Lunedì, 02 Settembre 2013 00:00

La primavera della logistica in Italia

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Di Alex Marsaglia
Articolo uscito sul numero cartaceo di agosto scaricabile in pdf qui

Nella notte tra giovedì 21 e venerdì 22 marzo inizia la lunga mobilitazione dei lavoratori della logistica. Milano, Piacenza, Bologna, Torino, Genova, Padova, Brescia, Verona, Treviso, tutti i più grandi centri logistici del Nord Italia vengono bloccati da uno sciopero dei facchini dal forte carattere etnico (più del 50% sono immigrati) oltre che di classe. I siti interessati dalla mobilitazione sono i nuclei della grande distribuzione legati a multinazionali come l’Ikea, la Coca-Cola, la TNT, la DHL, la GLS e ad altre sigle di portata nazionale quali l’SDA, la Bartolini, l’Esselunga, Coop e Bennet. Le rivendicazioni degli scioperanti organizzati dai sindacati Si Cobas e Adl Cobas abbracciano un ampio spettro di richieste che vanno dalla rivendicazione di maggior democrazia sindacale con il riconoscimento dei sindacati di base nel CCNL, alla tutela dei lavoratori nei cambi d’appalto, passando per la limitazione del subappalto e le otto ore lavorative con pagamento dell’eventuale straordinario, per arrivare al pagamento totale di malattia, infortunio, Tfr, festività e permessi, fino all’aumento salariale uguale per tutti al fine di recuperare l’inflazione.

Tuttavia, la piattaforma di lotta non si limita alle rivendicazioni sindacali, ma si spinge a denunciare il sistema di sfruttamento della manodopera salariata istituzionalizzato dalla politica. La questione travalica il semplice rinnovo contrattuale e diventa una denuncia politica al sistema padronale delle cooperative messo in piedi per dividere la manodopera e avviare l’offensiva padronale su diritti e salari. Gli interlocutori a cui i lavoratori si rivolgono allora diventano direttamente i committenti, mentre i consorzi e le cooperative vengono messi in secondo piano. Identificato il perno del problema nell’impiego massiccio delle cooperative al fine di “ridurre il costo del lavoro”, si cerca di rendere il “lavoratore di serie C” un lavoratore a tutti gli effetti, uguale agli altri, e lo si fa raccordando i percorsi degli altri lavoratori colpiti dallo stesso diabolico sistema: settore delle pulizie (magistralmente descritto dal regista Ken Loach), cantieristica, edilizia, outsourcing industriale, sanità e servizi.

A queste tematiche politiche si aggiunge la scottante questione legata al nodo della cittadinanza, più simile a un giogo per chi, come il lavoratore migrante, è costretto nel limbo di chi deve sottostare ad un contratto di lavoro senza poter usufruire dei diritti della comunità politica del paese in cui lavora. Il quadro attuale della normativa italiana, disciplinato attraverso riforme di carattere restrittivo che prevedono l’innalzamento dei requisiti di residenza, l’introduzione di test d’integrazione e la chiusura alla partecipazione politica, certo non aiuta a rafforzare i diritti del lavoratore e del cittadino, poiché alimenta, invece di frenare, il fenomeno della ghettizzazione che si ripercuote nella società dopo essersi manifestato nei luoghi di produzione.

È proprio a causa dell’attuale normativa che regola il diritto di cittadinanza (legge Bossi-Fini) se continua ad essere applicato dal padronato l’odioso ricatto sul rinnovo del permesso di soggiorno, il quale è a sua volta legato al permesso di lavoro che dovrebbe essere sicuro, sennonché la legislazione sul lavoro - come ben sappiamo - ha marciato in direzione completamente opposta, ossia verso il precariato più feroce. Così assistiamo al paradosso: da una parte (quella padronale) si richiede più flessibilità, mentre dall’altra (quella statale) si vincola l’attribuzione dei diritti di cittadinanza ad un’occupazione stabile e documentabile. Da questo paradosso nascono i ricatti e il facile ribasso sul costo della manodopera, agevolato dal sistema dei subappalti. Inoltre, come ha ben spiegato Gallino nel suo Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità (Laterza, Roma, 2007), il lavoro viene ridotto a merce ed esce dal campo del diritto, per cui il “contratto di soggiorno” previsto dalla Bossi-Fini riduce il ruolo del lavoratore immigrato a semplice fornitore della prestazione fisica lavorativa regolata dal contratto stipulato, al termine del quale è costretto al rimpatrio. Anzi, si postula esplicitamente la temporaneità della presenza straniera laddove si prevede che “la durata del relativo permesso di soggiorno comunque non può superare: in relazione ad uno o più contratti di lavoro stagionali, la durata complessiva di nove mesi; in relazione ad un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, la durata di un anno; in relazione ad un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, la durata di due anni”. È evidente che il raggiungimento dei dieci anni di continuità di residenza e lavoro richiesti dalla legge per accedere ai diritti di cittadinanza restano pura utopia.

