Fortunatamente esistono giornalisti, scrittori, fotografi, attivisti, ragazzi, persino persone comuni che vi si oppongono degnamente e coraggiosamente. E solo finché esisteranno persone del genere che in primo piano affrontano la mafia a muso duro, e pur temendola non se ne sentono schiacciati, pur odiandola non si rassegnano, possiamo nutrire la speranza che prima o poi, qualcosa cambierà e sarà la gente onesta ad avere la meglio. Probabilmente è un'utopia. Un sogno. Ma solo con i sogni i grandi della nostra storia hanno cambiato il corso di quest'ultima. Oggi durante una delle iniziative della Repubblica delle idee, abbiamo potuto ascoltare la voce di questi scrittori e giornalisti, che con il loro coraggio e la loro “penna” combattono giorno per giorno la criminalità organizzata. Il primo a parlare è stato il giornalista freelance Giovanni Tizian, firma di punta di Narcomafie, oggi costretto a vivere sotto scorta. Giovanni parla di Modena e di quanto anche là, la criminalità organizzata abbia intessuto le sue ragnatele velenose. Eppure non vi sono state indagini, né arresti: sono i giornalisti come lui a scoprire queste trame, questi intrecci tra mafia e politica. Basti pensare all'aumento spropositato di tesserati del PDL affiliati al clan dei Casalesi; o al sindaco che fa promesse al boss della 'ndrangheta modenese. Nonostante però queste prove evidenti la politica del luogo tende a rimuovere il fatto, a non voler accettare questa nera e marcia realtà. Ci sono barriere culturali, resistenze culturali, che niente hanno a che vedere con significato storicamente pregno di valore che la parola “resistenza” reca con te. Qui si tratta di muri inossidabili, impenetrabili che ergono coloro che non vogliono o non possono, accettare il radicamento mafioso nel territorio emiliano, che sia per interesse, per comodità, o che sia per paura, ignoranza, disinformazione o per orgoglio locale. Tizian cita la vicenda di un'azienda appartenente a confindustria che è stata bloccata a causa di infiltrazioni mafiose, che Giovanardi (iscritto a confindustria) sta cercando di salvare portando la battaglia in parlamento.
A prendere la parola è poi Attilio Bolzoni, giornalista di Repubblica, che si occupa di Mafia e Sicilia (nel 1995 ha scritto anche con Giuseppe D'Avanzo “La giustizia è cosa nostra”), che ammette che oggi come oggi è ancor più difficile scrivere di mafia al nord che al sud, proprio a causa di tali resistenze culturali. E ribadisce come i primi a raccontare le storie di mafia siano i giornalisti. Anche la scrittrice Conchita Sannino è di questa opinione: a cominciare da piccole anomalie sono proprio i giornalisti che danno conto del fenomeno della criminalità organizzata e lo fanno per amore del servizio della pubblica e libera informazione, persino nelle più piccole realtà, nei più piccoli paesini arroccati sull'Aspromonte ad esempio vi sono persone che per amore sconfinato per la verità mettono da parte paure e resistenze e cominciano a denunciare ciò che non funziona, cominciano a smascherare intrecci politici, a denudare la faccia politica di piccole o grandi figure istituzionali, cominciano a fotografare e a registrare le piccole e grandi violenze che il sistema mafioso continua sanguinosamente a perpetrare. Citando Sciascia “io vivo la mia vita e scrivo di ciò che vedo”, questo motto sembrano seguire tutti quei giornalisti o scrittori che raccontano la mafia, in tutti i suoi più torbidi aspetti. Riprendendo la questione della criminalità al nord, Sannino sottolinea come ormai soprattutto lassù, i mafiosi siano diventati uomini d'affari, uomini in giacca e cravatta, con la valigetta, e che così vengono percepiti, vale a dire come “normali” imprenditori. Nelle aree più economicamente avanzate la complicità si annida e striscia tra borghesi e professionisti. E non si tratta solo di avvocati penalisti ma anche di altre figure, persino medici. Molti di questi ultimi hanno consentito a grandi boss di poter uscire di galera grazie a certificati di malattia falsi – come il caso di Giuseppe Setola, sanguinario boss del clan camorristico dei casalesi.
Sempre sulla difficoltà a scrivere di Mafia, Tizian cita la vicenda di un suo collega giornalista di Cortone, che ha ricevuto ben 33 querele (tutte vinte) dal parte dei dipendenti del credito sanmarinese, per aver denunciato infiltrazioni criminali nell'azienda. Il procuratore stesso di Bologna, continua Giovanni, ha affermato come sia duro portare avanti indagini sulla mafia in Emilia Romagna perché il bianco si mescola al nero, perché si opera in una zona grigia in cui diventa quasi impossibile distinguere i buoni dai cattivi.
