Cosa non ha funzionato dunque nell'idea dei promotori di una equiparazione formale tra i generi? Cioè, prendendo l'operazione come una manifestazione della reale volontà di parità tra i sessi e non come una grande operazione di marketing pubblicitario delle “grandi intese”, che cosa si è inceppato per cui pochi giorni dopo davanti al voto parlamentare ci si è trovati a dire no alla rappresentazione paritaria? Volendo dare troppa importanza - anche in termini di credibilità politica - alla Santanché si potrebbe dire che col meccanismo delle quote non veniva preso in considerazione l'effettivo merito del soggetto per accedere alla sede parlamentare e che la questione di genere veniva per l'appunto liquidata con la semplice definizione di una quota; in realtà è avvenuto esattamente l'opposto: nel più totale distacco dalle reali condizioni di vita delle donne, con un dibattito politico tutto incentrato sulla violenza nella vita di coppia che trascende completamente dal contesto socioeconomico in cui la questione femminile oggi è calata, si è preteso di placare anche la barbarie più tremenda della violenza maschile sulla donna, cercando di porre un freno a tragedie che, guardacaso, complice la crisi, stanno incrementando, ricorrendo a delle norme di facciata.
Il tutto è avvenuto prescindendo dalle cause scatenanti lo squilibrio di genere nella vita sociale - talvolta degenerate persino in forme morbose - senza nessuna attenzione per le condizioni di partenza (vale per il centro-sx questo richiamo, qui) e di arrivo (vale l'avvitamento neoconservatore del discorso della Santanché che arriva a rifiutare anche le preferenze).
In questo contesto la politica a cui appartengono tanto la Santanché quanto le più fervide sostenitrici delle quote ha fallito a monte, cioè laddove ha completamente dimenticato non dico di invertire, ma quanto meno di controllare e ridefinire i rapporti sociali di prevaricazione che si instaurano in una società capitalistica in cui la donna è vista come strumento, utilizzabile “sia dall'uomo che dal capitale”, come avrebbe detto Camilla Ravera.
Alla Santanché possiamo riconoscere il cinismo politico di chi riesce a ribaltare la polemica politica a proprio favore su qualsiasi questione, ad esempio presentandosi in aula in tailleur rosa e tacco dodici, ma riportando dichiarazioni “contro le donne Barbie”; oppure ancora di solidarietà con le donne licenziate ingiustamente per maternità, dopo aver contribuito in tutti i modi possibili e immaginabili a renderle deboli e ricattabili sul posto di lavoro. Ma lasciando da parte i propagandisti di professione, bisogna dunque vedere quali sono le condizioni materiali che le donne devono affrontare e risolvere quotidianamente, partendo dai rapporti reciproci tra i sessi nelle condizioni produttive dell'attuale sistema. Condizioni che come sappiamo sono ancora, nonostante tutta la cagnara sollevata, ampiamente squilibrate, e senza che nessuno abbia la minima intenzione di apporvi modifiche.
Delle tante vertenze in atto, quelle che riguardano il mondo della ristorazione massificato, cioè invaso anch'esso dalle multinazionali, sono quelle che più direttamente investono la questione di genere (oltre il 60% degli addetti Mc Donald's sono donne; una quota crescente di donne riesce ad affermarsi come manager, ma in percentuali minori rispetto al rapporto del 60% che riguarda gli addetti semplici, ciò vuol dire che le donne anche nei rapporti interaziendali restano in posizioni di marcata subalternità di genere a dispetto della pubblicità e dello slogan dell'affermazione femminile in azienda).
