Quanto all’errore di prospettiva, più volte, in occasione di crisi del sistema Italia (e in particolare: 1992-94 e 2011-13) i cittadini e, fatto più grave, le forze politiche hanno evitato di affrontare una nitida analisi storica e si sono limitati a credere, o meglio a illudersi, che il problema risiedesse nelle istituzioni. Le crisi politiche, le crisi istituzionali, le crisi morali, derivano non dal testo della Costituzione ma piuttosto da cattivi costumi operanti nel Paese reale.
Il prof. Zagrebelsky ha correttamente messo in luce, nel confronto televisivo con il Presidente del Consiglio, che la frammentazione politica e la farragine legislativa sono espressione non dell’impalcatura istituzionale bensì di alcuni costumi storici del popolo italiano. Un’analoga opinione è stata espressa sul Financial Times dall’editorialista Tony Barber (leggi qui)
Entrambi hanno però cautamente evitato di avanzare suggerimenti su come questi mali storici possano essere superati. O forse non lo hanno fatto perché ritengono che l’Italia sia condannata a restare per sempre prigioniera dei suoi mali originari; sia condannata a restare, per usare un termine semanticamente all’altezza di una simile concezione, “sfigata”. Tale presa d’atto tradirebbe nel prof. Zagrebelsky un elitario snobismo intellettualistico e, in Tony Barber, viete teorie razziste sull’inferiorità e l’impossibilità genetica di sviluppo dei popoli mediterranei.
Ebbene, i mali storici che l’Italia sconta da secoli – il “particulare” guicciardiniano, l’odio anti-Stato, il masaniellismo che chiama “rivoluzione” la mera agitazione plebea, il familismo amorale, il populismo che intende risolvere “magicamente” i contrasti sociali e di classe, il risentimento piccolo-borghese: in una definizione unica, il distacco tra i cittadini e lo Stato – si aiuta a indirizzarli sulla via della risoluzione, o se non altro a lenirli, proprio con la riforma Boschi. Vediamo perché.
I precedenti progetti di riforma costituzionale, limitandoci alla “Seconda repubblica”, prevedevano tutti l’ampliamento, nelle forme le più varie, dei poteri dell’esecutivo. La prima proposta fu concordata nel 1997 a casa di Gianni Letta, ex direttore de “Il Tempo” e dirigente Fininvest, da quattro contraenti: Silvio Berlusconi, miliardario, oligopolista della televisione, presidente di Forza Italia; Massimo D’Alema, segretario del Pds e Presidente della Commissione Bicamerale per le riforme; Gianfranco Fini, segretario di An e prima del Msi; Franco Marini, segretario del Ppi.
Tale riforma prevedeva l’elezione diretta del Capo dello Stato per un mandato di sei anni con possibilità di doppio mandato. Il Governo, per parte sua, non necessitava all’insediamento di una iniziale fiducia della Camera, che veniva data per “presunta”.
La riforma, come si ricorda, fallì quando Berlusconi si tirò indietro improvvisamente. Il fine di D’Alema e Marini di indebolire e isolare il Governo Prodi fu comunque raggiunto con la caduta dell’esecutivo l’anno seguente.
Nel 2005 la riforma approvata dal Parlamento a maggioranza di centrodestra vedeva il Primo ministro nominare e revocare i ministri, determinarne l’attività e detenere il potere di scioglimento della Camera. Le sorti di questa erano subordinate a quelle del Primo ministro, tanto che la Camera sarebbe stata sciolta automaticamente se nella sfiducia al Primo ministro fossero stati determinanti i voti di deputati eletti con la maggioranza; la sfiducia al Governo, inoltre, doveva essere “costruttiva”, cioè proporre al contempo un nuovo nome per la guida dell’esecutivo.
Ora, nessuna di queste formule si ritrova nella riforma Boschi.
L’esecutivo viene non rafforzato, ma piuttosto stabilizzato, e indirettamente, tramite la rescissione del rapporto fiduciario con il Senato e la possibilità di chiedere alla Camera un esame preferenziale di ddl considerati essenziali per l’attività di Governo.
