Impressionante è la declamazione di impotenza rappresentata da quello che resta di un passato non sopravvissuto al crollo del Muro di Berlino, le cui macerie hanno travolto anche quanti ritenevano il blocco sovietico un male pari al capitalismo – o quasi.
Ad ogni movimento reale si inscena lo stesso meccanismo, con gli stessi meccanismi retorici e, più che altro, gli stessi meccanismi logici.
Le solite firme, che si citano, si rispondono, denunciano, declamano. Nel frattempo la società prosegue nel suo mutamento e garantisce un senso di movimento anche alla staticità della sinistra italiana.
“Questo movimento è bello”, “questo è brutto”, “mi si nota di più se ci vado in piazza, o se ci vado da solo, o se ci vado insieme?”.
Blog, siti, testate, profili Facebook… la rete invade chiunque voglia provare a informarsi.
L’analisi è fondamentale, ovviamente. Non si vuole affermare l’inutilità di tanto materiale, peraltro interessante e non banale, soprattutto nella dialettica che dimostra la necessità di proseguire la discussioni e i chiarimenti. Solo che non ci si può sempre e comunque limitare all’analisi, se si vuole essere minimamente utili (a meno che non ci si voglia tutti ridurre a comunicatori di informazione).
Pochissimi provano a estraniarsi dal presente, senza leggere il passato alla luce dei nuovi avvenimenti, denunciando una precedente cecità. In alcuni casi si notano degli interessanti confronti con la piazza del 19 ottobre 2013 a Roma e con i movimenti brasiliani. Così si rompe la meravigliosa bolla che isola le singole settimane dal resto, in una continua ricerca estetica del riscatto. Il referendum dell’acqua, il movimento No Tav, il 5 Stelle, il 19 ottobre, i “forconi”. Il tutto, spesso, subalterno a quanto viene comunicato dai principali canali di informazione e comunicazione.
Si presta pochissima attenzione alle vertenze che poco eco hanno sulle testate nazionali (o anche su Facebook). Si cerca una corrispondenza con una ricostruzione che si perde nell’astratto: i poveri, le vittime, coloro che sono in cerca di riscatto. Ci sarebbero nuove contrapposizioni che “travolgono le categorie tradizionali”. Come se le categorie fossero qualcosa che si determina oggettivamente, e non frutto di movimenti reali che mutano il presente secondo le proprie esigenze e i propri obiettivi.
Come se la fluidità del reale non fosse una costante, e le categorie sempre opinabili, sempre frutto di convenzioni comunicative (o di processi organizzativi non spontanei).
Il commento del presente, l’analisi del passato, qualche generico richiamo al futuro. Nel vuoto di una mancata progettualità si consumano le lotte dei migranti, quelle nel mondo della sanità, le difese dei lavoratori nel mondo del trasporto, i movimenti nel campo del terziario arretrato.
Si sostituisce alle classi sociali un insieme di principi etici e morali. Si sostituisce alla necessità di (ri)costruire rapporti di forza reali la voglia di declamare il mutamento, con un’esaltazione del movimento che si sofferma su un livello decisamente più superficiale di quello che andava di moda attorno al 2001.
L’assenza di proposte e di obiettivi, con cui confrontare le analisi e su cui basare le scelte di posizionamento (anche di sostegno più o meno critico ai singoli avvenimenti), porta a ipotizzare che anche stavolta tutto si scioglierà come neve al sole (nella relatività di un mondo dove “niente si crea e nulla si distrugge”, per cui tutto ha sempre delle conseguenze). A 25 anni ho già il movimento contro la guerra, l’Onda e il movimento dell’acqua tra i precedenti “assoluti” poi dimenticati. Discutere continuamente di ciò che accade, senza interrogarsi piuttosto sul perché non si influisce minimamente nei mutamenti reali, non sarà una consolante distrazione? Per citare un non noto intellettuale, Roberto Capizzi: “fotografare l’esistente lo fanno i fotografi. Quelli scarsi”.