Il “cibo meccanizzato” che la multinazionale vende attraverso strategie di marketing accurate come l'ultima campagna italiana (robe da far invidia a Marchionne in quanto a reclutamento a diritti zero di eserciti industriali di riserva) ripropone in forme subdole uno sfruttamento che si ripercuote proprio sulle fasce più deboli della società: donne, disoccupati, lavoratori di origine straniera e fasce di lavoratori ad alta precarizzazione (l'80% lavora con contratti part-time con turnazioni difficili da sostenere e senza diritti sindacali, anche qui a dispetto delle operazioni pubblicitarie). Quello che la multinazionale (l'ennesima idolatrata dai nostri governanti del Capitale) ripropone è la precarizzazione di fasce del mondo del lavoro sempre più ampie, che prevede la conseguente erosione dei diritti come inarrestabile e necessaria per reggere una domanda che giocoforza si fa sempre più frammentata. Lo si è potuto verificare proprio negli States dove le proteste in questo settore vanno avanti da molti anni ormai, soprattutto per merito di sindacati autorganizzati. Ora anche in Italia si rischia di essere licenziati perché si è cercato di portare i sindacati in azienda e di difendere i colleghi dal licenziamento (vedi il caso di Alessandra Vitangelo a Napoli), oppure perché si contesta il mancato rispetto dei turni e delle griglie orarie dei lavoratori, le ferie forzate, le proposte di trasferimento dei colleghi con contratto part-time (da affrontare con stipendi da 500 euro); infine si subisce il trattamento discriminatorio che tanto fa infervorare la Santanché, ovvero la contestazione della maternità facoltativa. Lo hanno evidenziato le lavoratrici del McDonald di Napoli che si sono ritrovate a lottare pure l'8 di marzo, riconoscendo che non c'era proprio nulla di cui rallegrarsi nella loro situazione di operaie a rischio: ricattabili, minacciate e licenziate.
Se non si cerca di uscire dalle retoriche che accompagnano procedure e contratti di lavoro sempre più “usa e getta” e non si abbandonano culture come quella del consumerismo americano, che ragiona per lobbysmo anche quando parla di politica e affronta tematiche attinenti alla sfera pubblica; se non si fa tutto ciò difficilmente si potrà intravedere un'uscita dal tunnel nel quale ci siamo infilati. C'è da affrontare un cambiamento profondo che implica la rivalutazione della propria cultura e il riadattamento a un nuovo stile di vita a dimensione umana e non di merce, nulla di semplice, ma nulla d'impossibile se si pensa alla crisi capitalistica come ad una grande occasione. “Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?”, così l'economista marxista Samir Amin battezzava, all'indomani della crisi del 2008, le uniche due alternative della sinistra politica. In realtà, come lascia intendere Amin l'alternativa è una sola: essere “audaci” e rompere con l'attuale modello produttivo e col “capitale dei monopoli” per salvare la vita propria e di molti altri esseri umani da un “capitalismo senile” che rischia di condurre ad una “nuova era di grandi spargimenti di sangue”.
Uscire dal capitalismo in crisi però vuol soprattutto dire delineare un altro tipo di società. Quale se non quella socialista? A meno di non volerne uscire in peggio, si dovrà dunque pensare alla società in senso socialista. In questo senso non si può prescindere dall'apporto della donna, ma in senso molto diverso dall'apporto inteso dai liberali che mirano sempre alla rappresentanza formale, mai a quella sostanziale, attendendo le lotte in seno alla società anche solo per riconoscere il suffragio universale. Clara Zetkin scrisse pagine memorabili in proposito già nel 1896, anticipando Rosa Luxemburg, Aleksandra Kollontaj, Simone de Beauvieur e altre compagne, arrivando a chiarire che
“la lotta d'emancipazione della donna proletaria non può essere simile a quella che conduce la donna borghese contro l'uomo della sua classe. Al contrario, la donna proletaria deve lottare insieme all'uomo della sua classe contro l'intera classe dei capitalisti (…) Obiettivo finale della sua lotta non è la libera concorrenza con l'uomo, ma la conquista del potere politico da parte del proletariato”.
La proposta finale è che l'onorevole Santanché, riscoperta paladina dell'emancipazione femminile, venga nella schiera di donne militarizzate che lavorano costrette a indossare la divisa (anche Ronald McDonald dev'esser stato “contro le donne Barbie”) e al fronte ci sono oltre 140 milioni di panini da sfornare ogni anno, con i cessi da lavare in orario extra-lavorativo e con la puzza di fritto che si infila sotto le coperte con te alla sera, senza la possibilità di passare del tempo con i figli, per chi può permetterseli, viste le paghe. Forse solo così l'onorevole scoprirà che qualcuno si misura con la coerenza delle proprie azioni, e a caro prezzo, tutti i giorni.
Interviste alle lavoratrici: qui (Alessandra Vitangelo, licenziata in quanto RSA della Uiltucs dopo una serie di scioperi contro i licenziamenti e il mancato rispetto del CCLN)
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Immagine liberamente tratta da www.vivonapoli.it