Sin dalle prime righe si percepisce subito che si ha a che fare con un nostalgico del liberalismo classico, secondo cui «l’ideologia neoliberale ha sostituito il liberalismo correttamente inteso»1. Ecco che si giunge subito al primo autoinganno dei liberali, cioè all’analisi delle conseguenze, dimenticando le cause. Infatti, il florilegio di affermazioni contrarie al capitalismo finanziario degli anni Ottanta, colpevole di aver tramutato il buon ordine liberale internazionale nell’orrido ordine neoliberale globale odierno, non sono sorrette da una solida analisi economica di ciò che spinse il duo Thatcher-Reagan a iniziare quel percorso fatto di liberalizzazioni, privatizzazioni, tagli al welfare e smantellamento delle tutele lavorative per rimodellare il mercato rendendolo consono ad un modello di accumulazione sempre più sclerotizzato.
L’unica ammissione che viene fatta è in merito al presunto bilanciamento, mal riuscito, che il liberalismo classico avrebbe dovuto realizzare tra mercato e democrazia. Un bilanciamento che per stessa ammissione di Parsi è stato realizzato a tutto vantaggio del mercato, e questo già durante l’ordine liberale internazionale.
La domanda che sorge spontanea è: che gliene cale ai comunisti delle garanzie di un simil ordine? La garanzia di finir disoccupato e di ritrovarsi a gestire il proprio tempo libero anziché il salario è a portata di ogni catena che ognun di noi ha al collo, di sicuro i liberali non l’hanno mai spezzata, anzi. Così, proprio il presunto “compromesso tra democrazia e mercato” risulta essere l’artificio retorico che tutti i comunisti han sempre denunciato. E il Parsi arriva a lasciarselo scappare, quando nel descrivere il passaggio dall’ordine liberale a quello neoliberale, ammette con candore che tale compromesso nella “periferia” dell’ordine liberale internazionale non è mai esistito.
Dunque di cosa stiamo parlando? Di pura retorica di chi cerca di accreditare un’ideologia morta già nel Novecento, sostenendo che c’è stata una perdita di valori o poco più, ma che il principio fondante resta valido ancor oggi. In realtà il passaggio all’ordine neoliberale globale è la semplice estensione delle condizioni della vecchia periferia anche al centro e lo ammette lo stesso Parsi, quando afferma che: «una tensione tra la dimensione politica e quella economica del liberalismo era presente in nuce fin dalle premesse (…) Questo implica che l’ideale liberale cosmopolita di rendere sempre meno rilevante la valenza partitoria dei confini statali così riducendo la ricorrenza della guerra attraverso la diffusione delle istituzioni democratiche e del libero commercio, era in realtà fin dall’inizio piegato a un compromesso di natura “realista”. Un compromesso in cui ciò che veniva sacrificato era il sostegno alla democratizzazione, mentre l’apertura alla penetrazione economica di tutti i possibili spazi politici - fossero anche governati da regimi autoritari, purché non comunisti - rappresentava il vero punto irrinunciabile della proposta liberale. Se questo era dunque chiaro in periferia, all’interno dell’Occidente, invece, occorse attendere gli anni Ottanta e la fine della Guerra Fredda, perché il compromesso tra democrazia e mercato venisse fatto saltare a vantaggio del secondo e a detrimento della prima»2.
Insomma, i Colpi di Stato i liberali li facevano nella periferia, ma da Pinochet in poi è stato un gran piacere farli anche nell’Occidente sviluppato. Basterebbe già questo inciampo per smontare l’intero volume del novello Rostow italiano, però proviamo ad addentrarci nelle varie osservazioni che vengono poste al deficitario ordine neoliberale. Le fantomatiche promesse mancate che hanno «dirottato l’ordine internazionale liberale» sono: la promessa di un mondo più sicuro, venuta meno con il dilagare delle neoguerre unilaterali e asimmetriche; la promessa di un mondo più giusto ridotta alla produzione e all’esportazione dello “Stato minimo” e la promessa di un mondo più ricco per tutti sottoposta alle catastrofiche conseguenze della crisi economica del 2007.
