Sabato, 23 Settembre 2017 00:00

Quale processo unitario a sinistra?

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Quale processo unitario a sinistra?

1. L’incertezza culturale che sino a tutto agosto ha fatto perdere tempo

I due fattori culturali di quest’incertezza: la complessità della crisi sociale e politica italiana, la vischiosità del rapporto tra posizioni liberal-democratiche ed élites della sinistra politica.

Il primo fattore dell’incertezza è dato da qualità, determinazioni e vissuti popolari della crisi sociale italiana (ma, si dovrebbe aggiungere, dell’intera Europa mediterranea e degli Stati Uniti). In breve, si tratta del quesito se questa crisi risalga semplicemente a una caduta delle condizioni di vita popolari causata dalla perdita di posti di lavoro, dalla precarizzazione della condizione lavorativa, dall’abbattimento dei diritti del mondo del lavoro, dalla gigantesca disoccupazione del Mezzogiorno, dunque risalga un po’ alla storia e un po’ a trent’anni di neoliberismo e di libero scambio incontrollati; oppure se a questa caduta si unisca un ulteriore fattore altrettanto decisivo, quello (recuperando a figure di studiosi che di ciò si occupano anche da tempo) della dissoluzione dei “mondi di vita” popolari e dell’impossibilità di ricostituirli, poiché ogni tentativo in questo senso è automaticamente contrastato dalle condizioni sistemiche create da neoliberismo e libero scambio.

Il secondo fattore dell’incertezza è dato dai residui ideologici nella sinistra (operanti in tutta Europa) di quello che fu lo spostamento in direzione neoliberista un quarto di secolo fa delle sue élites politiche e intellettuali. Alle organizzazioni politiche furono consegnati compiti di governo che da un lato continuavano a incrementare i diritti civili, sulla scia soprattutto dei movimenti femminili di liberazione o di analoghi movimenti, ma dall’altro procedevano allo smantellamento dei diritti sociali popolari, in particolare di quelli del mondo del lavoro, alle privatizzazioni e agli abbattimenti del welfare, agli smantellamenti dei settori produttivi e dei servizi pubblici ecc. A mistificazione di questa resa fu rilanciata da un sistema massmediatico corrivo e manipolatorio e dall’intellighenzia prosistemica la favola (risalente all’economia “classica” di fine Settecento-primo Ottocento e da quella “neoclassica” successiva, sotterrata nell’intervallo tra le due guerre mondiali e nei successivi “trent’anni gloriosi” dal keynesismo) della capacità del capitalismo, se lasciato correre liberamente cioè secondo la sua natura, di garantire benessere alla totalità degli individui.

Riporto qualcosa, riguardo agli effetti ideologici (e quindi politici) di quest’illusione, da un saggio (tradotto dal britannico Guardian e pubblicato il 3 febbraio scorso da Internazionale) il cui autore è lo scrittore indiano Pankaj Mishra, figura di cultura tutta occidentale. Egli scrive come le élites liberali occidentali debbano le loro recenti sconfitte negli Stati Uniti e in Gran Bretagna al non aver mai saputo (o voluto) registrare cosa si agitasse e venisse a strutturarsi nella testa delle relative classi popolari, colpite da crescenti “diseguaglianze economiche” e, negli Stati Uniti, anche “geografiche”. Queste élites, prosegue Mishra, sono state perciò prese di assoluta sorpresa sia dalla Brexit che dalla vittoria di Trump; quanto a quest’ultima, dall’“enorme rabbia repressa” del proletariato bianco statunitense, fenomeno sino ad allora assegnato alle realtà “arretrate” di Medio Oriente islamico, Turchia, India, Filippine, Birmania, Polonia, Ungheria, ecc.
In altre parole, era accaduto al liberalismo democratico occidentale, a larghissima maggioranza, sin dagli anni novanta, di diventare la costola più o meno mite del neoliberismo. E, per contagio, era entrata in crisi dagli anni novanta ed era infine saltata in tutto l’Occidente la “connessione sentimentale” (Gramsci) tra le élites stesse delle grandi organizzazioni politiche della sinistra e le classi popolari che storicamente le appoggiavano. Sicché accadrà che tali élites, le loro intellighenzie, i loro mass-media ecc. non si accorgeranno di come le classi popolari occidentali, in termini più o meno ampi, in ogni caso significativi (preponderanti in Italia come negli Stati Uniti), stessero passando dall’accettazione di sistemi politico-istituzionali di tipo liberal-democratico alla critica aspra, all’odio e alla rabbia contro di essi e contro le figure loro portatrici. Stessero passando a un’adesione che non avrebbe fatto che crescere a formazioni politiche “populiste”, in genere di destra e di estrema destra. Di conseguenza le loro società in questione stessero passando a “situazioni populiste” ecc.

