Su Mélenchon uscito dalla Sinistra Europea
Nello scenario turbolento delle ultime settimane, ha fatto poca notizia l'uscita dalla Sinistra Europea (SE) del Parti de Gauche (PG) di Jean-Luc Mélenchon.
Si tratta però di un passaggio significativo per il presente e forse il futuro della sinistra radicale in Europa.
Motivo della rottura è la forte divergenza fra la linea anti-austerità del PG con le decisioni prese in Grecia da Syriza e dal suo leader Tsipras, alla guida di un esecutivo che non ha voluto o potuto rompere con i diktat della Troika.
Europa tradita: il controverso rapporto con l'europeismo della sinistra in Italia
C’è grande confusione sotto il cielo. Nonostante per il grande Mao ciò coincise con una grande opportunità politica per la sua rivoluzione, la grande confusione di questi giorni e queste ultime settimane non fa che acutizzare la crisi di una sinistra italiana sempre più sbandata. Senza parlare del Partito Democratico, che l’autore di questo articolo si ostina a collocare nell’orbita (sinceramente più lontana) della sinistra.
Ombre della sinistra europea in Italia
Mentre si avvicina il voto del 4 marzo, Daniela Preziosi, su il manifesto ha scritto un articolo da titolo «Le figurine della sinistra europea nella sfida italiana». Le elezioni nazionali non hanno chiaramente al centro la dimensione continentale, ma più che in passato c'è un certo imbarazzo - trasversale - a rapportarsi con i vicini dell'Unione (Europea!).
Le sinistre italiane si confermano contenitore di grande confusione. La visita di Grasso a Corbyn, l'iniziativa di Fratoianni con una esponente della Linke, le relazioni di Potere al Popolo con il GUE appaiono come timidi echi di pratiche del recente passato.
Proviamo a concentrare le nostre dieci mani a partire da due notizie di attualità.
A fine gennaio Mélenchon ha chiesto l'esclusione di Syriza dal Partito della sinistra europea, con una dura replica di Tsipars ("noi non siamo una sinistra sola a parole"). L'allarme frattura pare essere rientrato ma certo la tensione rimane e appaiono lontani i tempi dell'asse greco-francese in chiave solidaristica.
Il PSE non se la passa meglio. Schulz pareva dover rafforzare il vento di Sanders e Corbyn, con una campagna di rilancio della SPD (eletto come candidato con il 100% dei voti del partito) incentrata sul rifiuto delle grandi coalizioni. Ha dovuto fare passi indietro su numerose questioni di principio e infine ritirarsi anche dal ruolo concordato con la CDU di Ministro degli Esteri. Le sue dimissioni dalla presidenza del partito ricordano più la disfatta di Hollande che il successo narrativo del Labour.
Di tramonto delle sinistre europee abbiamo sempre scritto sul Becco, queste Dieci Mani provano ad aggiornare la riflessione.
Il nesso tra la concezione occidentale del mutamento sociale radicale (quello che ora chiameremmo “rivoluzione”) e l’escatologia cristiana non è un mistero per nessuno: storicamente le troviamo fuse in più di un’occasione.
Dall’istante in cui si realizza il fatto della venuta del Regno nulla nel mondo è più ciò che era, tutto è santificato o condannato per sempre. Similmente, si pensa che, conquistato “il potere”, che purtroppo è perlopiù concepito come il controllo dell’apparato statale, una realtà umana come un leader o un partito possa fare tabula rasa del vecchio stato di cose e instaurarne uno nuovo radicalmente diverso. Se ciò non accade è per il tradimento (vecchio refrain stalinista) o per la pusillanimità di chi di dovere, oppure per la malvagità del vecchio mondo che non accetta di perire.