Inutile ricordare ai liberali che quella crisi ha origini ben più radicate nel nostro modo di produzione, perché da quell’orecchio non ci sentono da oltre un secolo e non hanno di certo intenzione di iniziare oggi. La polarizzazione delle ricchezze, a cui Thatcher e Reagan cercarono già al loro tempo di farvi fronte, è una dinamica che attraversa il nostro modo di produzione creando sempre più crisi economico-sociali destabilizzanti.
I liberali come Parsi che si dilettano a citare Gramsci per spiegare la crisi egemonica dell’Occidente, potrebbero anche provare a studiare Marx. La descrizione del declino della potenza egemone, divenuta secondo Parsi una vera e propria «potenza revisionista» è qualcosa di estremamente fazioso, poiché tale conclusione è sorretta dalla convinzione che la Storia avanzi indefessamente verso il progresso capitalistico, per cui in realtà il progetto trumpiano sarebbe un «impossibile sogno neoisolazionista, antistorico e non perseguibile, poiché non esistono alleati e rivali ma solo, indistintamente, stranieri (aliens) e concorrenti sleali».
Nulla di più antiscientifico, in realtà. La Storia non ha inscritto in sé alcun percorso lineare verso alcuna meta. Se «per la prima volta nella storia moderna degli Stati Uniti, alla Casa Bianca siede un presidente diffidente rispetto alla tradizionale politica di apertura dei mercati internazionali»3, non sarà certo per l’antistoricità che si fermerà. Allo stesso modo l’ascesa di due Stati autoritari (secondo i canoni liberali) quali Russia e Cina non frenerà certamente perché il loro modello di politiche pubbliche non aggrada agli occidentali, anzi come dice giustamente Parsi «la Cina, rispetto alla vecchia Unione Sovietica, ha la chance di proporre un “nuovo ordine”»4 e non se la lascerà certamente sfuggire avendo cavalcato meglio di tutti già l’ordine neoliberale globale. La vicenda nord-coreana ha rivelato che scenari inediti e alleanze inaspettate si stagliano al nostro orizzonte.
Un ultimo punto trattato dal saggio non è assolutamente trascurabile e riguarda il tema post-democratico di un Occidente stretto nella morsa tra tecnocrazia e populismo e un’Europa in piena crisi. Se è vero che la deriva post-democratica non è «conseguenza della “crisi economica” ma della direzione presa dall’economia di mercato nel corso degli ultimi trent’anni»5, non è detto che dalle degenerazioni non possa nascere una risposta valida per la democrazia.
L’allontanamento delle masse dalla politica è coincisa con l’ascesa delle oligarchie che hanno instaurato un ordine tecnocratico al quale si tenta di rispondere con il populismo. Come descrive bene Parsi, «l’ammaloramento della democrazia» ha creato due poli: quello del populismo identitario e sovranista e quello dell’oligarchia apolide e tecnocratica. Bene, con il populismo le masse descritte nelle definizioni della post-democrazia come apatiche hanno iniziato a muoversi, scegliendo di sedersi dalla parte del torto in reazione ad un potere che stava procedendo per inerzia verso l’oligarchia tecnocratica.
La Storia in qualche modo sta virando, probabilmente non nella direzione auspicata dall’élite intellettuale, ma sta comunque prendendo una nuova direzione che non ha nulla a che vedere con le torri d’avorio e la tecnocrazia.
Si salverà l’Europa? Difficilmente lo farà seguendo la strada del liberalismo classico auspicata da Parsi, per cui i concetti di solidarietà e cittadinanza verranno inevitabilmente svuotati dalla spinta vorace dell’accumulazione capitalistica a polarizzare le ricchezze. Si può invece cercare di invertire la rotta intrapresa verso lo Stato minimo, tornando a rinvigorire la domanda interna senza cannibalizzare i mercati esteri. Per farlo occorre intessere alleanze con questi mercati e lavorare al fine di rilocalizzare la produzione e redistribuire la ricchezza.
1 V. E. Parsi, Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale, Il Mulino, Bologna, 2018
2 Ivi, p. 19
3 Ivi, p. 155
4 Ivi, pp. 111 - 112
5 Ivi, p. 173
Immagine di copertina (Constantin Meunier, La rimozione del crogiolo spezzato) liberamente ripresa da wikimedia.org