Vediamo, a quest’ultimo proposito, in modo più preciso. Come ha argomentato a più riprese lo studioso argentino di formazione gramsciana Ernesto Laclau, recentemente scomparso, analizzando le realtà da gran tempo populiste di tanta parte dell’America latina (se ne veda, per esempio, il saggio La ragione populista, 2005), è da considerare “populista” il complesso di quei processi soggettivi popolari e di quei movimenti politici che, nel quadro di una caduta generale della credibilità e del consenso sociale nei confronti degli assetti politici e istituzionali correnti, dovuti a corruzione, crisi economiche e sociali gestite da destre liberiste ecc., risultino decisivi nella costituzione ex novo o nella ricostituzione delle classi popolari in un particolare agente politico “popolo”. All’inizio tale caduta di credibilità e consenso porta alla frammentazione e quindi all’auto-isolamento delle condizioni soggettive popolari, a loro oscillazioni e sbandamenti ecc.; poi però cominciano a determinarsi punti politici di riferimento e, con essi, richieste popolari più o meno estese e coerenti rivolte o a precedenti posizioni politiche alternative già in campo, ma marginali, o a nuove posizioni in corso di autocostruzione. E alla fine, indica Laclau, c’è il “salto” di qualità, determinato dall’iniziativa molto decisa di un “elemento lungimirante” della politica (indisponibile come tale a “recuperi” di posizioni politiche compromesse, nell’immagine popolare, dalla cooperazione al liberismo) e dal fatto, che ne consegue, della propria presa carismatica sul “popolo”, ovvero della precipitazione della gramsciana “connessione sentimentale” tra esso e il popolo. Sarà così tale “connessione”, con le sue emozioni, ad avere peso soverchiante dal lato populista del processo politico.

Il passaggio di quote estese delle classi popolari occidentali all’estrema destra e dintorni si deve assai più alla distruzione dei loro “mondi di vita” e alla loro conseguente rabbia che alla caduta delle loro condizioni materiali.

Dobbiamo a Habermas, già da prima del ciclo neoliberista (come vediamo ne La teoria dell’agire comunicativo, 1981), la tesi che il “sistema di relazioni sociali”, generando il modo di produzione capitalistico, abbia espresso (tramite lo stato ovvero tramite governi tutori di questo modo di produzione) una sua autonomizzazione che è venuta via via dominando ogni elemento dei “mondi di vita” delle popolazioni e quindi frammentandone e distruggendone ogni elemento di specificità e di autonomia; agendo così, prosegue Habermas, in senso radicalmente anti-antropologico e dunque producendo tutta una serie di patologie sociali.
Quali? Intanto si tratta, sul piano della “riproduzione” dei processi di tipo culturale, della “rottura della tradizione”, della “perdita di senso” di rapporti e oggetti, della “crisi dei modelli di tipo educativo”, delle fratture intergenerazionali, dell’abbandono degli anziani. Determinati attori sociali, scrive Habermas, “non riescono più a coprire, con la loro riserva di sapere culturale, il bisogno di comprensione che si crea con le situazioni nuove”; quindi i loro “schemi interpretativi” da un certo momento in avanti non funzionano più. Inoltre sul piano dell’“integrazione sociale” si tratta dell’“anomia” di tali attori, della loro “insicurezza” sul piano della loro “identità collettiva”, anche di un loro senso individuale di “alienazione” e di frustrazione. Tali attori, prosegue Habermas, “non riescono più a coprire, con il patrimonio” dei loro “ordinamenti legittimi, il bisogno di coordinamento che si crea con le situazioni nuove. Le appartenenze sociali regolate in modo legittimo non sono più sufficienti”; inoltre la “riserva” di “solidarietà sociale” tende a “scarseggiare”. Ancora, sul piano della “socializzazione” si tratta anche di numerose “psicopatologie”, tra cui la “carenza di motivazione”. In tali casi, precisa Habermas, “le capacità degli attori” non appaiono “sufficienti a mantenere l’intersoggettività nelle situazioni pratiche definite in comune”, venendo a “scarseggiare la risorsa” di base costituita dalla “forza dell’Io”.

