Sull’inserto culturale del quotidiano di Confindustria il sociologo è stato definito un «liberista no-global e anti-Maastricht», impegnato in «un’implicita resa dei conti con il suo passato sinistrorso»1. Già autore di saggi legati alla categoria della sinistra italiana, prima dell’estate di questo 2017, ha pubblicato per Longaesi un testo dal furbo titolo Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi. Nell’ambito di una serie di proposte di lettura, inaugurata con Byung-Chul Han e Pietro Ingrao, vorrei qui cambiare il nucleo argomentativo, contando di riuscire a innestare i diversi temi in futuro, riassumendo in modo ragionato alcune delle posizioni espresse da Ricolfi, limitando al minimo i commenti.
La premessa del libro sposa la visione di chi ritiene la sinistra contemporanea il campo dei ceti medi riflessivi, distanti dalle difficoltà economiche e sociali di cui si dichiarano paladini. La globalizzazione, accompagnata da un eccesso nell’uso del politicamente corretto, avrebbe portato ad una frattura tra il popolo e quelle forze politiche tradizionalmente ancorate al radicamento tra le classi sociali meno abbienti.
Dal secondo dopoguerra si sono affermati in modo universale i valori di uguaglianza, libertà e solidarietà (anche perché la tragedia del nazismo ha molto da dire anche oggi, aggiungerei). Ricolfi si sofferma a lungo su Norberto Bobbio, scrivendo dell’illusione di chi in Italia ha voluto tentare di coniugare uguaglianza e libertà nella scia di una tradizione di cui ha fatto parte anche il Partito d’Azione, a cui talvolta sembra richiamarsi il civismo di Tomaso Montanari.
Bobbio, autore di una fortunata opera del 1994 dal titolo Destra e sinistra, è messo al centro di una serrata critica nella sua teorizzazione di una sinistra moralmente superiore alla destra, alla base di un atteggiamento persistente ancora oggi. Bobbio, come Gobetti, non sarebbe stato un liberale, data la sua fiducia nel marxismo e nella traduzione datane dal socialismo reale.
La simpatia di Ricolfi sembra invece rivolgersi principalmente verso Hayek e la sua denuncia delle minacce accompagnate dalla preminenza di un ideale di uguaglianza.
Chiarito il campo sui profondi errori di chi condannava le destre come inferiori sul piano morale, l’attenzione si sposta rapidamente agli anni Novanta del secolo scorso, quando i «successi del capitalismo» portano ad una «istantanea conversione alla filosofia di mercato» da parte della sinistra occidentale (ricercate l’appuntamento a Firenze del 1999 con Bill Clinton, Massimo D'Alema, Tony Blair, Lionel Jospin e Gerhard Schroeder, tra gli altri). La terza via socialista - e non solo - esprime «entusiasmo per l’unificazione del mondo sotto le insegne della libertà» [p. 85], sposando l’ideale caratterizzante della destra. La globalizzazione sembrava rispondere ai sogni internazionalisti, attraverso il cosmopolitismo e le nuove promesse del web. Il nuovo millennio ha invece portato deindustrializzazione nei paesi occidentali, apertura delle frontiere e stagnazione economica.
«Alla sinistra la globalizzazione ha tolto la classe operaia, perché il numero di operai nativi è crollato [...]. Alla destra la globalizzazione ha tolto la fede nel libero mercato […]. A entrambe, sinistra e destra, la globalizzazione ha imposto il problema delle frontiere e dei flussi migratori, che né l’una né l’altra paiono in grado di risolvere» [p. 112].
Il problema della sinistra di oggi «non è che non sa dove andare, ma che non capisce dove si trova» [p. 66], avendo sbagliato la lettura di quello che è avvenuto a partire dagli anni ‘80 del Novecento. La crisi del 2007 ha fatto esplodere l’inadeguatezza di una proposta politica edificata sulla fiducia nello sviluppo del processo economico e sociale, che il centrosinistra si è effettivamente trovato nelle condizioni di governare, in parte significativa del mondo.
