Giovedì, 10 Agosto 2017 00:00

Dieci anni di crisi

Scritto da
Vota questo articolo
(4 Voti)

Nel luglio 1979 l’allora Presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, tenne un discorso alla nazione in cui parlò della “crisi di fiducia” che stava colpendo il Paese.

Alla chiusura degli anni Settanta, con la sconfitta in Vietnam, lo scandalo Watergate, due shock petroliferi (di cui il secondo in pieno svolgimento), gli Stati Uniti vedevano appannarsi non soltanto la propria proiezione imperiale ma anche il nerbo industriale che da decenni nutriva il sogno americano. Quel sogno si era già deformato in un grottesco incubo: «L’identità umana», ammonì Carter, «non è più definita da ciò che uno fa, ma da ciò che uno ha. Ma abbiamo scoperto che avere cose e consumare cose non soddisfa il nostro desiderio di significato».

La differenza con gli anni Sessanta, pure costellati di turbolenze, di rivolgimenti e di omicidii politici, era che adesso anche il meccanismo accrescitivo si era interrotto. Carter sembrava aver capito che tale interruzione era tutt’altro che temporanea, e intuito quindi la necessità di ripensare strutturalmente il modello economico e sociale e gli stili di vita.

Le sue parole riecheggiavano le analisi dei Francofortesi su un capitalismo che creava bisogni fittizi per plasmare le masse, produceva i beni di consumo che dovevano soddisfare tali bisogni, ma era in grado di rispondere solo alle domande quantitative, e non a quelle qualitative che lo sfruttamento inevitabilmente determina. Purtroppo per lui e per noi il popolo americano non si dimostrò disposto a condividere il progetto di un ripiegamento quantitativo: nel 1980 Carter fu sonoramente sconfitto da Ronald Reagan, che inaugurò un’era improntata a un nuovo pericoloso sogno basato sull’intreccio tra imperialismo e consumismo. Nella variante reaganiana a questi due ingredienti se ne aggiungeva un terzo, fondamentale: lo strapotere delle forze di mercato e l’arretramento di qualsiasi velleità regolatrice da parte dello Stato.

Come tutte le truffe di successo, anche il reaganismo ha dato inizialmente l’illusione di pagare i suoi dividendi: il blocco capitalista spazzò via il socialismo dall’Europa e vinse la guerra fredda, aprendo enormi praterie di mercato che negli anni Novanta furono la calamita della globalizzazione. Anche grazie a un oggettivo progresso tecnologico, fondato sullo sviluppo dell’informatica e sulla diffusione della rete Internet, i crescenti profitti e l’apparente sconfitta del movimento storico dei lavoratori dettarono la linea a tutto lo spettro politico.

Come ha ricordato Pier Luigi Bersani con una punta di nostalgia, traducendo a suo modo la metafora della trickle-down economics, la globalizzazione di allora fu «la marea che faceva venir su tutte le barche» (presumendo evidentemente che anche la barca del lavoro sia stata tirata a galla, e non a fondo, dalle ondate di delocalizzazioni e deregolamentazioni). Questa crescita drogata, imperniata sul settore finanziario e sui servizi, slegata da concreti aumenti di produttività reale, si fondava su due possenti egoismi privati: il primo, quello del profitto, storicamente disposto ai più orrendi crimini (la schiavitù, il fascismo, la devastazione ambientale); il secondo, quello del consumo, attirato dalle luci della città.

Il percorso che ha portato molti entusiasti consumatori reaganiani alla rivolta bestiale degli ultimi anni non è dissimile da quello che nelle metropoli conduce molti giovani sbandati al terrorismo: come rilevò molti anni fa Paco Ignacio Taibo II, «bin Laden non è in Afghanistan; bin Laden è a Burbank [la capitale dell’industria pornografica]».

La crisi del 2007-08 ha fatto crollare il castello di carte che doveva reggere profitti privati troppo pesanti (anche quelli dei creditori subprime erano enormi in proporzione alla loro solvibilità!). E sebbene da questa crisi di ristrutturazione siano emerse occasioni di riaffermare la funzione sociale dello Stato e la tutela della dignità del lavoro, i movimenti di superficie sono stati per ora ben più favorevoli alle destre. Il fatto che in Europa i movimenti fascisti e antisistema abbiano prosperato soprattutto dopo la fine della crisi dei debiti sovrani è assai emblematico di quanto iniquamente sia stata distribuita la crescita economica (quale che fosse la sua entità nei singoli Stati).

Ma in questi dieci anni di crisi si sono sviluppati nuovi attori del processo sociale; minacciosi giganti che sono usciti dalla culla e si trovano ora ad amministrare masse di capitali pari al Pil di una potenza regionale di media grandezza. Si tratta dei giganti della Silicon Valley, per niente scalfiti dalla crisi: Apple, Amazon, Google, Facebook e Netflix. Il loro fatturato aggregato è passato dai 57 miliardi di dollari del 2007 ai 478 miliardi del 2016. Ma l’influenza di questi colossi va ben oltre il loro peso economico, pur stravolgente.