Guai perciò a non aver intuito e a non aver elaborato e affrontato in Occidente per tempo questa realtà da parte delle sue sinistre, guai per aver continuato da parte loro a rimuoverla e a insistere oltre ogni ragionevolezza sull’illusione dei benefici universali del neoliberismo: i risultati sono stati l’impasse operativo, oscillazioni sempre più confuse, una crescente perdita di credibilità e di consenso sociale, un crescente discredito, infine la crisi verticale dei rapporti con le classi popolari, ivi comprese larghe quote di proletariato organizzato. Torniamo al saggio di Mishra. Egli ci racconta come Paul Krugman dichiarò, “la sera della vittoria di Trump”, come “le persone” come lui, “e probabilmente come la maggior parte dei lettori del New York Times”, non avessero “mai davvero capito in che paese” vivessero. E ci racconta come l’élite liberale mondiale non fosse stata minimamente capace di intuire come la sua visione e le sue pratiche avessero totalmente trascurato gli enormi danni d’ogni tipo recati alle classi popolari dal neoliberismo, ovvero dal laissez-faire assoluto concesso dai governi occidentali alle forze fondamentali del capitalismo contemporaneo, parimenti avessero totalmente “trascurato… fattori sempre presenti nella vita degli esseri umani: per esempio la paura di perdere l’onore, la dignità e la posizione, la diffidenza verso il cambiamento, la voglia di stabilità e familiarità”: quindi avessero determinato nella società le condizioni per un’“esplosione di forze incontrollate”. Ossessionati “dal progresso materiale”, inconsapevoli del fatto di premiare solo minoranze sociali, i membri di questa élite “hanno ignorato il fascino che il risentimento esercita sui dimenticati”, parimenti hanno ignorato come da sempre “le rivoluzioni” abbiano “dimostrato” come siano “i sentimenti e gli umori” a cambiare “il mondo”, poiché riescono in certi momenti a trasformarsi “in potenti forze politiche”.

In avvio nella sinistra italiana una correzione di rotta: tutta però da consolidare. Gli elementi decisivi saranno l’unificazione della sinistra politica e la fine effettiva dei condizionamenti pesanti, subiti quest’estate, da parte di posizioni liberal-democratiche indifferenti alle questioni sociali.

Tra le conclusioni da trarre da quanto sin qui scritto c’è che un contrasto efficace alla deriva a destra populista di larga parte delle classi popolari italiane richiede una sinistra non frantumata, combattiva, dotata di sguardo strategico, inequivoca nel suo rapporto critico al PD, emancipata dunque da posizioni indifferenti alle questioni sociali.
Ha letto alcuni giorni fa di un “sondaggio” realizzato in Sicilia in vista delle sue prossime elezioni regionali, che dice che il candidato di una coalizione larga di sinistra rispondente a tali requisiti, cioè l’uomo di sinistra Claudio Fava, disporrebbe di un consenso al livello del 20%. I sondaggi valgono quel che valgono, inoltre non siamo neanche all’avvio della relativa campagna elettorale: ma una cosa appare certa, che l’abbandono degli illusori cincischii sulle risorse fondamentali di credibilità e di consenso che verrebbero a sinistra se essa fosse guidata da figure e orientamenti liberal-democratici indifferenti alle questioni sociali paga più che abbondantemente.
Evitando ogni infingimento, a parer mio è stato perso quest’estate tempo più che prezioso nel tentativo di convincere Campo progressista e il suo leader Pisapia a superare l’illusione sulla possibilità di portare il PD renziano alla cooperazione con le forze alla sua sinistra, dunque a superare l’illusione della possibilità di costruire con un tale PD un’alleanza di centro-sinistra: illusioni il cui costo non potevano appunto che essere indifferenza e minimalismo in sede di questioni sociali. In sostanza quest’estate l’unico effettivo punto di unità tra Campo progressista e Articolo 1-MDP era in sede di diritti civili e di ius soli; non certo cose di poco conto, tuttavia non bastanti alla realizzazione di alleanze politiche stabili, ancor meno di unificazioni. Non c’era neanche intesa in tema di trattamento dei migranti. Né c’era in tema di forme proprie della democrazia rappresentativa: come si evinceva dalla continua richiesta di Campo progressista di leggi elettorali recanti un premio alla coalizione vincente. Aggiungo a ciò come l’unico estremismo effettivo dentro alla discussione tra Campo progressista e Articolo 1-MDP sia stato il continuo tentativo dal lato di Pisapia di togliere di mezzo D’Alema, Bersani, Falcone, Montanari, Sinistra Italiana, ecc.; sia stata quindi, in concreto, l’assegnazione di fatto a Pisapia di un comando incondizionato. Poi, sempre evitando ogni infingimento, la questione mi pare evidente che sia stata risolta non dalla discussione estiva ma da Renzi; è per questo che Campo progressista ha dovuto avviare un proprio riallineamento a sinistra quanto meno lessicale. Non ha senso essere troppo scettici: ma non ha neanche senso passare a un abbraccio entusiasta. Vedremo in ogni caso alla svelta se a questo riallineamento corrisponderà un passaggio politico sostanziale.