Come proclamato dagli estensori e sostenitori parlamentari della riforma, a un Governo più forte deve corrispondere un Parlamento più forte. Le garanzie parlamentari risultano infatti aumentate tramite lo Statuto delle opposizioni, l’innalzamento del quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica e la divisione tra Camera (tre) e Senato (due) dei cinque giudici costituzionali di elezione parlamentare.
L’elezione del Capo dello Stato è una buona pietra di paragone rispetto alla Costituzione vigente. I quorum stabiliti dalla Costituente (due terzi dei componenti, poi dal quarto scrutinio la maggioranza assoluta) impedivano ad una singola forza politica di controllare il Quirinale in un impianto elettorale che si sapeva proporzionale. Dopo la riforma elettorale maggioritaria del 1993 soltanto la fortuna (o, in senso neutro, il caso) ha impedito di avere come Presidente della Repubblica un uomo deciso da Berlusconi, o Berlusconi stesso: casualmente, la coalizione di Berlusconi non ha mai controllato la maggioranza dei seggi nelle occasioni di rinnovo della massima magistratura. E se nel 1999, nel 2013 e in parte nel 2015 l’elezione è stata trasversalmente condivisa tra i principali partiti, nel 2006 la maggioranza uscita in aprile vincitrice dalle elezioni scelse in piena autonomia il Capo dello Stato a maggio.
Nella riforma Boschi il quorum dal quarto scrutinio viene innalzato a tre quinti dei componenti, scendendo a tre quinti dei votanti dal settimo scrutinio. Poiché i tre quinti di 630 deputati e 100 senatori equivalgono a 438 voti, e poiché l’Italicum assegna non oltre i 340 seggi al vincitore delle elezioni, escludendo defezioni le forze di maggioranza potrebbero eleggere il Capo dello Stato solo controllando almeno 98 senatori su 100. Fatto alquanto implausibile: 5 senatori sono di facoltativa nomina presidenziale mentre i restanti 95 sono eletti dai Consigli regionali, le cui composizioni politiche sono eterogenee (solitamente, la maggioranza politica in Veneto non è la stessa della Toscana).
Accanto a queste maggiori garanzie istituzionali vi è anche una promozione della democrazia partecipativa e diretta, tramite la facilitazione del quorum per i referendum abrogativi, l’introduzione del referendum propositivo e di indirizzo, l’obbligo per il Parlamento di discutere le leggi di iniziativa popolare.
Per tutte queste ragioni ritengo la riforma Boschi la realizzazione di quanto chiesto nel 1946-47 dalle sinistre (Psi, Pci e sinistra Dc), come del resto si può ampiamente rinvenire negli interventi di uomini come Terracini e Dossetti anche a distanza di decenni dalla promulgazione della Carta. In questo Renzi e Napolitano non errano a dire che la riforma è attesa da settant’anni.
Ma, in realtà, la posta in gioco non è solo questa.
Le elezioni europee del 2014 sono state un momento eccezionale nella storia del Paese poiché, col 41% del Pd, una forza di sinistra ha per la prima volta superato non solo il 34% del Pci del 1976 ma anche il 39% congiunto di Psi (saragattiani compresi) e Pci nel 1946. Questo capitale è stato impiegato dalla dirigenza del Pd per procedere a numerose riforme lungo la via togliattiana. Il più alto e il più esplicito collegamento a Togliatti fu riconosciuto da Renzi proprio sulla Costituzione, quando all’Assemblea nazionale del Pd a febbraio scorso egli rivendicò: «Noi abbiamo introdotto il lavoro nell’articolo 1». Ma è anche troppo noto che fin dall’estromissione dei bordighisti dalla guida del Partito nel 1926 la dirigenza comunista è stata accusata, dalla sinistra interna e talvolta da una consistente fetta della base, di deviare dalla via rivoluzionaria o addirittura di tradimento. Per limitarci alla storia del Pci basti ricordare tutte le scelte politiche di fondo: la svolta di Salerno, l’amnistia Togliatti, il congresso del 1956, il compromesso storico.
