La politica italiana per me è una malsana palude, come nemmeno quelle incontrate da due piccoli famosi hobbit sperduti nelle Terre Selvagge. E come un hobbit che prosegue il suo cammino, provo a guardarmi intorno. In questo fermento elettorale, si assiste al ritorno del fenomeno oramai pluridecennale della sinistra unita. Le fuoriuscite dal Partito Democratico di Pierluigi Bersani, Enrico Rossi, Roberto Speranza e altri esponenti democratici hanno messo in moto un nuovo processo di aggregazione delle forze politiche di sinistra di questo paese. La regia è la stessa di chi guidò i ribelli democratici (e non solo) nella battaglia referendaria contro la Riforma Boschi. Massimo D’Alema sembra segnare nuovamente le sorti del centrosinistra e della sinistra in questo paese. Crea e distrugge a suo piacimento, dentro e fuori dal Partito Democratico. Matteo Renzi è il suo nuovo grande nemico, dopo il siluramento di Romano Prodi avvenuto alle elezioni per il Presidente della Repubblica concluse con il Napolitano bis. Eppure fu lui stesso a tracciare la linea all’attuale segretario del Partito Democratico. Non solo appoggiando la sua candidatura alle primarie come sindaco di Firenze. Iniziò all’alba del Duemila, quando al suo fianco aveva come principale collaboratore quel Fabrizio Rondolino che oggi ci fa esilarare con i suoi deliri giornalistici. Sognava un PDS sotto la forma di un partito snellito dalle burocrazie partitiche che lo avevano ostacolato sin dai tempi della Federazione giovanile comunista. Via le segreterie, è lo staff del segretario che deve avere il potere. Militanti non come attivisti politici, ma meri esecutori di un comitato elettorale. Portaborse e collaboratori con scarsa formazione politica che entrano in Parlamento come sottosegretari, viceministri, ministri. Una nuova selezione politica che piace all’ex segretario del PDS, cementata con l’approvazione della legge elettorale nota come Porcellum. La comunicazione che sostituì l’organizzazione, nelle tesorerie del partito i soldi si spostano dal controllo delle federazioni all’investimento mediatico, la visione e il legame con il territorio vengono sostituiti dai sondaggi. D’Alema legò il suo destino alle elezioni regionali del 2000, convintissimo di vincerle dopo una campagna fatta in prima persona, a contatto diretto non con il partito, ma l’intero elettorato.
Inutile dirvi come andò a finire, perché basta osservare la sorte del suo oramai ex favorito. Ispirandosi al suo principale avversario politico (ma mai nemico giurato come lo fu Prodi), D’Alema ha segnato il cambiamento nel metodo e nella comunicazione politica ispirandosi all’ascesa dell’ex Cavaliere Berlusconi. In questo processo ha pesato l’ispirazione al New Labour di Tony Blair, d’altronde Rondolino e Velardi amavano paragonarsi a Peter Mandelson e Alastair Campbell. Gli effetti di questa disastrosa svolta del Labour Party si vedono ancora negli ultimi traumi politici del Regno Unito.
Oggi D’Alema si ripresenta con una nuova verginità politica, si scrolla di dosso le ombre del suo coinvolgimento nella vicenda dimenticata della Monte dei Paschi di Siena, promette una nuova riforma costituzionale, aggrega i fuoriusciti democratici nel Movimento Democratici e Progressisti-Articolo 1. Quei ex democratici che inaugurarono le larghe intese con Mario Monti, quando Bersani come tutti si rifiutò di prendersi le responsabilità politiche che doveva e poteva prendersi. Così scelse di iniziare un percorso che da tecnico diventò politico assieme a Angelino Alfano e Pierferdinando Casini. Un percorso distruttivo, che ha portato l’ex segretario democratico a dimettersi dopo l’agguato politico nei suoi confronti e di Romano Prodi nel voto per il Capo dello Stato. Orchestrato anche da D’Alema, con cui adesso Bersani ha fondato questa nuova formazione partitica. Una aggregazione politica di cui fa parte anche Enrico Rossi, che nel 2015 invitava il centrosinistra a rassegnarsi a Renzi. Non entrerò nel merito del suo governo in Toscana: le impronte renziane sono sin troppo evidenti. Lui e Speranza, dopo un anno passato a fare campagna per il Congresso, hanno deciso di uscire dal Partito Democratico senza una chiara motivazione politica che non fosse la paura di non essere inseriti nelle liste per il Parlamento dal segretario. Perché con il sistema delle liste bloccate, questi discepoli dalemiani sanno bene che stare in minoranza in un partito vuol dire non essere candidati. Un metodo politico che Renzi ha portato avanti in modo spietato, che premia la fedeltà e il servilismo, spacciati come competenza. Maria Elena Boschi e Matteo Orfini, i tanto fedeli quanto incapaci e politicamente inadeguati, ne sono la prova. Meglio non rischiare e non lottare in minoranza: fondare una nuova formazione politica, con un capo ben visibile. Non c’erano più le condizioni per silurare da dentro il leader di turno.