Soprattutto la candidatura settembrina di Fava, in realtà, ha segnato, a ora, l’avvio di una svolta, anche perché decisa dallo stesso gruppo dirigente di Articolo 1-MDP, dunque perché ne avvia il recupero degli intendimenti originari di autocostruzione e di ricomposizione della totalità di quanti a sinistra – partiti, gruppi, associazioni – fossero disponibili. A ciò ha concorso certamente anche la pressione critica della sua militanza. Parallelamente risulta più solida l’intenzione di sganciarsi dallo strano rapporto interno-esterno alla maggioranza parlamentare, che ci hatto perdere alcune occasioni importanti per uscirne, tra cui, per esempio, il modo in cui il governo ha operato a soluzione della crisi bancaria, semplicemente vergognoso. Quest’evoluzione, benché chiaramente non basti, è importante e va onestamente riconosciuta da parte di chi, come me e tanti altri, abbia duramente criticato la sterzata estiva di cui sopra.

Sempre per quanto mi riguarda, pur sollevato da tutto ciò prima di profondermi in acclamazioni vorrei constatare la sconfitta inequivoca di ogni pretesa di esclusione dal processo aggregativo, pretesa fino quanto meno a quest’estate da Campo progressista, di quelle forze che esso considera estremiste e settarie ovvero di Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza (il movimento dei referendari Anna Falcone e Tomaso Montanari), Sinistra Italiana, Possibile, altri organismi di tipo sociale o locale ecc. Sottolineo come l’esclusione in specie di Alleanza popolare, per il ruolo avuto dai suoi esponenti e dai suoi militanti nella battaglia contro la manomissione antidemocratica a opera PD della nostra Costituzione, segnerebbe a parer mio il fallimento di Articolo 1-MDP e quello della possibilità di un’aggregazione larga a sinistra. Vorrei inoltre constatare una separazione inequivoca di Articolo 1-MDP dalla maggioranza parlamentare, l’avvio effettivo della ricomposizione della sinistra, l’avvio di una propria costruzione organizzativa per via democratica, cioè anche in forma più o meno congressuale, sia essa di Articolo 1-MDP oppure di una confederazione o federazione o quel che si vuole più larga. Ancora, vorrei vedere l’avvio di una discussione e di una cooperazione sistematiche, certo nella reciproca indipendenza, tra Articolo 1-MDP e CGIL, suoi sindacati, suoi quadri, nonché RSU, loro coaguli, ecc. Articolo 1-MDP e tutto il resto della sinistra hanno un bisogno assoluto di militanti o ex militanti con esperienze sindacali, per la loro capacità di farsi capire dal popolo, di suo riconoscimento, di organizzarlo. Vorrei infine constatare una rapida integrazione di forze alla composizione attuale del gruppo dirigente di Articolo 1-MDP, dato che in esso è, insopportabilmente, solo una compagna e mancano del tutto quadri rappresentativi di realtà locali, mondo del lavoro, ambientalismo ecc.