È facile comprendere come una simile concezione abnorme dell’essere umano non possa non essere frustrata dalla realtà. È infatti un’ovvietà assoluta che la storia vada avanti per processi, e non per salti repentini, così come dovrebbe essere un’ovvietà che qualunque mutamento sociale ed istituzionale, proprio in quanto è oggetto della storia umana, tenda ad essere marcatamente path-dependent: fatti e decisioni del passato vincolano il presente, riducendo il campo del fattibile.
Ciò non significa che il mutamento, anche radicale, di istituzioni, modelli economici e costrutti socioculturali sia da escludere; significa però che avviare un processo storico di lunghissimo periodo è cruciale, che nel breve e medio periodo è d’uopo darsi obiettivi realistici e non investire gli strumenti del potere di una mistica che non gli appartiene.
Lo stato sociale non è un’invenzione del Messia Roosevelt o del Messia Attlee, è un punto in un processo storico iniziato quasi un secolo prima in Prussia, a sua volta parte del più ampio processo storico del capitalismo; così come la controrivoluzione thatcherian-reaganiana di fine anni ‘70-inizio anni ‘80 che ha profondamente modificato quel sistema ha radici nell’Europa dilaniata dalla Seconda guerra mondiale, per esempio. Nell’immediato dopoguerra, nei dipartimenti di economia delle università più prestigiose del Vecchio e del Nuovo mondo gli studiosi istituzionalisti o keynesiani erano l’assoluta maggioranza; oggi ciò che non si basa su una matematizzazione estrema ed esasperata e/o sulla fede nel pallido mainstream propinato dai 2-3 manuali di macroeconomia “ufficiali” o nelle teorie neomonetariste rischia di passare per pseudoscienza: l’importanza assoluta di conquistare e tenere casematte.
Ultimo a fare le spese della confusione tra storia ed escatologia il premier greco Tsipras. Su SYRIZA la sinistra europea ha investito un enorme carico emotivo, ma purtroppo poche energie intellettuali. L’errore di Tsipras (che comunque nei sondaggi viaggia intorno al 20% stabile, perdendo non contro forze antiausterity ma contro la destra di ND) non sta in qualche fantomatico “tradimento”, vale a dire nell’aver voluto governare una situazione reale, già gravemente compromessa e condizionata da decenni di scelte sbagliate che non si possono realisticamente cancellare con un colpo di spugna, ma nell’aver pensato che bastasse vincere, che il potere potesse destrutturare e ristrutturare a piacimento la realtà, che il vecchio contesto si sarebbe arreso di fronte al nuovo che viene.
Un errore replicato da tutti coloro che, in giro per l’Europa, continuano a sostenerlo o al contrario lo denigrano, come Mélenchon. “Fare qualcosa” e “cambiamo tutto” continuano ad alimentare investimenti emotivi ed entusiasmi, mentre si trascura completamente la preparazione necessaria per quando il momento di fare qualcosa arriverà davvero e si vive di belle idee astratte e belle intenzioni. Al contrario di molti, ho sempre preso molto seriamente (e in parte condivido) l’idea che al governo non ci si debba andare, che sia meglio costruire contropotere che prendere il potere.
Se si decide altrimenti, però, al potere è utile arrivarci solo alla fine di un processo consapevole.
Il tradimento verso il popolo greco del governo Syriza-Anel deve aver screditato ciò che resta della sinistra europea se lo stesso Melenchon è arrivato al punto di chiedere l'espulsione di Syriza dal Partito della Sinistra Europea.
La risposta di Syriza sembra un bieco tentativo di arrampicarsi sugli specchi accusando di antidemocraticità e di irresponsabilità chi si è quantomeno indignato per la macelleria sociale del governo Tsipras.
L'unica sensata accusa che si sarebbe potuta muovere a chi ora punta l'indice contro Syriza è cosa avrebbero fatto al loro posto, dovendo mantenere l'appartenenza all'Unione Europa.
Con quale linearità e coerenza si sarebbe potuto mantenere l'ideale di un'altra Europa in un contesto dove è risultato evidente che di Europa ne esiste una sola e non è certamente disposta a farsi riformare da qualsiasi movimento di sinistra alternativa continentale?
