Giovedì, 13 Giugno 2013 23:51

Le classi sociali e il web

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Intervista a Carlo Formenti a cura di Dmitrij Palagi

1) In apertura al tuo libro “Se questa è democrazia” hai scritto che il sistema dei media ha svolto un ruolo fondamentale nel passaggio dal modo di produzione fordista a quello attuale. Partiamo quindi dal capire in cosa è consistito questo passaggio?
Fino a un recente passato l’economia occidentale si è fondata su un modo di produzione caratterizzato dalla standardizzazione di processi produttivi di tipo meccanico (catene di montaggio e robot), funzionale a un mercato che doveva sfornare beni di consumo durevoli, cioè prodotti di massa standardizzati. Poi c’è stato, in primo luogo, il passaggio a una tecnologia di tipo diverso, quella digitale, che sforna prodotti “personalizzati” (le virgolette sono d’obbligo

perché parliamo in realtà di variazioni minime su modelli predefiniti dal codice informatico) e un mutamento delle gerarchie fra settori produttivi: a trainare la creazione di valore non sono più quelli legati ai beni materiali, bensì quelli che producono servizi innovativi. Si è inoltre prodotto un cambiamento radicale dell’organizzazione del lavoro: all’operaio di massa (decine di migliaia di lavoratori concentrati in grandi fabbriche), è subentrata la fabbrica diffusa controllata dalla rete. Il sistema produttivo si decentra, articolandosi in lunghe catene di subfornitura. Per esempio Google, che è una delle imprese a maggiore capitalizzazione, ha poche migliaia di dipendenti. C’è quindi una diminuzione della forza lavoro concentrata in azienda, e un enorme aumento dei lavoratori che operano all’esterno: vedi la sproporzione tra i pochi dipendenti diretti di Facebook (o di Apple) e le moltitudini che lavorano nelle microimprese che sviluppano applicazioni per le piattaforme di queste e altre società (in compenso le grandi fabbriche risorgono nei paesi in via di sviluppo). Questo modello non caratterizza solo l’industria high tech, ma si sta rapidamente diffondendo in tutti gli altri settori.

2) In Italia come si è sviluppato e che effetti ha prodotto questo cambio di modo di produzione?
Non credo si possa dire che esista una via italiana al postfordismo. Si possono però individuare alcune specificità. I settori tecnologicamente avanzati sono 
relativamente poco sviluppati (non a caso Florida ha rilevato che la nostra “classe creativa” si aggira intorno al 15% della forza lavoro attiva, a fronte del 30% degli altri paesi ricchi europei). Inoltre il 90% del nostro sistema è fatto da piccole e piccolissime imprese non innovative. Il sistema dei distretti produttivi, di cui si ragionava trionfalmente negli anni ’90, ha iniziato ad adottare strutture reticolari solo da poco, e il suo modello fondato sullo sfruttamento di forza lavoro a basso costo è stato duramente penalizzato dalla concorrenza dei Paesi in via di sviluppo. Infine il terziario arretrato prevale su quello avanzato e investe poco sull’innovazione tecnologica. Passando a un altro discorso, abbiamo assistito a una drammatica riduzione della classe 
operaia industriale di tipo tradizionale e dei colletti bianchi che lavoravano nelle grandi imprese. Nel frattempo è cresciuta una enorme pancia costituita da piccoli imprenditori, artigiani e dipendenti di piccole e piccolissime imprese. Questi dipendenti hanno caratteristiche simili rispetto ai loro padroncini, per cui il tasso di conflittualità è relativamente basso perché ci si considera tutti nella stessa barca. Molte di queste realtà sono nate da processi di decentramento produttivo, come le tante piccole imprese fondate da ex capireparto dell’Alfa o della Fiat che arruolavano alcuni loro ex colleghi: nel nord est e nel nord ovest questa è stata la base sociale del successo della Lega: l’appartenenza territoriale ha sostituito l’appartenenza di classe, e i temi del movimento 
operaio hanno lasciato il posto alla “questione settentrionale”.

3) Come si sono modificati invece i mezzi di comunicazione di massa?
Il sistema dei media tradizionali in Italia è ancora forte, anche se i pubblici si stanno differenziando e stratificando per fasce generazionali e, in minor misura, per appartenenze regionali e di genere. Le fasce giovanili si informano quasi esclusivamente attraverso la rete. Non si tratta solo di trasmigrazione dalla lettura dei cartacei alle edizioni online dei quotidiani, ma anche di una modalità diversa di costruire il proprio menù informativo quotidiano. Molti non leggono neanche più le edizioni online dei media tradizionali, ma si informano seguendo i link degli “amici” di Facebook o Twitter che rinviano a singole pagine web. Per quanto riguarda le differenze regionali, va infine ricordato il fatto che l’utenza web è concentrata nei grandi certi urbani, soprattutto del centro nord.