Beninteso, anticipando il rullio contro i miei ragionamenti di irritati tamburi affermanti la necessità assoluta, indiscutibile e irrimandabile di “politiche di governo”, “costruzione” di un partito di “centro-sinistra” (o di “sinistra-centro” che sia), preciso di non avere nulla contro la pratica di obiettivi immediati, obiettivi parziali, politiche di coalizione, compromessi tra forze politiche diverse, partecipazione a governi locali di centro-sinistra, trattative con lo stesso governo in carica, anzi li ritenga nell’attuale frangente importanti. Tutte queste cose debbono però disporre di buoni elementi di convergenza, inoltre essere accompagnate dalla consapevolezza che nella società siamo in salita e che ci occorre ragionare su come la nostra sarà una lunga marcia. Se ciò non fosse risulterebbero inevitabili scarti settari o risucchi opportunisti.
Condivido perciò totalmente la formulazione proposta da Massimo D’Alema, recuperata a Togliatti, che vuole che l’obiettivo sia una sinistra riformatrice, non una sinistra “riformista” ergo, in concreto, subalterna. Condivido la formulazione di Enrico Rossi, che propone che si tratti di una sinistra rosso-verde. Condivido l’istanza metodologica e culturale pragmatica e concreta che queste formulazioni esprimono, ma anche il loro sguardo lungo.


2. Come stia tentando Renzi, in enormi difficoltà, di riposizionarsi

Il consenso sociale ed elettorale al PD sembra tendere a un forte ridimensionamento, forse a un vero e proprio crollo. Di qui un tentativo di svolta in senso significativamente populista da parte di Renzi e della sua maggioranza nel partito

Ho appreso in questi giorni dai media come il PD si stia disponendo a trattare in Parlamento una legge elettorale portatrice di un proporzionale truccato, poiché prevede, se non ho capito male, circa due terzi di deputati eletti su base proporzionale e circa un terzo eletto in collegi che eleggono il candidato che piglia più voti. Ciò mi pare confermare come Renzi sia davvero in enorme difficoltà; quest’operazione, ammesso e non concesso che proceda, cioè che conquisti Berlusconi, appare intanto un’operazione orientata a rastrellare voti marginali, inoltre, e soprattutto, un’operazione estremamente azzardata, per non dire disperata, dato che può regalare una maggioranza parlamentare assoluta al sodalizio Berlusconi-Salvini-Meloni. Ciò che significa, accanto al fatto dei fascisti al governo e a tutto quel che ne seguirebbe di antisociale, di antidemocratico, di avvio di una dissoluzione stessa del paese tramite semisecessioni lombardo-venete, anche uno sviluppo insostenibile della crisi in cui è entrata l’Unione Europea (non a caso l’evidente tifo dei poteri fondamentali europei – Commissione Europea, governo tedesco – per un’Italia governata da un’alleanza Renzi-Berlusconi nonché la loro disponibilità improvvisa a rendere favori economici al governo Gentiloni).

Condivido l’opinione di Caldarola a proposito della grande difficoltà in cui Renzi versa e a proposito della possibilità che possa costituirsi entro l’anno o poco oltre una maggioranza interna al PD determinata a mettere Renzi da parte, onde tentare di recuperare anche per questa via un consenso elettorale in caduta. Questo suggerirebbe il disastroso sondaggio relativo alle elezioni siciliane. Ma prima di dare per più che probabile che avvenga una tale messa rapida da parte di Renzi aspetterei di vedere sia nuovi sondaggi siciliani che sondaggi relativi a Lombardia, Lazio, ecc. In questo momento, in sostanza, ritengo più probabile – sbaglierò – la prosecuzione del controllo di Renzi sul PD, non solo per gli strumenti organizzativi di cui egli dispone, non solo perché egli si appellerà alla parte di popolo e di base di partito che continua ad appoggiarlo e userà il massimo di quella brutalità di cui è altamente capace contro chiunque vorrà contestargli la leadership, ma anche perché le operazioni che egli e il governo Gentiloni hanno in corso sul versante dell’Unione Europea possono risultare efficaci in sede di recupero al PD di un po’ di consenso sociale. Quindi di un po’ di efficacia anche in sede di recupero di credibilità da parte di Renzi.