Bolzoni si associa su questo punto dicendo che già nel 1875 Franchetti e Sonnino, giunti in Sicilia per fare un'indagine sulle sue condizioni socioeconomiche descrivevano la nostra terra del sole e delle arance come un “paradiso abitato da diavoli”, e questi diavoli non erano che i facinorosi della classe media e non sono altro che la borghesia mafiosa di oggi. A proposito della sempre maggiore difficoltà di identificazione del criminale Bolzoni cita Letizia Battaglia, fotografa siciliana, che dagli anni '70 al 1992 ha raccontato vicende di mafia immortalando stragi, cadaveri, sangue ecc..la quale oggi si chiede cosa fotografare. I diavoli sono vestiti da angeli e gli angeli non si rivelano che diavoli. Come si può fotografare il rapporto tra mafia e politica? È vero che ancora oggi esiste una “vecchia mafia”, fatta di simbolizzazioni, riti, una mafia che si palesa nelle vicende di violenza più atroce, ma c'è anche una mafia “nuova” più sottile, più subdola, più strisciante e anonima, che lavora sottobanco, che stringe la mano ai politici e che si nasconde dietro le facce apparentemente più pulite, inquinando la nostra imprenditoria e la nostra economia. Una mafia che che guarda alla finanza, ai poteri economici e alle istituzioni politiche. E come raccontarla, immortalarla questa mafia? Conchita suggerisce che un'immagine simbolo della “nuova mafia” potrebbero essere le sconfinate discariche di rifiuti, la cui emergenza diventa un ricco affare, un florido terreno di cultura del potere criminale.
Tizian pensa che sia più semplice raccontare la mafia quotidiana. Aggiunge però che anche il rapporto tra mafia e politica oggi è cambiato, perché sono i mafiosi stessi a considerare inaffidabili i politici. E sottolinea come le cosche veramente potenti oggi siano circa 30-40, il resto è per lo più manovalanza criminale. Un esempio di “mafia moderna” è il clan dei fratelli Giulio e Francesco Lampada che hanno fatto affari nel business dei videogiochi, delle slot machines nel capoluogo lombardo, e il cui miglior amico era il consigliere regionale Franco Morelli (tra l'altro molto vicino ad Alemanno), oggi condannato per concorso esterno per aver ricoperto “il ruolo di collegamento tra i membri del sodalizio e ambienti istituzionali, politici e imprenditoriali”. Proprio sul concorso esterno Tizian sente di dover spendere un paio di battute, criticando il fatto che molti dei personaggi (la maggior parte politici) accusati o condannati di “concorso esterno”, in realtà sono proprio parte di quel sistema criminale, sono membri del clan, veri e propri affiliati e non semplici “concorrenti”. Questa ipocrisia deve essere sradicata, debellata. Anche quando si parla di “trattativa Stato- Mafia”, ci accorgiamo che il nostro linguaggio (la stessa terminologia trattativa risulta paradossale e subdola) è intriso di falsità, di meschinità, di ambiguità, di doppi sensi che nascondono, negano o sminuiscono la gravità e la drammaticità della cosa. Usiamo continuamente termini come “presunta”, “ipotetica”, dimenticando che fin da prima dell'unità d'Italia lo Stato ha sempre “trattato”, fatto accordi, con la Mafia. Il muro di omertà dello stato non si è mai, purtroppo, sgretolato.
Sannino sottoscrive la connessione inestricabile tra mafia e poteri politici e di come oggi sia la politica ad esser succube della criminalità organizzata e si rammarica del fatto che nonostante le denunce, nonostante il lavoro di giornalisti, scrittori, magistrati, alla fine non succede nulla di veramente concreto. E continuiamo ad assistere a vicende di uomini che si candidano a sindaco o che siedono in parlamento che intrattengono stretti e intimi rapporti con i boss. La mafia ha molti volti, vecchia o nuova che sia, tutta è da combattere, ma la vera mucca da mungere è lo Stato. Riguardo ciò la scrittrice riporta le parole di un pentito dei primi anni '90, Carmine Schiavone, il quale in aula, durante il processo Cosentino parlando della trattativa napoletana, dopo aver riferito che i Moccia avevano grandi agganci nella Curia romana e nello Stato, dice così: “Noi pensammo che dovevamo trovare nello Stato la mafia perfetta, che dovevamo avere nello Stato i nostri rappresentanti, e perché no, anche nel Presidente del Consiglio". E abbiamo visto quanto le cose non si siano dimostrate distanti da questa agghiacciante affermazione.
Sicuramente quello che deve rimanere è la speranza, ma è una speranza che deve essere costruita e ri-costruita passo passo, dato che vediamo che anche quando ci sono fatti positivi come la legge sui sequestri dei beni mafiosi, poi in realtà vediamo che tali beni sequestrati non vengono riutilizzati, vengono lasciati marcire, che sia per responsabilità o impotenza e impossibilità dello stato, anche quando le buone intenzioni ci sono. Anche quando lo Stato ci prova, spesso si vede ostacolato dalle grandi banche, che per i loro scopi e interessi personali impediscono il riutilizzo di tali beni. Questo però non deve impedirci di andare avanti, raccontando, scrivendo, gridando, scendendo in piazza. Vivere, per dire, sempre, la verità. Anche quella che ci spaventa. Anche quella che ci fa male. Anche quella che non vorremmo mai venire a sapere.
Immagine tratta da: www.futura.unito.it