Insomma, Melenchon pensa di avere un Piano B e va in giro con Varoufakis a spiegarcelo da quel maledetto 5 luglio 2015. L'unico pulpito da cui proviene la predica è basato su quello striminzito Piano B che pensa di donarci un'altra Europa dal volto umano.
L'unica base di una politica economica neokeynesiana per formare un'altra UE è basata su politiche di redistribuzione della ricchezza con creazione di opportunità di lavoro dignitoso e transizione ecologica in opposizione al modello neoliberista su cui è storicamente fondata l'UE.
La sola partecipazione democratica dovrebbe magicamente donarci questa nuova prospettiva idilliaca, anche se abbiamo già visto il totale fallimento di questo percorso.
Le perplessità non mancano neanche verso Melenchon e la sua voglia di rilanciare la Sinistra Europea all'interno delle istituzioni ordoliberali.
La nascita del GUE e del Partito della Sinistra Europea sono una diretta responsabilità della cultura politica italiana. Abbiamo già avuto modo di sottolinearlo sul Becco già qualche anno fa ormai, ma alcuni nodi di fondo dei problemi europei rimangono non affrontati. Certo le analisi devono essere aggiornate ma l'atteggiamento generale pare essere ossessivamente "cerchiamo qualcosa che funzioni per aggrapparci da una zattera all'altra".
Sabina Guzzanti non è una politica, ma il suo documentario Viva Zapatero!, collegato al recente sostengo per Potere al Popolo (con una convergenza dell'ex socialista Mélenchon) potrebbe interrogarci su quali sono i percorsi di maturazione delle varie narrazioni, spesso estemporanee e prive di processi stratificati, che dovrebbero portare a robuste sedimentazioni organizzative.
Il livello delle sinistre sul piano continentale è un disastro. È stato Renzi a portare il Partito Democratico nel PSE, mentre questa famiglia continua a registrare numerosi insuccessi, con l'informazione schierata a sostenere il fenomeno Corbyn, il cui profilo non entusiasma i dirigenti dei vari partiti europei.
L'isolamento della Grecia ben si conferma con l'attenzione di Tsipras a ciò che avviene in Germania (con tanto di invito a creare un nuovo governo di grande coalizione, scavalcando la linea ufficiale di Schulz da destra).
La replica di Syriza ("noi non siamo di sinistra solo a parole") non è che una ferita già aperta in Italia, se uno ripensa al dibattito interno a Rifondazione per il sostegno all'Unione (intesa come coalizione del "secondo Prodi").
Quale è la cultura di governo della sinistra socialista? E quale quella della sinistra di alternativa?
C'è qualcosa di male ad ammettere di non avere ancora elaborato una complessiva capacità di governare ma voler rappresentare la difesa degli interessi di chi subisce questo sistema? Il potere e il governo sono categorie collegate ma distinte, far finta che esista un obbligo storico perché continuino a esistere "destre" e "sinistre" non farà che rafforzare i sostenitori del superamento di queste categorie.
Per chi è convinto della necessità di una sinistra di classe si tratta di non rassegnarsi ai tempi brevi, alla tattica e allo scoraggiamento, pur insistendo nella ricerca di equilibrio per agire nel presente.
La scorsa settimana è stato diffuso il primo sondaggio che evidenzia in Germania un sorpasso di AfD sulla SPD (16% contro 15,5%). Molti sono stati così impegnati ad allarmarsi da non prendersi la briga di ricercare quel sondaggio e consultarlo nella sua interezza. Se lo avessero fatto, avrebbero scoperto che la somma di SPD, Linke (11%) e Grünen (13%) porta la sinistra complessivamente al 39,5: un vantaggio di fatto abissale su AfD e quasi appaiato alla coppia CDU-CSU (32) e FDP (9). Inoltre, la somma di queste somme porta a un oltre 80% per le forze politiche democratiche.
La crisi della SPD è vecchia di molti anni, ma non è stato possibile sinora affrontarla per la doppia sordità delle sue due anime. La dirigenza e i giovani movimentisti, infatti, condividono la medesima radicalità anticomunista che impedisce l’unità delle sinistre e, sebbene si dichiarino antifascisti, continuano ancora ad accettare, a ventisette anni dall’unificazione, l’assenza di una Costituzione tedesca e la permanenza della provvisoria “Legge fondamentale” creata nel 1949 per la zona occidentale sotto tutela anglo-franco-americana. La disconnessione con la realtà rasenta a tratti l’inverosimile: nei sondaggi Schulz aveva inizialmente agguantato la parità con la CDU, ma che il suo faccione rassicurante non bastasse era diventato noto fin dalle prime occasioni di voto reale (e non demoscopico) per i parlamenti regionali a maggio 2017. Nonostante questo, la SPD ha continuato su una linea politica schizofrenica, che rifiutava la Grosse Koalition e neppure considerava una politica unitaria a sinistra.
Questa linea suicida è la medesima battuta anche in Francia da Mélenchon e in Italia da alcune sparute forze di sinistra. Il primo, invece di accettare la sfida di Macron sulla «societé du travail», si è limitato a contestarlo sulla memoria storica negando le responsabilità della Francia nei rastrellamenti e deportazioni degli ebrei. In Italia i paradossi sono esemplificati da Fratoianni che invoca il fronte democratico per battere il fascismo (quindi per questo se ne sta fuori dal centrosinistra e inveisce contro il fronte democratico Pd-Forza Italia) e da Rizzo che invece di lottare per un governo comunista europeo vuol far precipitare l’Italia nel baratro dell’isolamento (per la serie: amo così tanto Serbia e Transnistria che voglio essere come loro).
Nessuno, in tutto questo, si è fermato a riflettere sulla svolta politica post-elettorale di Corbyn, che ha riconosciuto la necessità per i partiti socialisti di essere al centro della società (leggasi: Partito della Nazione). Grasso era troppo occupato a tradurre dall’inglese lo slogan elettorale “For the many, not the few” per documentarsi su cosa è successo dopo.
La sinistra, almeno in Occidente, sta facendo di tutto per rendere il celebre ammonimento reazionario di Margaret Thatcher, "There is no Alternative" (non c'è alternativa al neoliberismo), una vera e propria profezia.
In crisi di egemonia e di legittimità, la sinistra europea lavora duramente per ottenere un minimo di visibilità, di credibilità e di consenso in un campo dominato dal realismo capitalista. Le poche energie vengono necessariamente mobilitate nel breve periodo: si guarda alle prossime elezioni, ci si organizza come si può per provare a fermare la prossima legge che precarizza (ulteriormente) il mercato del lavoro, e così via. La debolezza cronica della sinistra ha così necessariamente spinto in secondo piano il fondamentale problema del "che fare?" una volta vinte le elezioni e preso il potere politico.
Il neoliberismo è un modo di governare l'economia e la società che ha una sua logica intrinseca.
Esistono ovviamente delle varianti nazionali e geopolitiche nella sua governance ma queste condividono tutte una serie di ricette e di modi di organizzare la realtà specifici.
Nell'apparante caos dell'ordine globalizzato e post-westfaliano attuale, il neoliberismo segue una sua cinica ma coerente logica.
Forse ha torto Foucault quando afferma che al socialismo è sempre mancata una sua specifica governamentalità ma è evidente che in questa fase storica, manca un modo coerente e complessivo di pensare l'alternativa politica. Come vogliamo che sia l'economia? Come deve essere la società? Come vogliamo che sia l'individuo all'interno di questa società?
Il neoliberismo sa benissimo ciò che vuole mentre mi pare che manchi una visione d'insieme a sinistra sulla società del futuro da costruire (non si è nemmeno d'accordo su come deve essere pensata la coppia sovranità/globalizzazione).