Vediamo. Non va cioè ignorato il possibile ausilio alla credibilità di Renzi e del PD della disponibilità che già sta manifestandosi da parte della Commissione Europea, per ordine del governo della Germania, a concessioni significative all’Italia in sede di deficit pubblico, quindi di possibilità di spesa dal lato del governo, anche superiori rispetto a quelle già rosicate da Padoan, dunque di un accantonamento di periodo del fiscal compact: consentiti appunto dal terrore in cui sono precipitati tali decisivi poteri europei dinanzi alla possibilità di uno sconquasso dell’Unione Europea creato da uno sconquasso politico e istituzionale italiano.

Renzi, esattamente, sta adottando una sintesi tra temi fondamentali di destra populista e temi altrettanto fondamentali dell’ultraliberista Scuola di Chicago.

Quali allora i contenuti del passaggio renziano di linea? Si tratta di un considerevole riposizionamento del PD su ben tre versanti. Si tratta cioè, primo, del già avviato recupero alla destra fascista o semifascista e dal movimento di Grillo del sadismo anti-migranti, in virtù delle misure intraprese dal ministro Minniti. Si tratta poi, secondo, dei significati correlati all’allargamento delle misure di sostegno al reddito a più larghe aree sociali in condizioni di miseria, sino a oggi estremamente ridotte nonché determinate solo da finalità propagandistiche e clientelari. E si tratta, terzo (cosa questa meno determinata, sparate renziane a parte, anche per via di riserve di Padoan, Calenda, Presidenza stessa della Repubblica), della minaccia di andare a uno scontro pesante con i sunnominati poteri europei, avendo a obiettivo fondamentale non la messa da canto ma l’archiviazione del fiscal compact, quindi la più libera possibilità di spesa pubblica.
Giova chiarire perché siano di destra populista nonché, in buona parte, anche neoliberisti questi indirizzi – sadismo anti-migranti a parte le cui intenzioni elettorali si comprendono da sé.

Prima facie le misure di sostegno al reddito di aree sociali in condizioni di miseria parrebbero abbastanza di sinistra, criticabili esclusivamente in ragione della loro esiguità. Si tratta, al contrario, di misure coessenziali al rifiuto di governo di misure che abbattano precarietà della condizione lavorativa, forme di supersfruttamento, mancanza di diritti sui luoghi di lavoro, ruolo sociale e politico delle organizzazioni sindacali; dunque di misure finalizzate anche all’incremento e alla stabilizzazione delle difficoltà già enormi del mondo del lavoro organizzato di farsi sentire e di mobilitarsi. Si tratta, quindi, di misure che al populismo saldano inestricabilmente misure elaborate dal liberismo statunitense a partire addirittura dagli anni trenta: proponenti l’integrazione per mano pubblica del reddito di tutti quei membri delle classi povere che non riescano a raggiungere il livello di un reddito definito “di base” dallo stato, parimenti comportanti la consegna della più totale libertà d’azione all’imprenditoria capitalistica nei riguardi delle forze di lavoro salariate, cioè la più totale libertà per essa di determinazione di salari e condizioni di lavoro così come di licenziare – e dunque di misure indicanti nel “reddito di base” uno strumento indispensabile a evitare che le classi popolari, mobilitate dalla miseria, si ribellino. Si tratta di un complesso di misure, in conclusione, orientate alla costruzione di un “blocco storico” della reazione sociale. Questa la sua sostanza. Lo gestiranno Renzi e Berlusconi? O la destra-destra? O i grillini? Ciò si vedrà. Vale per ora il fatto che l’operazione renziana si presta a una svolta a destra di assoluta radicalità della stuazione italiana.