Questa situazione viene poi ulteriormente peggiorata dalla “retorica dei sacrifici” che sistematicamente si ripercuote sui lavoratori nelle forme evidenti del caso Granarolo, dove le trattenute del 35% applicate alle buste paga vengono motivate da un inesistente “stato di crisi”. Infatti, il committente Granarolo S.p.A. nel solo 2012 ha aumentato i ricavi dell’8,7%, con un utile netto del 5,5%, ma ha ritenuto di decurtare le buste paga ai propri dipendenti per innescare una lotta al ribasso sui costi della manodopera gestita dalle varie cooperative che hanno in carico lo smistamento logistico dei prodotti Granarolo nella lunga catena degli appalti e subappalti. L’anarchia contrattuale creata appositamente negli ultimi anni fa emergere le similitudini tra caporalato in agricoltura e sistema dei subappalti nell’industria, a tal punto che lo stesso diritto di sciopero è apertamente messo in discussione, come accaduto nei giorni della festa dei lavoratori proprio agli scioperanti della Granarolo.

Giorni vissuti intensamente da questi lavoratori impegnati in una dura lotta: prima investiti ai blocchi, poi beffati dal crumiraggio illegale e infine sospesi per “diffamazione”. Ulteriore esempio della disparità tra utili in aumento per le imprese e riduzione del costo della manodopera è il caso Ikea che dimostra tutti i limiti di una politica integrazionista che spesso si limita alle questioni formali. Ikea nell’anno 2012 presenta un fatturato in crescita al +9,8%, per un totale di oltre 27 miliardi di euro, viceversa la manodopera migrante che lavora per Ikea percepisce paghe che non consentono ai lavoratori il necessario per vivere costringendo spesso chi lavora 12 ore al giorno nei magazzini a rimandare le proprie famiglie indietro.

È il caso di Samir che da 19 anni vive e lavora saltuariamente nei magazzini Ikea costretto a rimandare indietro i propri cari per l’impossibilità materiale all’integrazione. La crescente esternalizzazione e la proliferazione di catene di appalti e subappalti gravitanti attorno all’impresa madre sono caratteristiche del sistema produttivo. L’allungamento della filiera distributiva della merce è la conseguenza di questo processo, rivolto anche all’abbattimento dei tempi di consegna e alla flessibilità della produzione col just in time. La lotta di classe sembra dunque potersi ridestare proprio dall’ultimo anello della filiera :quello del trasporto merci – a ben vedere il medesimo che ha dato il via all’insensatezza del Tav – ossia da quel settore impossibile da delocalizzare. Le legislazioni democratiche incoerenti nell’attribuzione di diritti basilari di cittadinanza, dunque sindacali e sociali, hanno dato indubbiamente il loro contributo ad accendere la lotta. Infine, l’ossessione liberista per la flessibilità della produzione e dell’occupazione ha poi fatto il resto: ingigantendo la macchina logistica e umiliando il lavoro. 

La primavera di lotta del settore logistico ha unito lavoratori di varie religioni ed etnie, ottenendo l’appoggio e la solidarietà dei lavoratori italiani, dimostrando che è possibile riprendere la dialettica tra sfruttatori e sfruttati, tra proletari e padroni. Gli spazi aperti dalla precarizzazione del lavoro anche in settori tipicamente spettanti a italiani e la crisi economica che ha avviato un ciclo lungo di discesa sociale per gli italiani stessi, rendono possibile e auspicabile la ripresa delle lotte unitarie dei lavoratori. Tanto più che la coscienza di classe dei facchini in lotta si è dimostrata decisamente matura oltre le più rosee aspettative. Infatti le pratiche di lotta e solidarietà, anche internazionale, non sono mancate: dal latte Laban boicottato in patria perché prodotto in Italia in condizioni di sfruttamento, all’integrazione nella lotta di operai italiani coinvolti in tutti i modi possibili con campagne di sostegno e solidarietà ai lavoratori dei magazzini Ikea e altre di boicottaggio dei prodotti Granarolo.

Insomma le lotte dei facchini di questa primavera hanno indicato una strada preziosa nell’Italia del razzismo dilagante e dell’anticomunismo viscerale: superare le divisioni e le frammentazioni etniche e culturali per concentrarsi sulla vera divisione che spacca sempre più la società, quella tra sfruttati e sfruttatori. I diritti sono il risultato di rapporti di forza e l’unico modo per rafforzare la miserevole condizione dei diritti in questo paese e avviare un ciclo di riscatto sociale è solidarizzare con chi lotta, contribuendo così a dar voce a nuove esperienze di lotta dal basso da legare in un nuovo ciclo rivendicazioni di più ampia portata.

Immagine tratta da: www.radioblackout.org

Ultima modifica il Domenica, 01 Settembre 2013 16:45
Beccai

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