In questa fase storica l'ammonimento di Foucault va dunque preso sul serio: manca un progetto politico reale e ci si appoggia su governamentalità già esistenti: forze come Podemos, Linke, La France Insoumise sembra che facciano molta fatica a proporre qualcosa di più che non sia la solita ricetta socialdemocratica e keynesiana.
Ma che succede quando queste ricette sono sostanzialmente inapplicabili? Vincoli di bilancio, creditori internazionali, trattati di libero scambio, accordi europei non rendono quasi mai possibile mettere in atto reali misure redistributive (se stai all'interno delle regole del gioco la coperta è sempre cortissima).
Quello che è accaduto a Syriza in Grecia è paradigmatico. Una volta vinte le elezioni, tutte le promesse elettorali fatte si sono dimostrate immediatamente irrealizzabili. Restavano due strade: una rottura drastica resa proibitiva proprio dalla mancanza di un progetto politico e di una logica di organizzazione dell'economia e della società nuovi e diversi oppure una gestione politica nella cornice delle logiche neoliberiste, non difformemente da quanto fatto da tutte le altre forze politiche.
Syriza, in mancanza di una realistica alternativa, ha optato fin da subito per la seconda ipotesi e sarebbe ingenuo pensare che se vincesse l'estrema sinistra in Francia, Spagna o Italia sarebbe diverso. Conta poco il potere istituzionale se poi non si ha un' arte di governo in grado di trasformare la realtà.
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.wikipedia.org
Soffiano in italia e in altri paesi d’europa venti e venticelli nuovi e importanti
La tornata elettorale dei giorni scorsi in molti paesi europei indica alcune tendenze e apre al tempo stesso molti interrogativi. Il contesto politico italiano e, per quel che si è visto, i contesti politici di Francia e Regno Unito stanno subendo modificazioni rilevanti, e ciò sta accadendo anche in Italia, benché in forma più ridotta e più confusa. Cosa si
può tentare di ipotizzare. A me pare che siano in campo più modificazioni degli umori dell’elettorato popolare.
In Italia una tendenza sembra essere quella dell’esaurimento della crescita del voto alle formazioni ululanti della destra fascistoide e del parallelo declino del voto al Movimento5Stelle. La crescita, per un certo tempo impetuosa, del consenso popolare a queste formazioni risultava creata dal loro recupero dei titoli dei temi che assillano o indignano le classi popolari, e l’intendimento che essa si proponeva era la punizione delle formazioni tradizionali di governo, data l’assiduità delle loro politiche antisociali, per di più estremamente brutali nella crisi sistemica di questi anni. Lo stesso è valso a lungo in Francia. In queste settimane, tuttavia, Marine Le Pen è stata stoppata alle elezioni presidenziali e poi fortemente ridimensionata al primo turno delle elezioni parlamentari, non avendo saputo unire alla denuncia del disagio sociale della maggioranza dei francesi un programma che avesse il senso dell’utilità. E lo stesso è poi accaduto al primo turno delle elezioni amministrative italiane, alle quali il Movimento5Stelle è stato travolto a causa del flop delle sue esperienze amministrative, del primitivismo e delle urla dei suoi esponenti, delle buffonate di Grillo.
È un po’ quello che succede in pubblicità: la dichiarazione che il tuo detersivo lava più bianco del bianco mentre gli altri detersivi lasciano macchie e patacche può risultare lì per lì credibile: ma poi quando ti accorgi non una volta ma continuamente che quel detersivo apre buchi nelle mutande cambi marca. È questa stessa, inoltre, la cosa in precedenza avvenuta a danno del PD di Matteo Renzi, inciampato, dopo averne fatte di ogni, in quel referendum costituzionale che doveva avviare un millennio di governo. Sicché quel che mi pare di ravvisare è, prima di tutto, una nuova tornata del peregrinare della parte disorientata dell’elettorato popolare, sia italiano che di altri paesi europei.