A sua volta la minaccia di uno scontro con la Commissione Europea ecc. ha come obiettivi anche lo spostamento tutto sull’Unione Europea della colpa del malessere e della rabbia delle classi popolari, la consegna a una battaglia mediatica furibonda di Renzi, anziché alla ripresa economica mondiale, del merito in Italia della ripresa produttiva e dell’occupazione, lo spostamento sempre sull’Unione Europea della colpa del livello risicatissimo e socialmente inessenziale di questa ripresa.
Ancora, tutto questo servirà a Renzi, PD, governo Gentiloni ad argomentare politiche di riduzione orizzontale del prelievo fiscale come necessarie all’incremento di ripresa, occupazione, ecc., coprendo così il favore reso da questa riduzione al risparmio speculativo e a banche che continueranno a negare il credito a famiglie e a imprenditoria minore. E servirà loro a evitare di intervenire sull’attuale sgangheratissimo “modello” economico complessivo del paese, sul suo saccheggio da parte di chiunque voglia fare in Italia shopping industriale, sulla condizione deplorevole in cui versano pubbliche amministrazioni, welfare, servizi sociali, servizi pubblici, sistema pensionistico, scuola, università, su un Mezzogiorno abbandonato, ecc.

Qualche esempio e ragionamento in questa materia, allo scopo della massima chiarezza sul posizionamento effettivo attuale del PD renziano; allo scopo quindi della massima chiarezza a sinistra su tale posizionamento

Guardiamo, intanto, all’atroce condizione della sanità pubblica. Essa è diventata in Italia di grande eccellenza dopo la guerra, è diventata dunque tra le migliori dell’Occidente e della stessa Europa, grazie a DC come a PCI e PSI. Ma è stata portata dai governi di questi anni, attraverso la riduzione dei contributi statali, l’affidamento in toto assolutamente insensato alle amministrazioni regionali, l’imposizione agli ospedali pubblici delle condizioni strutturali e finanziarie delle società per azioni, a una situazione che fornisce l’eccellenza solo a congruo pagamento, facendo cioè pagare carissimi una serie di farmaci salvavita, imponendo agli utenti una quantità di ticket onerosi. L’80% degli anziani deve così rinunciare a cure indispensabili, dati tali ticket, dati i prezzi dei salvavita, dato inoltre l’inserimento in liste d’attesa talmente lunghe da rendere poco utili quando non fuori tempo massimo le cure. Non solo le gestioni della sanità ma anche della scuola, dell’università, di servizi pubblici fondamentali ecc. sono state portate in Italia ad analoghe situazioni.

Al tempo stesso ogni grande intervento pubblico passa per appalti e sub-appalti, essendo pressoché scomparsa la possibilità di affidamenti a valide strutture pubbliche. L’effetto di ciò sono il caos delle prestazioni, frazionate in modo insensato, le loro lungaggini, i loro sovracosti, il trattamento incivile dei lavoratori di appalti e cooperative fasulle, l’intasamento delle procure e dei tribunali amministrativi, quello delle pubbliche amministrazioni, la sovrapposizione confusionaria dei ruoli di più burocrazie, ecc. Ciò, ridicolmente, entra a fare parte del PIL: in realtà significa un bel pezzo di PIL buttato via. Come si sono regolati Renzi e il suo PD dinanzi a questo generale marasma. Ovviamente non hanno preso nella minima considerazione un riordino mediante un forte, polivalente e coordinato rilancio del pubblico e mediante, parimenti, la sua democratizzazione. Ci hanno invece provato con un referendum costituzionale orientato alla distruzione della democrazia locale, alla domesticazione del Parlamento, alla centralizzazione del potere statale nell’esecutivo, con lesione ulteriore cioè a una democrazia già molto logorata dalla precedente esasperata centralizzazione dei poteri locali nelle mani di sindaci e presidenti di giunte regionali e di giunte da essi nominate anziché elette dai cittadini.

