzazione cancella ciò che è considerato vetusto, novecentesco e quindi, per associazione, fallimentare per proporre qualcosa che non solo è percepito come nuovo ma anche di sinistra. Senza aver bisogno di grandi doti analitiche è possibile accorgersi come questo è ciò che viene fatto con il Jobs Act: una narrazione che propone qualcosa di “nuovo” e che non ha niente a che fare con i verticalismi e le rigidità novecentesche e che le sostituisce con qualcosa di flessibile e democratico.
Qui secondo me si arriva al punto: esattamente, quanti degli italiani ritengono che le “vecchie rigidità novecentesche” fossero in realtà delle garanzie nei confronti di disoccupazione e abbandono da parte delle istituzioni? Renzi ha costruito la sua fortuna proprio sull’utilizzo di questa dialettica. Quelli che una volta erano i vecchi partiti socialdemocratici del Vecchio Continente si sono “riconvertiti” utilizzando esattamente lo stesso paradigma. E l’operazione di “lavaggio” ha avuto un enorme successo, tanto da riuscire a penetrare profondamente la società. Una società che è sempre meno critica, nel caso specifico di quella italiana, con sempre meno strumenti per svelare l’inganno (analfabetismo di ritorno dilagante, mancanza di un’informazione degna di questo nome e assimilazione a livello mainstream di questa visione). Una società con cui però, chiunque voglia almeno provare a cambiare le cose, deve trovare il modo di interagire, comunicare. Come e cosa fare, quindi, per riappropriarsi di quei termini che ci sono stati “rubati”?
Sono fermamente convinta che non si debbano fare passi indietro perché se “loro” hanno le capacità e gli strumenti comunicativi per occupare lo spazio che abbiamo lasciato vuoto, noi abbiamo la capacità analitica per inserire queste nuove pratiche in un contesto più ampio che tenti di portare avanti quella critica capitalistica che un tempo era tanto cara alla sinistra. Quello sistemico è sempre stato il livello di ragionamento che ci è risultato più congeniale: gli strumenti teorici della sinistra, comunisti in particolare, hanno dato modo di collegare i piani di conflitto aperti dall’accelerazione del processo di globalizzazione, riportandoli ad una critica sistemica. Ambientalismo, distribuzione delle risorse, sfruttamento della mano d’opera in giro per il mondo, questione alimentare, conservazione della biodiversità sono solo alcune delle tematiche che con il movimento no global hanno assunto una portata mondiale ma che, con il fallimento di questo, sono rimaste un po’ a mezz’aria, senza che venissero veramente riunite in un ragionamento più complesso.
Sta a noi riempire di significati le pratiche che si stanno piano piano affermando, scostarle da quel capitalismo di cui, allo stato di cose fanno parte (con la consapevolezza che agire “al di fuori del sistema” in un contesto pregnante come quello capitalistico è cosa tutt’altro che facile). Pratiche come quelle del car sharing (siano esse a pagamento come Car2Go ma anche il banale mettersi d’accordo con un collega per andare a lavoro con un’unica macchina) non devono essere “solo” un modo per risparmiare ma piuttosto un modo per cambiare le abitudini di una popolazione sempre più numerosa: evitare l’acquisto di migliaia di macchine, abituarsi ad usare un mezzo senza doverlo necessariamente possedere così da rendere più vivibili le città, fare passi avanti da un punto di vista dell’inquinamento e, quindi, delle condizioni di salute sarebbe un modo, limitato, ci mancherebbe, per riproporre quei concetti di condivisione, comunanza e rispetto che altri stravolgono al fine esclusivo della creazione di profitto. Allo stesso modo, per fare un esempio, ben vengano le pratiche di difesa della biodiversità alimentare che cercano di tagliare i costi dell’intermediazione e vanno a ricercare i piccoli produttori: si diffonde un modo consumare (quindi, per carità, restiamo sempre nel campo capitalistico) che però diffonde una consapevolezza di quello che è il lavoro, impone anche, banalmente, un modo diverso di fare la spesa, con un confronto diretto con altre persone e taglia fuori, per quanto possibile, le grandi imprese capitalistiche che lucrano sul cibo in giro per il mondo. Il tutto, mantenendo i prezzi contenuti così da evitare che diventino pratiche di élite come è successo con la “moda” del biologico.
Mi rendo conto che possa essere considerata una visione molto naive ma, banalmente, credo che nel contesto drammatico in cui ci troviamo, l’unica cosa che, praticamente, possiamo fare, sia ripartire dalle persone. Dai singoli. E non solo i singoli che sono già sensibili a ciò che noi andiamo dicendo in giro, che sarebbe come parlare ad una nicchia. Dalle persone che incrociamo nella nostra vita quotidiana. Dobbiamo provare a rompere il muro di gommosa indifferenza, di egoismo, che si è creato negli ultimi venticinque anni. Dobbiamo provare a rompere questo muro tornando ad osare: un tempo eravamo noi quelli che raccontavano di un altro mondo possibile, quelli che con la descrizioni di questo mondo e con i progressi fatti, riuscivano a fare egemonia. Ad un certo punto abbiamo cominciato a pensare che certe idee fossero accessibili senza che nessuno le spiegasse, le attualizzasse ed abbiamo così lasciato un enorme spazio che è stato occupato da altri. Dobbiamo tornare ad occupare quello spazio, partendo da ciò che già c’è. Quindi se pratiche che si stanno diffondendo perché “fiche” e fanno risparmiare potessero esserci utili, non tiriamoci indietro: riappropriamoci di quel linguaggio che era nostro, ridiamo senso vero a parole come condivisione e comunanza, partendo da quello che la gente magari già conosce. Di certo questo non ci porterà alla distruzione immediata del capitalismo ma magari ci aiuta a creare un po’ di consapevolezza tra le persone: magari, per fare un esempio, una volta abituate a lasciare le macchine a casa, le persone cominceranno a pensare che quello al trasporto pubblico efficace ed accessibile a tutti è un diritto (uno di quelli per cui loro pagano le tasse). E magari cominceranno a pretendere che il trasporto pubblico sia efficace ed accessibile a tutti, invece di continuare a votare per sindaci che privatizzano le aziende locali.
Non lo so, sono riflessioni molto libere, scritte con la pancia più che con la testa. Forse ho scritto una sequela di cose senza senso. Ma di una cosa sono sicura: il mondo corre, si muove velocemente, sempre più in fretta e noi non possiamo permetterci di restare indietro.