4) Uno studio del Cise ha individuato nel legame tra il mezzo prevalente di informazione e il partito votato una delle chiavi di lettura più efficaci delle elezioni del 24 e 25 febbraio 20132(2). Chi si informa prevalentemente attraverso i quotidiani vota centrosinistra, chi attraverso la televisione centrodestra, chi utilizza il web vota a schiacciante maggioranza Movimento 5 Stelle.
Gli schemi troppo rigidi non mi convincono, tuttavia si tratta di una lettura a grandi linee condivisibile delle tendenze in atto. Ma credo che la cosa più importante da dire riguardi il fatto che viviamo ormai in un regime compiutamente postdemocratico, e non da quando internet ha iniziato a diffondersi come nuovo medium di massa: la crisi della democrazia rappresentativa è un processo già in atto da decenni.

5) Questo però sembra in contraddizione con il mito del web, come tempio della partecipazione. Se si resta al recente passato si dovrebbe riconoscere che 
consenso e fiducia verso l’offerta politica hanno sostituito la partecipazione effettiva.
In un certo senso è così. Anche a causa dei processi di personalizzazione/ spettacolarizzazione della politica: ma occorre precisare che la colpa di tutto ciò non è dei media. Sono stati i partiti i primi a decidere di ritirasi dal territorio e a scegliere i media come terreno strategico del confronto politico. Richiamando la distinzione gramsciana tra propagandisti e agitatori, potremmo dire che i propagandisti (quelli che dicono molte cose a poche persone) hanno perso, mentre gli agitatori (quelli che dicono poche cose a molte persone) hanno vinto. Dal momento in cui i partiti scelgono il terreno dei media, ne devono infatti accettare le regole e sul terreno dei media vince appunto chi riesce a veicolare un messaggio estremamente semplificato a milioni di persone. Il cittadino si trasforma in consumatore-cliente.

6) Le responsabilità dei partiti sono all’ordine del giorno anche tra le polemiche quotidiane. Poco si parla invece della difficoltà che riscontrano le 
forze sociali e politiche nel coinvolgere attivamente i cittadini o anche i lavoratori, almeno dopo il Social Forum di Firenze del 2002.
Ci sono diversi fattori che hanno contribuito a determinare l’attuale situazione. In Italia abbiamo avuto un acme del movimento, cioè Genova 2001, un momento altissimo di scontro e, al tempo stesso, di violentissima repressione. Dopo c’è stato il riflusso: un’intera generazione politica è stata dissuasa dal riprovarci. C’è stata una perdita di coraggio nell’affrontare il confronto diretto con il potere. Alla crisi dei partiti è corrisposta una crescita quantitativa ma non
qualitativa dei movimenti: viola, arancioni, girotondini e quant’altro, mentre i movimenti che hanno superato una determinata soglia di antagonismo sono stati immediatamente repressi.

7) Oltre alla repressione violenta, dopo Genova, c’è stata l’ennesima esperienza di governo di centrosinistra che ha deluso le speranze del paese, senza 
neanche riuscire ad arrivare a fine legislatura.
I partiti di sinistra hanno subito un’ulteriore involuzione, una svolta ancora più moderata. Nel frattempo hanno cominciano a farsi sentire gli effetti di una crisi economica che morde nella carne viva dei cittadini, peggiorandone la qualità della vita e alzando il livello di conflittualità potenziale, anche se questa non trova espressione se non a livello episodico e locale (ed esempio il movimento No Tav).

8) Così si spiega il fenomeno 5 Stelle?
Il Movimento 5 Stelle è il prodotto dell’incontro fra questa rabbia sociale diffusa e latente e il carisma di Grillo. L’innesco originario del fenomeno sta nelle minoranze dei “creativi” italiani che, come dicevo all’inizio, sono caratterizzati da una debolezza quantitativa e una certa ingenuità culturale. Il grande mito della rete è cosa degli anni ’90, tipicamente americana, da noi è sbarcato con grande ritardo, e proprio per questo conserva certi tratti naif (altrove c’è già stato modo di superare l’idea della rete come strumento che sarebbe di per sé in grado di “secernere” democrazia diretta e partecipativa). Uno strato minoritario e attivo di lavoratori autonomi di seconda generazione, privo di luoghi di lavoro in cui potersi riconoscere come classe, ha trovato in internet una inedita opportunità di aggregazione. Quindi, dopo che Grillo si è convertito alla religione del web, novello San Paolo sulla via di Damasco, ha trovato un guru capace di dare voce alla sua rabbia. Nel corso del tempo tuttavia, il movimento è andato al di là di questo stato nascente, ha arruolato strati sociali più ampi e si è trasformato in un fenomeno assai più complesso.

9) Il web come risposta alla richiesta di partecipazione mal si concilia però con quanto abbiamo detto fino ad ora.
Potrei aggiungere che Il Movimento 5 Stelle ha forti analogie con le esperienze di Occupy Wall Street: stessa base sociale (anche se con specificità italiane) e stessa ideologia dell’orizzontalità. L’elemento differenziale è appunto il ruolo del leader carismatico: centrale in Italia, apparentemente assente negli Stati Uniti. Apparentemente, perché come tutti i sociologi sanno, l’ideologia dell’orizzontalità si accompagna sempre a meccanismi di concentrazione di fatto del potere decisionale.