Proseguo. L’Italia è la seconda realtà industriale europea, essendo preceduta nella classifica solo dalla Germania. Inoltre è seconda solo alla Germania sul piano della qualità e della dimensione dell’industria meccanica e su quello dell’esportazione. La differenza dell’Italia dalle condizioni economiche e sociali tedesche risulta tuttavia abissale. Ciò è da far risalire alla devastazione portata a quasi totale distruzione, a partire dagli anni novanta, della nostra industria pubblica di base (meccanica, cantieristica, siderurgica, chimica), volendo i governi di allora far cassa, abbattere così il deficit pubblico, entrare dunque immediatamente nella zona euro. Si può discutere quanto si vuole sull’opportunità o meno di una tale linea, quindi se non fosse stato meglio prendere un po’ di tempo e fare alcune cose preliminari, ma è andata così. Si sarebbe dunque trattato, a questo punto, di ragionare sulla ricostruzione su base più avanzata di un “modello” coerente, necessariamente attraverso un rilancio dell’intervento statale: certo largamente impedito da una regolazione europea contraria agli “aiuti di stato”, tuttavia non impossibile, date le eccezioni consentite sul versante delle industrie di base, date le capacità finanziarie del sistema bancario, data quelle di Cassa Depositi e Prestiti, ecc. Si poteva così avviare una progettazione di lungo termine, nel contesto della quale anche potenziare la ricerca pubblica, la formazione, ecc. Si potevano ridurre i danni estremi recati dalle distruzioni industriali a Mezzogiorno, Liguria, Toscana, altri territori. Ma l’illusione dei governi fu che le cose si sarebbero risolte da sole, essendo a loro avviso l’Unione Europea in grado di espandere vigorosamente, grazie alla sua forza economica, le proprie esportazioni, essendo in grado di attrarre grandi investimenti dal resto del mondo, ecc. A un certo momento apparirà come le cose non stessero andando così: ma nel frattempo il “modello” italiano si era riassestato a livelli medi di inferiore produttività rispetto alla Germania, salvo particolari settori, a investimenti irrisori sul terreno della ricerca, a livelli irrisori della formazione delle forze di lavoro, nonché a livelli salariali quasi dimezzati rispetto a quelli tedeschi; e apparirà come tale assestamento andasse bene alla nostra struttura finanziaria e a larga parte del mondo industriale. Nel frattempo, quindi, la FIAT decideva di andarsene negli Stati Uniti, i nostri giovani migliori se ne andavano all’estero, e così i nostri ricercatori, le mafie prosperavano. Mentre i paesi europei più sviluppati tutelavano nella crisi proprietà e controlli nazionali sulle industrie strategiche e mettevano in campo per esse facilità fiscali, impegni dei loro sistemi finanziari, sostegni alla ricerca e alla formazione, al contrario Alitalia collassava, Telecom se la prendeva un gruppo francese, un sodalizio franco-tedesco si spartiva il cemento italiano, l’industria agro-alimentare francese si impadroniva di quella italiana, l’industria tedesca si appropriava in più modi della gran parte della nostra industria meccanica di dimensioni medie, in genere ad alto contenuto tecnologico.

Sicché oggi, per esempio, mentre quasi tutto il mondo industrializzato si ristruttura onde far fronte al surriscaldamento climatico, l’Italia risulta aver subìto (da parte della relativa proprietà tedesca) la demolizione delle industrie addette alla produzione di pannelli solari; e, non facendo niente per ricostituirle, subisce l’acquisto dalla Germania o dalla Cina dei pannelli, con danno a un’occupazione altamente qualificata, oggi disoccupata, nonché alla nostra bilancia commerciale.
Sempre per esempio, sono 600, dice la FIOM dell’Emilia-Romagna, le industrie meccaniche della regione che riforniscono l’industria meccanica, automobilistica, ecc. della Germania di semilavorati a prezzi di strozzinaggio, che si appropriano gratuitamente della loro tecnologia, che le costringono a pagare ai loro lavoratori la metà del salario tedesco. A volte sono imprese diventate di proprietà tedesca, a volte no ma vincolate a contratti che prevedono la gestione di tecnici tedeschi dei processi e dei tempi produttivi. Non esistono dati su questa situazione altrove in Italia: guardando alla realtà dell’Italia settentrionale siamo senz’altro a diverse migliaia di imprese in questa situazione.

Dunque non esiste in Italia, ho concluso con gli esempi, uno straccio di politica industriale, né si manifesta in alcuna sua grande parte politica l’intenzione di darsela. Dunque il “modello” italiano continua a essere obbligato a basarsi, anche quando la produttività e il valore aggiunto di sue parti siano elevati, al sottosalario, al precariato, alle cooperative fasulle, alla mancanza di diritti dei lavoratori sui luoghi di lavoro.
Anche tutta questa realtà è parte della ristrutturazione politica e sociale del nostro paese a opera renziana.

Luigi Vinci

Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.

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