Ricolfi ci propone una breve storia del populismo, poco utile per il ragionamento che qui si vuole ricostruire e non distante da quanto larga parte della pubblicistica ci propone quando si occupa di tale categoria politologica. L’autore non manca però di citare le radici delle diverse tradizioni richiamando la fiducia nell’uomo da parte del romanticismo, contrapposta ad un riconoscimento degli interessi egoistici dell’illuminismo, da cui si sarebbe sviluppato il primato dell’individuo nelle tradizioni del liberalismo e del socialismo, in questo simili, tanto da creare quell’area comune su cui si ritrovano la tradizione del PPE e del PSE, con i governi di larghe intese (questa è un’aggiunta interpretativa di chi sta scrivendo l’articolo). I populismi riprenderebbero una visione durkheimiana del sistema sociale, leggendolo come un organismo unitario, ostile al cosmopolitismo e all’imperialismo (l’isolazionismo può convivere con l’assenza di ogni presunzione di superiorità).
Tra il 2008 ed il 2016 è esploso il consenso attorno alle formazioni populiste in quei paesi dove la crisi economica si è accompagnata ad aumento della criminalità degli stranieri (da cui consegue il timore verso il terrorismo): sarebbero questi due elementi a fornire il terreno di successo di chi vive l’Unione Europea e l’immigrazione come i grandi mali della contemporaneità.
L’assenza di crescita economica aumenta le insicurezze e di conseguenza cresce la richiesta di una qualsiasi forma di protezione da parte di chi paga il prezzo della crisi. Anziché far fronte alla situazione, la sinistra «impegna le sue migliori energie comunicative per dissolvere i problemi che la gente normale percepisce come tali» [p. 165], in modo sprezzante, supponente e nichilista. Ad esempio viene negata l’emergenza dell’immigrazione, accogliendo un linguaggio politicamente corretto in sempre maggiore rottura con il senso comune. Ricolfi scrive esplicitamente di «eccessi di civiltà» alla base di una cesura tra linguaggio e sentire diffuso.
«Proprio perché aveva cessato di occuparsi seriamente degli ultimi, la sinistra è stata costretta a cambiare pelle, puntando buona parte delle sue carte su temi soft, o non strettamente economici» [p. 212]. Il mondo popolare sarebbe stato rimosso, con un cambiamento dell’elettorato di riferimento.
Oggi l’offerta politica si polarizzerebbe su apertura e chiusura: destra e sinistra sarebbero quindi destinate ad avvicinarsi sempre di più a difesa della società globalizzata, a difesa delle pulsioni di chiusura. Ricolfi pare invitare chi governa ad un nuovo equilibrio tra socialisti e liberali, in chiave progressista e con una maggiore consapevolezze rispetto alle disuguaglianze causate dalle nuove regole economiche.
Sinistra e popolo pone quindi interessanti spunti per una serrata polemica, per una sinistra di classe che sia capace di opporre a queste ricostruzioni una progettualità aperta alle classi sociali e chiusa nella difesa di interessi non rintracciabili sul piano di una sorta di sovranismo interclassista e frontista.
Ricolfi provoca quando scrive che i migranti sono oggi l’unico argomento con cui i ceti medi riflessivi cercano di lavarsi la coscienza per il non essersi più occupati degli sfruttati. Però l’unica efficace risposta sarebbe una forza politica la cui composizione sociale della base militante sia diretta espressione di quel popolo rappresentato dalla classe del proletariato (che non ha confini, ma è circondata da nemici).
Luca Ricolfi, Sinistra e popolo: Il conflitto politico nell'era dei populismi, Longanesi, Milano, 2017, p. 282, € 16,90.
1 Raffaele Liucci, Dove nasce il divorzio tra sinistra e popolo, «il Sole 24 Ore. Domenica n° 264», 01 ottobre 2017, p. 27.