10) Piuttosto che un superamento del ‘900 in avanti, sembra di assistere a un ritorno al passato, a ideologie dove ogni forma organizzativa è percepita come ostacolo. La retorica dell’uguaglianza sul web è un ritorno al passato?
Parlare di ‘900 vuol dire parlare di tutto e del contrario di tutto: in quel secolo ci stanno i soviet russi, i consigli operai tedeschi del ’19, il ’68, la Resistenza. Però ci stanno anche le degenerazioni dei partiti, la loro riduzione ad agenzie elettorali, la svolta liberista della sinistra tradizionale, la conversione dopo l’89 al pensiero unico liberal-liberista. È quest’ultimo che mi interessa superare, mentre bisogna stare attenti a non buttare il bambino con l’acqua sporca quando si ragiona dell’utopia della prima metà del ‘900, con tutte le contraddizioni e gli orrori che l’hanno segnata. Ovviamente non c’è più da rifare il partito di Gramsci, ma non possiamo neanche pensare di costruire un’aggregazione dove tutti i soggetti conflittuali si equivalgono, dove conflitti di classe, diritti sociali e diritti civili, lotte per l’emancipazione femminile e lotte per la difesa dell’ambiente finiscono tutti sullo stesso piano, in un calderone dove ogni gerarchia e priorità viene neutralizzata. Faccio qualche esempio per spiegarmi meglio: In Ecuador la lotta delle lavoratrici domestiche indie per ottenere un salario minimo garantito e il riconoscimento di essere forza lavoro e non “serve”, è stata contrastata dalle deputate femministe di estrema sinistra; in Cina le donne della borghesia emergente urbana, impegnate nelle battaglie per l’ampliamento dei diritti civili, non esprimono alcuna solidarietà nei confronti dello spaventoso sfruttamento (associato a pesanti forme di oppressione di genere) cui sono sottoposte milioni di operaie cinesi immigrate dalle campagne per lavorare in fabbriche-carcere come la Foxconn. Ecco perché credo che vada riscoperta la priorità del conflitto di classe e della lotta per i diritti sociali. Un certo progressismo “politically correct”, così come la rivendicazione prioritaria di bisogni e desideri “immateriali”, che molti dei nuovi movimenti occidentali hanno messo in cima ai loro programmi, si sono rivelati armi formidabili nelle mani del neocapitalismo finanziario e digitale, il quale ha bisogno come ossigeno del fatto che la gente insegua derive desiderabili che si traducono in merci e servizi e quindi in profitti. Dobbiamo tornare a tracciare un chiaro confine amico-nemico, in assenza del quale non si ha lotta di classe: una lezione che va riscoperta e trasmessa con linguaggi innovativi alle nuove generazioni.

11) L’innovazione dei linguaggi appare un’impresa ardua quando si fa persino fatica a trovare, tra le nuove generazioni, chi comprenda la distinzione tra “classe in sé” e “classe per sé”.
La prima cosa da recuperare è il grado zero, la consapevolezza dell’esistenza delle classi in sé come fenomeno sociale oggettivo, reale. La cultura postmoderna ha alimentato l’idea che la classe non esista come realtà in sé, ma solo come prodotto di una narrazione. Si tratta di una lettura perversa del concetto gramsciano di egemonia, in base alla quale si stabilisce l’assunto che solo una narrazione discorsiva possa generare un progetto di trasformazione politica. Si è così smarrita l’esistenza dura e pura della realtà sociale fondata sulla relazione di sfruttamento e dominio.

12) Nel 2009 hai scritto dell’ipotesi del Quinto Stato, oggi sono in molti suggestionati dal possibile ruolo dei lavoratori autonomi di seconda generazione.
Sono stato il primo a evocare il concetto di Quinto Stato (una decina di anni fa avevo addirittura fondato un blog con questo nome) in un momento (siamo alla fine degli anni ‘90) in cui pensavo ancora che la classe creativa avrebbe potuto dare vita a una nuova avanguardia politica capace di allearsi con le altre classi subordinate. Ho già fatto autocritica in merito a tale illusione, perché l’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che non può essere questa una nuova “aristocrazia operaia”.

L'articolo è pubblicato anche sul numero 0 del cartaceo mensile Il Becco (che troverete in PDF gratuitamente sul sito). Abbonarsi (clicca qui per saperne di più) è un modo per sostenere tutte le nostre attività.

Immagine tratta da: http://arte-techne.blogspot.it

Dmitrij Palagi

Nato nel 1988 in Unione Sovietica, subito prima della caduta del Muro. Iscritto a Rifondazione dal 2006, subito prima della sconfitta de "la Sinistra l'Arcobaleno". Laureato in filosofia, un dottorato in corso di Studi Storici, una collaborazione attiva con la storica rivista dei macchinisti "ancora IN MARCIA".

«Vivere in un mondo senza evasione possibile dove non restava che battersi per una evasione impossibile» (Victor Serge)

 

www.orsopalagi.it
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