Per entrare nel merito è necessario, per chiunque non sia per studi addentro alla materia giuridica, l'aiuto del già citato materiale di tipo scientifico e parascientifico. Tra la tanta pubblicistica di ottimo livello prodotta dall'”indotto” del referendum costituzionale merita sicuramente una menzione il numero 4/2016 della rivista “il Mulino”, significativamente intitolato “sì/no: un voto decisivo”. Quasi tutte le analisi mostrano una certa convergenza bipartisan nel sottolineare le inveterate storture dell'attuale configurazione delle istituzioni, dall'inutile farraginosità connaturata al bicameralismo perfetto al continuo contenzioso Stato-Regioni, rinfocolato dai maldestri tentativi di riforma del titolo V portati avanti dai governi di inizio millennio. Sono problemi reali, che meritano una soluzione in tempi rapidi, e che chiunque non sia disperatamente conservatore non può negare.
Ciò che non convince però sono le ricette proposte dai fautori del “sì” per superarli, più o meno contenute o adombrate nella “riforma Boschi”. Andando con ordine, non si capisce prima di tutto perché non fosse possibile superare con nettezza il bicameralismo in direzione di un sistema monocamerale che salvasse la Camera dei Deputati con gli aggiustamenti di funzioni e composizione del caso abolendo in toto il Senato, e in cosa il modello disegnato dalla “riforma Boschi”, con un Senato depauperato e composto da nominati blandamente collegati coi poteri locali che fronteggia l'unica Camera realmente rappresentativa in una miriade di casi complessi, sia migliore di un monocameralismo compiuto. Si risponde che conservando un'impalcatura regionale, con poteri locali investiti di un ruolo propriamente politico, una soluzione monocamerale senza rappresentanza territoriale risulta impossibile (è la tesi del prof. Ceccanti nel suo articolo per il numero de “il Mulino” citato sopra); obiezione senz'altro sensata ma scarsamente coerente con la realtà della “riforma Boschi”: in che direzione vuole andare infatti il legislatore quando con una mano crea il “Senato delle autonomie” e dall'altra elimina la potestà legislativa concorrente e riassegna allo Stato la maggior parte delle risultanti competenze esclusive, in un quadro di stretto pareggio di bilancio? Ovvero, di che “autonomia” godono le “autonomie” che a parole si vogliono salvaguardare nel nuovo Senato?
Se è certamente vero che un organo deputato alla rappresentanza degli interessi dei poteri locali esiste in ogni stato decentrato (il Bundesrat nella Repubblica Federale Tedesca e in Austria, per esempio) e che in astratto l'obiettivo di dare più voce alle Regioni e alle Province Autonome è nobile e condivisibile, è anche evidente altresì che l'Italia dopo la riforma sarà uno stato decentrato solo nominalmente, e che i nuovi Senatori più che delle smunte “autonomie” post-riforma finirebbero per essere fatalmente rappresentanti della nostra svalutatissima congerie partitica e dell'autonomia delle rispettive men che democratiche segreterie. (Chissà poi che è stato della proposta ultracentralista di accorpamento delle regioni in obbrobriose “macroaree” che per un periodo aveva goduto di una certa considerazione negli ambienti di governo; il lettore sia libero di pensare a una futuribile combinazione monstre con la “riforma Boschi”.)
Si parlava del contenzioso centro-Regioni. La potestà concorrente è stata accusata, con una certa dose di ingiustizia, di essere causa dello stillicidio di ricorsi Stato contro Regioni e Regioni contro Stato davanti alla Corte costituzionale. Un problema, abbiamo già detto, comunque reale e meritevole di soluzione. Ma anche in questo caso non si capisce la necessità del riformatore di mettere in campo un disegno così fortemente caratterizzato in senso neocentralista, tale da prevedere oltre a ciò che abbiamo già visto sopra anche un non meglio precisato potere di intervento statale anche nelle materie di interesse regionale esclusivo. Una ripartizione meno pasticciata dell'attuale si sarebbe potuta ottenere con modifiche più puntuali, fermo restando che una soluzione al contenzioso dovrà passare anche e più da un miglioramento dei rapporti istituzionali nel senso del mutuo rispetto e della condivisione dei principi e degli obiettivi tra “centro” e “periferia”.
La valutazione finale è negativa, ma non “a priori”. Sbagliano strategicamente quei sostenitori del “no” che insistono sulla bontà e sull'intoccabilità dell'architettura istituzionale attuale, e che cercano nel cavillo tecnico e in improbabili statistiche comparative conforto per le proprie tesi. Quello di cui l'Italia ha bisogno è una discussione e una proposta credibile e a tutto campo, da parte di forze politiche serie che non si ritraggano nell'impotenza della conservazione dell'esistente, ma che sappiano pure distinguere le buone riforme dalle cattive. Altrimenti ci si potrà solo affidare alla lotteria del referendum, con la regressione al plebiscito dietro l'angolo.