Una unione di intenti che a sinistra sembra storicamente più dividere che aggregare: la spartizione dei seggi e delle poltrone non ha nulla di condiviso. Seguono il destino che fu di Giuseppe Civati, uscito ormai da tempo dal Partito Democratico. Tra le accuse di tradimento e di una uscita troppo preventiva, l’uomo che inaugurò con Renzi la prima Leopolda ha fondato il partito Possibile, di chiara ispirazione “iglesiasiana”. Almeno nel nome, perché anche questa formazione partitica ha una struttura tristemente classica. Un Congresso essenzialmente autocelebrativo, comitati territoriali, una struttura spacciata come orizzontale ma tenacemente controllata dai principali collaboratori di Civati. Un gruppo di Serracchiani mancati che deviano nel baratro le potenzialità che poteva avere questo movimento, rendendolo simile al disastro di Sinistra Ecologia e Libertà, sfruttando la bontà di generosi militanti e silurando come pericolosi avversari quegli attivisti politici provvisti di una qualche competenza. Civati si è legato in parlamento a Sinistra Italiana, la rimanenza del partito vendoliano di Sinistra Ecologia e Libertà. I cui esponenti di punta sono Nicola Fratoianni, l’ultima evoluzione dell’opportunismo di sinistra, e Stefano Fassina, che dopo il disastro alle elezioni amministrative romane si diletta come sovranista antieuropeista per raccattare qualche voto. A completare il gruppo c’è Giuliano Pisapia, che si candida a nuovo leader della sinistra unita, sentendosi giustificato dalla sua esperienza come sindaco di Milano e dalla guida di una amministrazione di centrosinistra.
Ancora non è chiaro con chi voglia costruire questa unità, che cosa sia. Il ritorno al proporzionale che sembra affermarsi da mesi nel nostro paese ha fomentato la nascita di tutte queste formazioni politiche, con la minaccia di una soglia di sbarramento relativamente alta. Perché questo gruppo di politici che rappresentano il fallimento delle speranze della sinistra nel nostro paese solamente uniti possono sperare di superarla. Lontani da appuntamenti elettorali nazionali importanti o in cui ci sia da spartirsi selvaggiamente qualche ruolo, si scannano anche per il simbolo e la bandiera da mettere sui banchini di qualche campagna politica di secondaria importanza (secondo i criteri arrivisti della politica). I militanti sono solamente il mero esecutore di un mandato. Sinistra unita sì ma con il simbolo in cui si possa riconoscere il leader di turno. Rifondazione Comunista è stato spesso attaccato per il suo rifiuto a portare avanti un processo unitario di questo tipo. Spesso sbeffeggiato dal mondo della sinistra, il partito sotto la guida di Ferrero ha mantenuto una sua chiara formazione politica dei suoi iscritti e simpatizzanti che manca in tutti i partiti e ha addirittura osato (almeno nella mia percezione di esterno) in un rinnovamento delle classi dirigenti locali.
Che processo unitario di sinistra può essere una aggregazione priva di contenuti e di un programma all’avvicinarsi delle politiche nazionali? Partiti di sinistra che rifiutano il ricambio generazionale, che non si distaccano da un metodo politico fallimentare, che non recidono definitivamente il loro cordone ombelicale con il Partito Democratico. Come può essere l’alternativa Massimo D’Alema, che ha insegnato a una intera generazione politica il vuoto ideologico mascherato da una qualche formazione colta utile solamente per mobilitare voti? Campione dell’arrivismo politico, protagonista dei peggiori disastri politici di questo paese. Non sono questi coloro che trasformeranno la sinistra italiana. Una sinistra in uno stato terminale, che si approccia a un dinamico e vivace campo di associazioni e esperienze sociali come un parassita si attacca a un essere vivente in salute. Invece che collaborarci e costruire un percorso costruttivo di qualsiasi tipo, fanno da padroni con la loro bandiera da porre su qualsiasi risultato venga ottenuto. Lo si vede dalla repulsione della politica e dei partiti che certo soggetti dell’associazionismo hanno sviluppato. Oppure si sono uniformati, come è successo a certi sindacati e alcune associazioni nazionali che, perdendo di vista il loro scopo educativo e formativo, sono diventate soggetti politici attivi. La sinistra ha bisogno di un nuovo percorso politico per maturare, di tornare a un metodo politico genuino, di fare formazione politica. Un vero e proprio scontro generazionale non è mai stato aperto.
Questa nuova formazione politica unitaria che sta sorgendo, condivide le stesse colpe e lo stesso destino al momento fallimentare del Partito Democratico. L’antirenzismo sfrenato che li ha uniti nella campagna referendaria sarà il collante principale di questo ennesimo nuovo soggetto unitario. Cavalcano la rabbia e la frustrazione, senza alimentare serie speranze. Non c’è futuro nemmeno anagrafico agli incontri di questi ultimi giorni. Una ancora di salvezza solamente per il loro futuro politico, per una classe dirigente tipicamente post comunista che ha fatto della propria tradizione politica una merce da vendere. Invece che una eredità da portare avanti, coltivare e rinnovare. Manca l’umiltà e la disponibilità al sacrificio, manca una visione di un processo di cambiamento. Mancano le basi per un futuro migliore, mancano le unità di intenti nella lotta per i diritti. I risultati si sono visti anche alle ultime amministrative, dove solamente a Sesto Fiorentino si è affermata una coalizione di sinistra alternativa al Partito Democratico. Per delle dinamiche locali che di nazionale hanno ben poco, se non nella persona dell’ex sindaco decaduto. Hanno ragione quando dicono al Partito Democratico che gli elettori scelgono sempre, tra la brutta copia e l’originale, sempre l’originale. Perché anche tanti elettori e simpatizzanti di sinistra che andranno a votare faranno lo stesso. Oppure rimarranno a casa. L’orizzonte della sinistra unita e i suoi spazi sono diventati come un territorio tribale, realtà conflittuali nomadi in perenne agitazione. Su cui non splende il Sole dell’Avvenire tanto caro alla tradizione comunista e di sinistra, con la promessa di un futuro migliore.