Ora, tutta l’azione politica del Pci è stata improntata alle riflessioni sviluppate da Gramsci prima e durante il carcere: alle sue disamine sugli incompiuti e le fratture nella storia d’Italia, ai compiti che egli attribuiva al partito nel superamento di tali arretratezze. Il partito è visto da Gramsci come il “moderno Principe” che, quattro (oggi cinque) secoli dopo Machiavelli è chiamato a estrinsecare la volontà collettiva come elemento razionale della storia. Le arretratezze da risolvere, del resto, sono le medesime rilevate Zagrebelsky e Barber, seppure essi le rilevino opacamente e non vi vedano via d’uscita non avendo alcun elemento di analisi marxista.
Proprio la riforma Boschi costituisce un grande passo per affermare l’azione politica del moderno Principe evocato da Gramsci e per dare fondamento all’egemonia della sinistra sull’Italia. Questo è evidente anche nel fatto che la riforma contiene alcuni punti singoli da sempre sbandierati dai partiti di destra: una maggiore rapidità nella discussione parlamentare (Forza Italia), una Camera delle autonomie e delle rappresentanze locali (Lega Nord), la diminuzione dei parlamentari e l’abolizione dei senatori a vita di nomina presidenziale (Movimento 5 Stelle).
Ora, il varare una riforma costituzionale che realizza dopo settant’anni un massiccio spostamento a sinistra dell’edificio istituzionale, addirittura fagocitando le proposte di destra e inscrivendole in un quadro appunto progressista, è segno di un grande potenziale egemonico sul Paese.
Massimo Recalcati definì la figura di Renzi come la possibile alleanza tra Legge e desiderio. Nella storia d’Italia il desiderio è ciò che quotidianamente si manifesta nella società civile; sono le pulsioni particolari, disgregatrici, anti-collettive, egoiste, che anche prima del M5S e di Tangentopoli hanno fluito sotterranee e corroso le basi civili e sociali del Paese. Queste pulsioni sono state le genitrici del fascismo, del craxismo, del leghismo, del berlusconismo e in ultimo del grillismo. A esse si è piegata la Dc per ottenere un consenso elettorale facile, fatto di clientele e di spesa pubblica emorragica e improduttiva. La Legge, invece, rappresenta il compimento, o quantomeno l’obiettivo, del lungo processo che tramite Risorgimento, lotte sociali, Resistenza e Repubblica ha inteso superare la divisione e l’inorganicità della nazione italiana.
Giolitti ebbe a paragonare l’Italia a un uomo gobbo e i governi al sarto che, per cucire l’abito al gobbo, debbono cucirgli la gobba. Successivamente le sinistre hanno piuttosto operato come gli ortopedici, che tramite un busto costringono il gobbo alla posizione eretta. Renzi ha scelto invece una terza via, esemplificata dal motto lanciato nell’aprile 2013: “cambiare l’Italia, non gli italiani”. In questo caso il gobbo viene condotto a guarire sospendendogli sopra la testa un premio gradito, e portandolo quindi a drizzare il capo e le spalle. Nel referendum costituzionale il premio gradito al gobbo è il risparmio dei costi della politica, l’abolizione del Cnel, la riduzione del numero dei senatori. Se la strategia di Renzi avrà successo, il gobbo sarà condotto a drizzare la testa e ad approvare una Costituzione più avanzata rispetto a quella del 1948.
Del resto la scelta non è più, e forse non lo è mai stata, tra la Costituzione vigente e quella ex riforma Boschi. L’alternativa a quest’ultima non è lo status quo ante, bensì la Costituzione di Grillo e Salvini, la quale prevede, secondo le dichiarazioni dei due leader: l’abolizione dei partiti politici, l’introduzione del vincolo di mandato per i parlamentari, la possibilità di referendum sui trattati internazionali, l’elezione diretta del Presidente della Repubblica.
La realizzazione, insomma, del sogno di Orbán e del Movimento Sociale Italiano.
Non è infatti un mistero che a raccogliere i frutti di un eventuale No saranno le forze di estrema destra, che odiano l’Europa perché, come Orbán e il Msi, vogliono il ritorno all’Europa delle frontiere armate e dei rastrellamenti.
Vi sono dunque, in estrema sintesi, due ottime ragioni per votare Sì: la prima è progredire rispetto alla Costituzione del 1948; la seconda è non arretrare.