Ascrivo invece il flop dei conservatori di Theresa May alle elezioni parlamentari del Regno Unito a un altro tipo di tendenza popolare, anch’essa montante da relativamente poco tempo: la paura di un disastroso salto nel buio, ovvero la paura che la Brexit porti a forti danni economici e sociali, vale a dire, tramite la caduta del valore relativo della sterlina e conseguenti processi inflativi, alla caduta del valore di pensioni e risparmi, a ulteriori peggioramenti della condizione lavorativa popolare e delle prestazioni, già malmesse, del welfare, a ritorni della crisi e della perdita di posti di lavoro, ecc. Lo stesso fenomeno, inoltre, ha cominciato a operare anche altrove, senz’altro in Francia e in Italia. Anche questo dunque è da trarre dai recenti risultati elettorali in questi paesi: la paura del salto nel buio. Infine è probabilmente questa la ragione del ritorno di credibilità, che era apparsa declinante, di Angela Merkel in Germania. Quando si tratta soprattutto di votare a dispetto per la Le Pen, Matteo Salvini, Grillo, Frauke Petry non ci si pensa, nel senso a questo tipo di voto è presupposto che di sconquassi gravi comunque non ce ne saranno, tutto continuerà, certo male, ma come prima. Ma proprio il tentativo di Brexit della May ha indotto altrove in Europa la paura del salto nel buio. E lo ha indotto nello stesso Regno Unito: dato il programma sociale lacrime e sangue che la May ha accompagnato alla Brexit, dato il cattivo andamento dell’economia, che sta constatando la delocalizzazione in Irlanda e negli Stati Uniti di banche, fondi di investimento, sedi centrali di multinazionali, dato infine il rischio della secessione della Scozia (e del suo petrolio). Voto a dispetto e paura del salto nel buio costituiscono in certa misura un’antitesi: il carattere anche emotivo delle scelte elettorali può però far sì che coesistano nel medesimo individuo, e che a seconda delle circostanze prevalga in egli un tipo o l’altro di scelta. Insomma come diceva Mao “il disordine è grande sotto il cielo”, dunque “la situazione è eccellente”.
Io in verità non sono molto sicuro che oggi sia questa la situazione: però non è neanche il caso di esagerare in pessimismo. Ciò che la situazione sarà dipende dall’enorme quantità di cose di tutti i tipi che avverranno nella vita nella sua interezza delle popolazioni europee: e dentro all’enormità delle cose qualche elemento suscettibile, non dico di rendere eccellente la situazione, ma di migliorarla sensibilmente,e, come avrebbe detto Napoleone Bonaparte, poi vi vedrà, è venuto montando. Ecco infatti un ulteriore dato dei mutamenti degli umori popolari: il ritorno del loro sguardo a ciò che avviene nella sinistra politica, essendo essa non più portatrice tutta quanta e a larghissima maggioranza di politiche antisociali, oppure, più recentemente, dalla propria decomposizione e dalla propria semiestinzione, ma anche da ignificativi ritorni a sinistra, cioè al proprio mestiere precedente di rappresentanza delle richieste popolari e di attivazione di mobilitazioni e di lotte er l’affermazione istituzionale di queste richieste.
Il successo di France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon e quello nel Regno Unito del Labour di Jeremy Corbyn hanno parlato chiaro in questo senso, e a suo tempo aveva parlato chiaro la vittoria in Grecia della Syriza di Alexis Tsipras. Hanno inoltre parlato chiaro fatti come il disfacimento di partiti i cui gruppi dirigenti si erano venduti, quali il PASOK greco, il Partito laburista olandese, il Partito socialista francese, a cui inoltre hanno corrisposto corposi successi delle sinistre dei relativi paesi. Una lezione analoga è venuta dagli Stati Uniti, nella forma della straordinaria ascesa nel Partito democratico del socialista Bernie Sanders. È di eccellente augurio, ancora, il voto quasi plebiscitario a Corbyn dei giovani e del lavoro intellettuale, quello di giovani e di donne a Sanders, ecc.