A novembre 2015 la dichiarazione di Renzi sulla necessità di «taggare» i sospettati di terrorismo fu accolta o con deridente scetticismo o con una scandalizzata levata di scudi in difesa della privacy. Nessuno, chiaramente, pose mente all’immensa montagna di informazioni personali che si trova attualmente nelle mani delle gigantesche imprese private della Silicon Valley. Le quali non solo, a differenza dello Stato, non hanno alcun compito di preservare la sicurezza dei cittadini, ma anzi sono in grado di impiegare quelle informazioni per orientare i consumi, a partire da quelli culturali.

Già in Marx si trovano riflessioni sulla duplice natura dello Stato: da un lato, strumento di repressione in nome della classe dominante; dall’altro, grazie alle organizzazioni burocratiche di cui deve necessariamente dotarsi, in grado di conseguire margini di autonomia rispetto allo scontro sociale. Il ritiro dello Stato dall’intervento in economia ha significato, dagli anni Ottanta, un graduale allontanamento dalla seconda condizione per ritornare alla prima, quella che ha ispirato il capitalismo selvaggio della Prima rivoluzione industriale. Q

uesto riorientamento sta raggiungendo nuove tappe con la Presidenza Trump e le sue intenzioni di fare terra bruciata di qualsiasi regolamentazione, stracciando gli accordi sul clima come la riforma finanziaria Dodd-Frank. Ma negli ultimi mesi sempre più voci si stanno addensando sulle ambizioni presidenziali di un altro miliardario americano: il padre di Facebook, Mark Zuckerberg, che ha assunto ex consulenti di Obama e Clinton e sta battendo i vari stati dell’Unione. Potrebbe candidarsi come indipendente, ma viene considerato di sinistra per le sue posizioni sui temi civili. Del resto, fu proprio dai dipendenti della Silicon Valley che provennero le maggiori donazioni private per la campagna di Sanders.

L’eventualità che Zuckerberg – o un uomo come lui, espressione dei grandi gruppi privati che possiedono alta tecnologia e sterminati dati personali – possa arrivare alla direzione del governo è più che pericolosa. Da anni tali gruppi costruiscono l’infrastruttura tecnologica nei Paesi in via di sviluppo e mappano il pianeta con i propri strumenti di rilevazione. Il loro arrivo al potere costituirebbe un passo in avanti nei rapporti tra Stato e grande capitale, con il primo che diventerebbe una mera succursale del secondo. Il “complesso militare-industriale” che Eisenhower descriveva come una minaccia per la libertà (non meno, sottintendeva, dell’Unione Sovietica) rischia oggi di essere un complesso “informativo-repressivo” che, come e più che nella distopia di Huxley, riproduce in serie l’uomo a sua immagine e somiglianza.

«Nessun centralismo fascista», scriveva Pasolini nel 1973, «è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi»: ma le due rivoluzioni di allora, quella delle infrastrutture e quella delle informazioni, oggi sono fuse in un unico; l’omologazione distruttrice, l’edonismo nemico dell’umanesimo, sono stati spinti dalle reti informatiche a livelli sempre più vertiginosi. Certo, l’introduzione di nuovi mezzi di comunicazione e il controllo da parte dei gruppi dominanti di quali informazioni possono essere ricercate e quali no, quali possono essere fruite e quali no, quali possono essere divulgate e quali no: tutto questo non è affatto nuovo nella storia dell’uomo. Ma nuove sono la potenza e la pervasività sociale. Possono essere controllate?; possono le loro potenzialità di progresso essere messe al servizio della comunità? Certamente, ma ciò richiede di invertire la direzione dei rapporti Stato-privato. E, ovviamente, lo Stato in questione deve avere la forza per controllare la controparte, invece di esserne controllato.

L’Irlanda, che si oppone alla restituzione da parte di Apple di 13 miliardi di euro di tasse non pagate, è evidentemente un nano in questa competizione. Un nano che non si fa riserbo di offrire alle multinazionali manodopera qualificata a basso costo. L’Unione Europea, invece, che ha imposto tale multa ad Apple, potrebbe essere un attore competitivo con i colossi privati; posto che, oltre che scrivere le multe, consegua anche il potere di farle pagare. Nella popolazione occidentale ci sono oggi due categorie di persone che inseguono un impossibile e irrealizzabile miraggio di ritorno al passato. Il primo e più numeroso gruppo sono i consumatori traditi dal reaganismo, i neo-convertiti al trumpismo (i più violenti, come tutti i convertiti), i quali bramano famelicamente il ritorno delle vacche grasse, senza accorgersi che, come nella vecchia canzone di trincea, “il general Cadorna si mangia le bistecche e i poveri soldati le castagne secche”. Il secondo gruppo, che proclama di schierarsi a sinistra, è costituito dai cantori della sovranità nazionale. Il loro paradigma è forse Fassina, il quale, da un lato, esclude il ripetersi dei “Trenta gloriosi” mostrando quindi di condividere il disfattismo verso il futuro tipico delle destre e del grillismo; dall’altro lato, però, chiede il ritorno alle politiche regolatrici statali di quello stesso periodo, pensando forse che, limitando la libertà di movimento dei lavoratori (come richiede D’Attorre), le compassionevoli imprese eviteranno di delocalizzare la produzione all’estero. Entrambi questi gruppi hanno un sogno retrogrado ed entrambi, dunque, servono i reazionari.

Ultima modifica il Mercoledì, 09 Agosto 2017 23:10
Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

Devi effettuare il login per inviare commenti

Free Joomla! template by L.THEME

Questo sito NON utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti.