Nuova legge elettorale: alcune riflessioni e un vademecum da un cittadino normale piuttosto stupito
Un cittadino normale di un paese normale, un cittadino magari non troppo educato sulle complessità tecniche dei sistemi di voto ma armato di buon senso e di un’idea piuttosto basilare di cosa si intenda per democrazia, si immagina che il sistema elettorale serva a costruire un parlamento che sia il più possibile rappresentativo delle diverse idee politiche diffuse nel paese.
Come tutti sanno la legislatura appena dichiarata conclusa era viziata alla base da poca cosa, solamente un vizio di incostituzionalità determinato da una legge elettorale (il Porcellum e l’Italicum, sua rettifica piddina). Che volete che sia? La legge elettorale infondo è solamente quello strumento di importanza vitale per la democrazia che fa discendere i parlamentari dai voti affidati dagli elettori. È altresì quello strumento che collega rappresentanti e rappresentati, paese legale e paese reale. Una quisquilia da poco se si pensa al mantra della “governabilità” imposto dai mercati. Siamo quindi immersi nel refrain de “l’importante è avere governi stabili”, perché l’instabilità attira le iene dello spread. Insomma, poco importa che coloro che occuperanno il parlamento per cinque lunghi anni siano o meno rappresentanti fedeli del cittadino che diligentemente si è recato a votare, ciò che importa è che riescano a trovare un accordo per formare un governo dalla durata in carica più lunga possibile.
A proposito di legge elettorale
Le elezioni in Regno Unito dello scorso 8 giugno hanno sorpreso gran parte dei commentatori. Theresa May, che si era giocata il tutto per tutto scommettendo sul voto anticipato quando i sondaggi davano ai Conservatori un vantaggio di venti punti, ne è uscita chiaramente sconfitta, costretta a sperare negli unionisti del DUP per formare un governo di minoranza.
Il Labour invece, pur nella sconfitta, ha conquistato un buon risultato, smentendo chi considerava Jeremy Corbyn un ineleggibile minoritario. Vista dall'Italia, la politica britannica troppo spesso viene ridotta a una caricatura da letture tendenziose o dal “tifo” politico. Come sempre qui sul Becco, col dieci mani di questa settimana cerchiamo di ragionare alla luce dei fatti.
Prima di tutto, devo ammettere di essermi sbagliato sul conto di Jeremy Corbyn. Ritenevo che Corbyn fosse incapace di unire il Labour e di conquistare voti oltre la cerchia degli elettori di sinistra più o meno radicale, e invece le elezioni dello scorso 8 giugno hanno provato che mi sbagliavo completamente. Il Labour, pur perdendo, ha portato a casa un ottimo risultato, strappando diversi seggi ai Conservatori e consolidando la già forte dominanza nelle grandi città, ma soprattutto è riuscito a pescare dall'astensione, specie giovanile. Le cause generali di questa buona prestazione e della contestuale bruciante “quasi-sconfitta” dei Conservatori sono analizzate molto bene in diversi articoli reperibili online, che invito a cercare per approfondimenti. Mi interessa infatti concentrarmi su altro.
Sul piano dell'unità del partito Corbyn si è mosso bene, evitando di ingaggiare una battaglia insensata ed autolesionistica per sostituire parlamentari veterani appartenenti alle tendenze interne moderate con fedelissimi inesperti. “Moderati” di primo piano come Chuka Umunna, Yvette Cooper e Liz Kendall sono stati candidati e hanno vinto il rispettivo collegio, e nei giorni che ci separano da giovedì Corbyn ha addirittura proposto di allargare il Goveno Ombra aprendo ai suoi ex critici. D'altronde, se i mal di pancia interni non sono stati del tutto esorcizzati dal buonsenso, il successo elettorale può sicuramente accontentare anche i più critici.
Corbyn ha portato avanti un'ottima campagna elettorale, presentandosi in modo sempre molto simpatetico e sobrio. Soprattutto, si è potuto presentare forte di un Manifesto sicuramente radicale ma anche profondamente di buonsenso, vale a dire mediato con la realtà. Abolire le tasse universitarie (For the many not the few, p. 43), eliminare gli zero hour contracts, ridare peso ai sindacati (pp. 47-48), costruire nuove case popolari per tutti (pp. 60-64), tutte proposte realistiche e chiaramente in grado di migliorare la vita delle persone, che diventano giustamente esempi da seguire per le sinistre europee. Ingiustamente sotto silenzio tra la sinistra non britannica passano invece altri punti del Manifesto laburista, come un approccio duro con il crimine, 10.000 poliziotti in più (pp. 76-77) e 3.000 nuovi secondini (p. 82), una riforma della giustizia penale affinché in carcere non finiscano soprattutto persone con problemi mentali o di dipendenza, o ancora il rinforzo delle capacità militari britanniche messe a dura prova dai tagli tory (pp. 120-121): proposte sensate in un mondo difficile e pericoloso come il nostro, che hanno il pregio di rispondere in modo razionale alle paure dei cittadini e di costituire una mediazione in positivo con tutta la società. Il fatto che non vengano mai citate dai nostrani corbynisti della prima o dell'ultima ora forse spiega in parte come mai, a differenza del Labour di Corbyn – che gode indubbiamente di buona salute – la sinistra italiana resti minoritaria e moribonda.
Le elezioni britanniche si inseriscono sulla falsariga delle ultime elezioni in Francia, Olanda e Austria. Si sta assistendo ad una rimonta dei partiti socialdemocratici nel loro nuovismo postdemocratico. Così c'è chi ammanta questa restaurazione di partiti di governo con l'ecologia e chi insiste più sull'equità. Nei fatti siamo di fronte a un'inversione di rotta. I principali paesi europei nordici stanno dando adito ai dubbi sull'uscita dall'Unione e, a distanza di un anno della Brexit, anche la Gran Bretagna inizia ad avere pesanti ripensamenti in merito.
Immotivatamente, perché i risultati economici vedono il Regno Unito come il primo paese per crescita della produzione tra le economie avanzate nel 2016. Ma d'altra parte stiamo parlando della prevalenza, nell'ambito della vecchia politica di governo, di una retorica rivolta a rinnovare tematiche classiche: su tutte l'equità liberale. Il Labour di Jeremy Corbyn ha riscosso grandi consensi su tematiche quali i tagli alla polizia con il problema del terrorismo, la riduzione delle tasse e il multiculturalismo. Un programma socialista dovrebbe prevedere ben altro, ma siamo di fronte al ritorno dei partiti socialdemocratici in nuove vesti. Falliti il Pasok e il Partito Socialista Francese la necessità di rilanciare una politica riformista nel vecchio continente è sempre più forte e farlo in un paese che si stava allontanando dall'unità politica con esso è ancor più importante. E in Gran Bretagna questa novità, a differenza del caso francese, non si percepisce nemmeno tanto visto che si sta pur sempre parlando del Labour e di un leader organico a quel partito da un trentennio. Eppure c'è davvero chi esulta davanti alla rimonta del Labour neanche fosse l'ultimo argine rimasto alla crisi sistemica in cui siamo immersi.
La Gran Bretagna è una realtà complessa, in cui convivono i reazionari protestanti nord-irlandesi e la conservatrice paladina dei diritti civili scozzese. Troppo spesso pensiamo all'Inghilterra come ad un paese europeo tra gli altri, dimenticando la dimensione di un impero mai realmente integratosi con il continente.
Impressionante è la ricerca della conferma oltre il confine di modelli di lettura capaci di giustificare la tattica più di corto respiro da praticare nell'immediato presente. Corbyn ha certamente qualcosa in comune con Sanders e l'affermarsi delle nuove stelle della sinistra europea, certamente più radicale di quella di Clinton-Blair-D'Alema-Schroeder (o, in seguito Zapatero o, ancora dopo, Obama) ma pur sempre "di governo". Il problema è la patina di nostalgia che pervade anche generazioni del tutto aliene alla fase di crescita della globalizzazione, che magari nei primi anni del percorso di istruzione hanno conosciuto l'illusione della crescita senza fine ed ora pretendono una società dal volto umano, un mercato più aperto ad istanze egualitarie.
Corbyn è il sogno erotico degli amanti del laburismo, di quella socialdemocrazia non ostile all'Unione Sovietica, compatibile con la tradizione della terza internazionale, ma non compromessa con gli "errori ed orrori" del socialismo reale.
Una favola. Destinata a scontrarsi con le mille difficoltà della realtà, ma pur sempre migliore della narrazione unica di un capitalismo inevitabile, o di una Brexit da cavalcare sulle spalle delle classi lavoratrici.
Il problema è quanto Corbyn sia in grado di costruire un sistema, di governo o di opposizione che sia. Quanto il programma non rimanga per raccogliere consenso durante le elezioni e poi tornare a prendere polvere sul palco della rappresentazione politica, mentre il sistema prosegue a smantellare le conquiste del secolo precedente, mentre qualche coraggioso oversessanta narra le storie di un mondo più giusto.
Perché Corbyn ha vinto perdendo. Ma ancora il paradigma egemone nella società europea è che non si vince perdendo, ma solo vincendo. Così Sanders e Corbyn dalla loro hanno l'assenza del governo, per rimanere sulle bacheche Facebook dei giovani progressisti, mentre Macron e Renzi (?) si "sporcano le mani" continuando con l'idea che si vince correndo verso il centro(-destra).
Sarà che ricordo gli entusiasmi per Zapatero ed Obama, sarà che penso che un uomo non possa cambiare da solo alcunché, se non nella percezione mediatica e mediata, ma la buona notizia delle elezioni britanniche non dovrebbe entusiasmare tanto, o almeno non dovrebbe portare ad una rimozione della complessità della realtà britannica e delle difficoltà storiche in cui versa la sinistra occidentale di alternativa (comprese le comuniste ed i comunisti).
Il Labour di Ed Miliband fu per quattro anni in testa ai sondaggi e poi perse la campagna elettorale e con essa le elezioni. Corbyn, scivolato dai -8 punti del settembre 2015 (sua elezione a leader) ai -20 dell’indizione delle elezioni, ha recuperato fino a un -2 nelle urne posizionandosi come il vincitore, se non delle elezioni, almeno della campagna elettorale.
In più, le forze del Remain (laburisti, liberaldemocratici, nazionalisti di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, verdi, unionisti moderati) contano complessivamente sul 54%.
Quali ragioni per questo rapido recupero del Labour? Il gruppo che più massicciamente si è schierato per il partito di Corbyn sono i giovani, tra i quali il consenso è di fatto duplicato in questi due anni (dal 35 al 70%). Questo voto giovanile catalizzato dai laburisti era in precedenza diretto ai liberaldemocratici, ai verdi, e in parte agli stessi conservatori. Per spiegare l’abbandono del partito di governo è forse sufficiente ricordare l’ampia maggioranza di europeisti tra gli elettori sotto i 30 anni; per quanto riguarda le altre forze, invece, si nota che tanto Corbyn oggi quanto Lib-Dem e verdi ieri esprimono un’identica istanza: la contestazione del presente sistema sociale in nome di ritmi di vita più sostenibili. Diversa, però, la visione di fondo: una vivibilità che discende non dalla liberazione dal lavoro, magari come eteroprodotto della robotizzazione, ma dalla valorizzazione del lavoro stesso (si pensi alla lotta contro i contratti a zero ore).
Un’ulteriore dinamica può spiegare il recupero di Corbyn tra il 2015 e oggi. L’elezione di Trump e la vittoria del Leave hanno, da un lato, diradato il fumo degli inganni demagogici neofascisti; dall’altro, la sconfitta della Clinton ha riassegnato nuova gloria ai progetti à la Sanders.
Per tali ragioni non sono quindi azzardati i paralleli tra Macron e Corbyn: entrambi sono elementi che sfidano il bipolarismo thatcherismo/socialdemocrazia. Il Presidente francese è più proiettato verso la costruzione del quadro comune europeo, il leader laburista invece (di necessità, vista la Brexit) insiste d’abord sulla lotta economica all’interno dello stato nazione. Le due traiettorie sono tutt’altro che inconciliabili, come segnalano i buoni risultati de La République En Marche! nella cintura rossa parigina.
En passant, un segnale da monitorare viene dall’Irlanda del Nord: per la prima volta raccolgono seggi solo i partiti radicali delle due comunità (Dup e Sinn Féin). Anche questo è un segno delle crescenti tensioni esacerbate dalla Brexit.
C’è modo e modo di essere sconfitti. Fino a pochi mesi fa sembrava del tutto irrealistico immaginarsi un Labour in grado anche solo di resistere in molte delle sue roccaforti storiche nel Nord dell'Inghilterra e nel Galles. Oggi il partito guidato da Jeremy Corbyn ha rafforzato la sua presenza in parlamento incrementando il proprio numero di seggi ed è arrivato a un incollatura dai Conservatori anche in termini di voti assoluti.
Quando Theresa May ha indetto elezioni anticipate, il Labour versava in una crisi di consenso senza precedenti. Persa la fiducia della classe operaia e delle categorie sociali più vulnerabili, il partito rischiava di essere travolto da una discussione sulla brexit monopolizzata dalla destra e che aveva visto la sinistra in grosse difficoltà identitarie e divisa fra i sostenitori del “remain” e quelli di una uscita “soft”. L’elezione di Jeremy Corbyn, proveniente dall’area radicale, alla guida del partito, era il sintomo di un bisogno profondo, radicato nella base del partito, di dover tornare a dire cose di sinistra dopo anni di avvicinamento al centro e di eccessivo moderatismo politico. In un periodo segnato dai successi elettorali di Hollande prima e Renzi poi, Corbyn appariva a molti analisti una scelta suicida e anacronistica che avrebbe fatto perdere al Labour una vasta fetta di elettorato moderato.
I Conservatori, che potevano contare anche sulle difficoltà dello Ukip e dello Scottish National Party, sembravano insomma destinati a ottenere una vittoria schiacciante in grado di rafforzare l’esecutivo britannico e legittimare il piano di un’uscita dura dall’Europa. Il fallimento di questo progetto va in gran parte attribuito alla capacità di Corbyn di rimettere insieme il partito attorno alle tematiche tradizionali (lavoro e diritti sociali) senza rinunciare a sedurre la componente liberal e cosmopolita del ceto medio-alto delle metropoli. Niente a che vedere però con l'europeismo ingenuo e il centrismo post-ideologico di Macron, con il quale il segretario del Labour è stato assurdamente paragonato da alcuni analisti nostrani. Piuttosto la somiglianza è con Bernie Sanders se non altro almeno perché sono soprattutto i giovani ad aver premiato un progetto che ha permesso una resurrezione di idee socialiste che sembravano accantonate nei due grandi partiti della sinistra anglofona.
Corbyn, ha dimostrato che la strada per il successo elettorale non passa necessariamente per il moderatismo politico e l’accettazione delle regole del gioco dettate dal neoliberismo. Per ora non si poteva chiedere di più. Ma in un futuro molto prossimo occorrerà anche dimostrare di poter vincere con un programma di questo tipo e, sopratutto, di riuscire ad attuarlo.
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L’orizzonte della sinistra unita: ma chi guarda più al Sole?
Clima politico incandescente nel nostro paese. In questi giorni si sta marciando a ritmi serrati verso l’approvazione della riforma elettorale, frutto del compromesso dei maggiori partiti presenti in Parlamento. Chissenefrega se c’è un governo che dovrebbe portare a termine delle leggi come la confisca dei beni ai corrotti equiparati ai mafiosi, la legge sul fine vita e tutte quelle riforme di cui Renzi si vanta ma che decide di abbandonare. O almeno questi sono i segnali di queste ultime settimane. Approcciandomi in toni colloquiali, confesso che sto scrivendo queste righe con quella nausea che non provo nemmeno quando per la mia tesi leggo testimonianze di stupri e fosse comuni balcanici.
A proposito di legge elettorale
La vertiginosa accelerazione sulla riforma elettorale a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni è il frutto della convergenza fra PD, FI, Lega e M5S su una serie di emendamenti che hanno modificato sostanzialmente il testo base del Rosatellum nella direzione di un sistema proporzionale che ha diverse somiglianze, ma anche significative differenze, con il modello tedesco. L’ampia maggioranza parlamentare di cui godono i simpatizzanti della proposta di legge potrebbe portare ad una approvazione piuttosto rapida e c’è allora da chiedersi se questo sia il preludio a un’imminente crisi di governo e al conseguente voto anticipato in autunno che molte forze politiche sembrano volere.
Sicuramente intanto però molti aspetti della riforma stanno accendendo una polemica infuocata: se da una parte lo sbarramento al 5% è indigesto a molti partiti piccoli, ed è proprio su questo punto che si è consumata la rottura fra Renzi e Alfano, dall’altra è forte la preoccupazione per un sistema che renderà difficile trovare un’ampia maggioranza parlamentare. Non meno significativo, fra le altre cose, è anche il nodo sui meccanismi di elezione dei parlamentari, soprattutto dopo che gli emendamenti proposti per introdurre il voto disgiunto e le preferenze nel listino proporzionale sono stati bocciati. Su questa delicata situazione politica, il “10 mani” di questa settimana.
Esistono due nodi del “caso italiano” che il dibattito parlamentare sulla legge elettorale non è riuscito a sciogliere: l'incertezza della legge e il problema del trasformismo. Per quanto riguarda il primo nodo, dopo il “mattarellum” (1993) il “porcellum” (2005) e l'“italicum” (2015) e successive mutilazioni per incostituzionalità, il meccanismo elettorale italiano non ha avuto pace, con leggi successive che hanno di volta in volta ricalcato più gli interessi di parte degli estensori che l'attenzione a criteri di razionalità tecnica. In questo contesto da un lato la Corte Costituzionale si è trovata a supplire al ruolo del legislatore, rischiando di diventare quella “terza camera” non elettiva paventata a suo tempo da Togliatti. Quella che, salvo ennesime giravolte, dovrebbe essere la nuova legge elettorale persevera nell'errore, costruendo un sistema pasticciato e poco chiaro unendo elementi disparati di ispirazione proporzionale o maggioritaria. Più che “modello tedesco”, modello Frankenstein. Meglio, a mio parere, sarebbe stato fare una scelta netta licenziando una legge più semplice possibile, magari maggioritario uninominale o proporzionale con sbarramento, per poi apportare eventuali aggiustamenti nel lungo periodo.
Per quanto riguarda il secondo nodo, basti dire che attualmente un parlamentare su tre ha cambiato gruppo, e che tutte le aree politiche dell'arco parlamentare, dal 2013 ad oggi, hanno subito scissioni, cambi di casacca o espulsioni di massa. I partiti in parlamento si sono sbriciolati e moltiplicati, spesso totalmente all'insaputa degli elettori, che davanti a sigle come “alternativa libera”, “civici e innovativi” o “conservatori riformisti” non possono che rimanere spaesati.
Considerato questo contesto desolante, lo sbarramento al 5% previsto dalla nuova legge elettorale è probabilmente l'unico elemento positivo, rendendo sostanzialmente impossibile la rielezione di conventicole di potere e scissionisti minoritari di ogni persuasione. In ogni caso non bisogna farsi illusioni, nonostante sia necessario fare il possibile per metterci una pezza, le cause della frammentazione sono sistemiche, e non risolvibili con artifici elettorali.
Le principali forze politiche parlamentari stanno trovando una convergenza su una nuova legge elettorale, lo stesso PD sembra disposto a concedere persino una maggiore proporzionalità, ispirandosi al modello tedesco. Quest'ultimo però prevede una maggior selettività nella rappresentanza con una soglia di sbarramento innalzata al 5%, ma pur di andare al voto sembra andare bene.
Il sistema, pur andando verso una maggior proporzionalità, certamente non è privo di tranelli poiché mantiene i capilista bloccati, per cui l'eletto risulterà quindi non il più votato ma il candidato indicato preventivamente dalle forze politiche. Inoltre, la principale conseguenza di una tale soglia di sbarramento è che i partiti presenti in Parlamento inevitabilmente si ridurranno. PD, M5S, Forza Italia e Lega Nord oltre ad essere coloro che approveranno tale sistema elettorale dovrebbero essere anche le uniche forze politiche in grado di ottenere un minimo di rappresentanza. Il vero dato di questa legge elettorale tuttavia non deriva dal solo lato tecnico, ma da quello politico. Infatti, la stessa decisione di varare una legge elettorale è sintomo della volontà politica di sfruttare il vento di Macron per riportare il nuovismo socialdemocratico al governo, tagliando fuori dai giochi ogni pericolo populista. La volontà di isolare determinate forze politiche, nella fattispecie quelle populiste, è l'unica ragione ad aver mosso Renzi e i suoi accoliti nella direzione di una nuova legge elettorale che inevitabilmente sbloccherà la situazione portandoci a nuove elezioni.
Così si prefigura già un'ammucchiata di governo pronta per approvare una legge di stabilità austeritaria in grado di recepire le indicazioni di Bruxelles e Francoforte. La gestione dei Piigs nel fine stagione del quantitative easing sembra così condurci alla melassa democristiana più torbida.
Sono i rapporti di forza che determinano l'impianto normativo di un sistema. C'è poco da fare. L'interpretazione delle leggi nei tribunali, l'orientamento esecutivo del Governo, quello legislativo del Parlamento... non si può agire all'interno delle regole date pensando di poterle mutare a proprio favore se non si hanno dei rapporti di forza adeguati. In questo la sinistra italiana pare molto arretrata, impegnata come è a scandalizzarsi per questo o quel dettaglio (sia la soglia di sbarramento o il meccanismo dei collegi).
Il grande scandalo dei nominati è sorprendente. Quante persone oggi sarebbero in grado di proporsi con una capacità di mobilitazione in grado di garantire la propria elezione in Parlamento, escludendo le prime file (comunque molto limitate numericamente)?
Se la destra ha da regolare i conti al proprio interno, a partire dal ruolo dei moderati e del centro, nell'opporsi all'asse FdI-Lega Nord, Renzi ha gioco facile nel rafforzare quella linea di autosufficienza che è alla base della nascita del Partito Democratico (Bersani è un mezzo - falso - passo indietro rispetto a Veltroni). Il Movimento 5 Stelle ha dei rapporti di forza che gli permettono di giocare un ruolo a prescindere dalla legge elettorale (e nemmeno hanno validi motivi per sperare di governare da soli o ritrovarsi "obbligati" a cercare alleati, come Tsipras in Grecia insieme ai nazionalisti).
In tutto questo il "quarto polo" della sinistra non decolla non certo per colpa della legge elettorale. Manca un progetto. Se i due governi Prodi vengono giustificati con l'assenza del proporzionale nel Paese, sarebbe il caso di chiedere ai dirigenti DS-PRC di allora quale è stato il progetto complessivo che hanno proposto all'Italia tra gli anni '90 e l'inizio del nuovo millennio.
Il Sole 24 Ore ha provocatoriamente iniziato a intervistare i "candidati premier" (che il nostro impianto costituzionale non prevederebbe) chiedendo per cosa si dovrebbe andare a votare. I vari Renzi e Di Maio devono giocarsi la partita nel sistema mediatico dato. A chi si propone come "alternativo al sistema" si consiglia di prendere spunto dal 5 Stelle, capace di apparire senza sussistere, a prescindere dalla legge elettorale. Apparire e sussistere: sarebbe una rivoluzione (parziale).
L’accordo tra i quattro principali partiti, che rappresentano assieme circa il 90% dei votanti, su una variante del sistema tedesco inaugura di fatto una situazione di armistizio tra le forze politiche che segnala come l’Italia non sia riuscita, in questi anni, a venire a capo della propria situazione interna.
Nel messaggio alla nazione del 31 dicembre 2013 l’allora Capo dello Stato ricordò che nel corso dell’anno l’Italia aveva visto messa a rischio la stessa natura democratica del sistema istituzionale – un evidente riferimento alle manovre eversive del Movimento 5 Stelle a cui, d’altro canto, non aveva corrisposto una reazione determinata degli avversari. Venuta meno con il Governo Letta la formula del “fronte repubblicano” (o “larghe intese”) l’alternativa a Grillo si era manifestata nel Governo Renzi e nel 41% raccolto dal Pd a maggio 2014. Fondandosi su quel consenso eccezionale il Presidente del Consiglio aveva promosso numerose riforme con l’obiettivo di far venir meno le radici del consenso popolare al M5s.
Sconfitto questo disegno nel referendum costituzionale, bocciato l’Italicum dalla Corte Costituzionale, e con una stampa di opinione sempre più ostile alla «classe politica» (sic), l’Italia torna al punto di partenza del 2013, ma con una vistosa differenza: il nuovo sistema proporzionale renderà di fatto certa, prima del voto, l’ingovernabilità del Paese e il necessario ricorso a coalizioni spurie. Se a questo dovesse affiancarsi la riedizione di esecutivi a guida “tecnica” – scenario paventato da Renzi stesso in caso di vittoria del No – è evidente che il consenso al M5s potrebbe imboccare una nuova fase di crescita.
E anche l’accorato allarme lanciato da Romano Prodi – «Non ho dedicato la mia vita politica a costruire alleanze con obiettivi talmente disomogenei da diventare improduttivi», in riferimento a un futuro governo Pd-Fi – ha almeno due pecche: 1) non considera che invece di Pd-Fi al governo potrebbero andare gli altri, ovvero M5s-Lega; 2) evita di puntualizzare che una maggioranza omogenea sarebbe per certo scaturita con l’Italicum e il suo contenuto premio maggioritario (54% dei seggi alla Camera).
Sebbene probabilmente andrà incontro ad altre modifiche, l’assetto generale della nuova legge elettorale è piuttosto chiaro. Il modello sostanzialmente proporzionale, ma con la presenza di collegi uninominali, vorrebbe ricalcare quello tedesco ma in realtà poco si adatta all’assetto istituzionale italiano così come sancito dalla nostra Costituzione che prevede il bicameralismo perfetto e un numero fisso di parlamentari.
Si vuole dunque importare un modello che rischia di non funzionare nel contesto italiano dove tradizionalmente le coalizioni di governo, quasi sempre necessarie con questo sistema elettorale, durano molto poco. Sembra inoltre profilarsi un meccanismo che di fatto rende molto limitata la possibilità di esprimere una preferenza sulla scheda elettorale (soprattutto visto che molti parlamentari verranno eletti all’interno delle liste proporzionali bloccate), cosa che allontana ancor più la nuova riforma dal modello tedesco e soprattutto fa emergere una inconsueta e cinica realpolitik del M5S, pronto a rinunciare alle preferenze, suo tradizionale cavallo di battaglia, pur di andare subito al voto e massimizzare un risultato elettorale di rilievo che, sondaggi alla mano, sembra potersi concretizzare.
A ben vedere però, con questo sistema, i pentastellati potrebbero andare incontro a una vittoria di Pirro in quanto nessun partito, allo stato attuale, sembra essere in grado di governare da solo. Il M5S che per sua natura tende all’autonomia politica, difficilmente potrà allearsi con un’altra forza politica (gli elettori non lo perdonerebbero) e ciò potrebbe significare rimanere all’opposizione dato che il sistema premia chi riesce a mettersi in coalizione dopo l’esito elettorale, a giochi fatti. A meno di una clamorosa alleanza Lega – M5S, stando così le cose, il più probabile scenario è quello di una coalizione di governo PD – Forza Italia (fa una certa impressione sentire molti esponenti del PD definire Berlusconi come un baluardo contro l’avanzata del populismo!). Sono dunque queste le forze che di fatto stanno uscendo vittoriose dal confronto parlamentare sulla riforma. Ma nel lungo termine la mancanza di un premio di maggioranza potrebbe rendere l’azione di un governo nato sotto il segno del Nazareno poco efficace. Questa riforma mette in luce che le principali forze politiche hanno più paura di perdere che voglia di vincere. La loro mossa però farà strage di partiti piccoli, non in grado di superare la soglia si sbarramento. La sinistra radicale è avvertita.
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Sarebbe errato considerare la sciagurata legge elettorale in corso di frenetica approvazione come un fatto isolato, come una pessima legge tra le altre. L'Italicum rappresenta, non fosse altro che per l'imposizione della fiducia (naturale conseguenza dell'affermarsi di un ministero, quello delle "riforme", che svolge ruoli di competenza parlamentare) l'atto - finale? - di uno scivolamento, di una deriva istituzionale, che trascina il Paese, e si trascina nel Paese, da oltre venti anni.
La fine dei partiti di massa, di quelle organizzazioni che avevano costruito un sistema democratico delle volte zoppicante (si vedano in proposito le innumerevoli trame nere che hanno attraversato la storia d'Italia) ma nel complesso solido, la progressiva perdita di credibilità delle organizzazioni sindacali e di quasi tutti gli altri corpi intermedi della società (dovuta anche a specifiche manovre di indebolimento, per legge, delle tutele sul lavoro, volte a renderele meno incisive ed a martellanti campagne mediatiche), ha aperto le porte ad un sistema istituzionale incentrato sulla predominanza degli esecutivi sugli organi della rappresentanza.
Certo che, tutte le volte che ci provano, ci riescono alla grande. Tutte le volte che il dibattito pubblico viene concentrato (deviato?) in modo da escludere dalla visuale il vero smantellamento dei diritti in questo Paese, noi ci prestiamo facendo gli utili idioti.
Cerco sempre, ultimamente, nel parlare di politica e nel ragionare di cosa fare, di mettermi nei panni di quella che è la stragrande maggioranza delle persone in Italia. Cerco di capire come è che il dibattito politico viene percepito, quali sono le priorità e quale è il reale interesse per le questioni su cui noi invece ci spacchiamo la testa.
Lasciamo da parte per un momento altri argomenti e andiamo al cuore del problema: il voto è un diritto universale?
Sul piano generale niente da obiettare, sul piano concreto questo diritto è comunque subordinato ad alcune condizioni: possesso della cittadinanza, maggiore età, non essere interdetto per condanne, …; si tratta quindi di un diritto il cui esercizio concreto è condizionato dal possesso di una serie di requisiti di cui l’elettrice e l’elettore devono essere in possesso: non può votare il cittadino di un altro Stato, il minorenne, ecc. ecc. ecc …
Firenze.
Un veloce accordo estivo tra Pd e Forza Italia, in particolare fra il segretario dem Dario Parrini e lo storico proconsole di Denis Verdini, Massimo Parisi, porta in dono alla Toscana una nuova legge elettorale, subito sospettata di incostituzionalità dal vicepresidente emerito della Consulta, l'autorevole Enzo Cheli. “La nuova legge – osserva a caldo Sandra Bonsanti di Libertà e Giustizia – fa rimpiangere le precedente”. Insomma un disastro. E visto che dal “cinghialum” toscano del 2005 era nato il “porcellum” di Roberto Calderoli, in vista della discussione parlamentare sul cosiddetto “italicum” già si sprecano le battute sui ricorsi storici.
Ho aspettato un mese intero prima di scrivere queste parole. Una riflessione che mi sono portata dietro durante una campagna elettorale intensa e che probabilmente farà salire su tutte le furie coloro che hanno fatto degli studi elettorali il loro mestiere.
A Firenze abbiamo visto candidarsi dieci diversi aspiranti sindaci. Dieci, sostenuti da ventisette liste. Ventisette per un totale di oltre 800 candidati (meglio non mettersi a fare i conti per i quartieri). E questi numeri sono sintomo chiaro del personalismo della politica da cui oramai non riusciamo più a scappare.
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