Si può realisticamente tentare di percorrere questa strada di rifacimento della sinistra anche in Italia? A seguito ell’entrata in campo di Articolo 1? Punto Rosso pensa che la risposta sia sì. Ma alla condizione, per così dire, che vi crescano più rapidamente alcune convinzioni e alcune pratiche. Si tratta di questo: che occorre, primo, operare all’unità d’azione quanto meno in sede elettorale tra le forze attuali più dinamiche della sinistra (Sinistra Italiana, Possibile, ecc.); secondo, passare finalmente a una struttura organizzata capace di operare sia a livello locale che su larga scala, disponendo di sedi, democrazia, capacità di rapporto con popolazioni, luoghi di lavoro, luoghi di studio, collettività di movimento, ecc.; terzo, porre fine a quella curiosa attitudine della sola sinistra italiana nel mondo che è l’attenzione ossessiva verso ciò che avviene in un “centro” politico, sociale, culturale più fantomatico, nel modo altisonante in cui si autorappresenta, ed è rappresentato dai media liberali, che reale. A Milano, per esempio, dove risiedo, è ben piccola cosa, oltre che incerta e confusa sul terreno dei contenuti sociali e degli orientamenti politici; non so altrove in Italia. Non che debbano essere ignorati o snobbati quanti tengano a porsi politicamente al “centro”: anzi si tratta da parte di Articolo 1, a nostro avviso, di cooperare con essi nel modo più stretto e leale. Si tratta anche per questa via di portare le classi popolari a unire saldamente alle proprie richieste storiche di emancipazione sociale le richieste di movimento, altrettanto urgenti, in tema di diritti civili, migranti, ambiente. Ma ciò che soprattutto servirà alla ricostruzione di una sinistra politica italiana credibile a livello di classi popolari, radicata in esse, da esse sempre più votata, è di risultare chiarissima e inequivoca sul terreno di un programma e di intenzioni di classe; è di risultare definitivamente emancipata rispetto all’ossessivo vaniloquio massmediatico liberal e “centrista”; è di risultare capace di costruire un’egemonia solida di popolo nei confronti delle quote democratiche e civili delle classi medie. Se non sarà così, avremo sprecato l’ennesima occasione.
Elezioni in Francia, dopo il secondo turno
Il primo turno delle Presidenziali ha segnato un momento di rottura negli equilibri del sistema politico francese. Il terremoto ha investito soprattutto i partiti tradizionali tanto che per la prima volta sia i repubblicani che i socialisti si sono ritrovati, anche se per ragioni molto diverse, esclusi entrambi dal ballottaggio.
In una Francia molto divisa, la sfida che si apre fra il peculiare europeismo antipartitico di Emmanuel Macron e la destra identitaria e xenofoba di Marine Le Pen, sancisce anche l’ennesima sconfitta della sinistra, nonostante il buon risultato ottenuto dal movimento de La France Insoumise, guidato dal carismatico Jean-Luc Mélenchon.
Tout va mal, Madame la Marquise!
Controlacrisi.org ha pubblicato in rapida successione tre articoli sulle elezioni francesi, dei quali l’ultimo a firma di Rossana Rossanda, che nonostante il mio personale apprezzamento per Controlacrisi.org non condivido affatto. In particolare quello della Rossanda esprime alcuni giudizi che mi lasciano del tutto perplesso.
In estrema sintesi quattro almeno non mi convincono e non resistono alla prova dei veri dati elettorali:
“Ils ont un visage comme mon cul” è un’espressione che non ha bisogno di essere tradotta.
Con essa vogliamo sintetizzare il nostro giudizio su molti commentatori, che la sera del 23 aprile hanno commentato l’esito delle elezioni presidenziali in Francia. Su La7 in particolare un giornalista è arrivato a definire quella di Jean Luc Melenchon una sconfitta. Se questo è il mondo dell’informazione stiamo freschi!
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