Una donna uccisa ogni due giorni, se ne contano 116 dall’inizio del 2012 e nella maggior parte dei casi gli autori di questi delitti sono mariti, fidanzati, compagni , conviventi, amanti o ex che non si ne erano fatti una ragione di non averne più il possesso. Accade proprio qui, tra noi popoli che ci crediamo colti e superiori, civili e in alcuni casi timorati da Dio, storie di violenze quotidiane che chiedono addirittura di coniare un termine ad hoc “femminicidio”, (“femicide”diffuso per la prima volta da Diana Russell, nel 1992, nel libro Femicide: The Politics of woman killing,) un neologismo con il quale si identifica ogni forma di violenza rivolta contro la donna in quanto donna, una violenza esercitata nei confronti di chi disattende le aspettative dell’uomo e della società patriarcale, di chi rifiuta di ricoprire il ruolo sociale e/o di piegarsi al volere del maschio dominante.
Elemento destabilizzante per chiunque provi ad agire concretamente nel reale sono i media che non solo continuano a definirli , erroneamente , “omicidi d’amore” o “delitti passionali”, ma si premurano a dipingerli come l’atto di un folle, in preda a raptus momentanei, ignorando, volutamente, totalmente che essa viene da uomini perfettamente sani, uomini ‘normali’, inseriti in famiglie ‘normali’, perché se è consueto mostrare lo stereotipo dell’immigrato che stupra o uccide non è ammissibile per l’ordine sociale costituito mostrare come la violenza sulle donne possa essere perpetrata da “persone perbene” , amici, colleghi di lavoro, operai, dirigenti d’azienda, stimati medici o anonimi impiegati poco cambia, sono sempre uomini vicini che ogni giorno stavano accanto alle vittime e che ogni giorno dividevano parte della loro vita. Voluti errori che non solo non permettono di sradicare concetto di patriarcato, ma che sono figli di una cultura maschilista sempre più forte ed invadente.
Perché, che ci piaccia o meno, nonostante la rivoluzione femminista degli anni ’70, in Italia, resiste ancora un eredità “culturale”, una “mentalità comune” che vede ancora la donna come qualcuno di subordinato o peggio ancora qualcosa che “appartiene”, qualcosa che si deve piegare sempre al volere di un uomo, del padre prima del fidanzato / compagno / marito dopo . Uomini che troppo spesso non riescono a rinunciare al “possesso” della persona amata, che non sono capaci di accettare che le loro storie d’amore siano finite.
Perché per un uomo è cosi difficile accettare un abbandono? Perché un grande amore si tramuta in un’ossessione malata? Perché si arriva a rovinare la propria esistenza, finendo in carcere, pur di non concedere alla “propria” donna una nuova vita? A tutte queste domande probabilmente possono rispondere solo gli uomini, anche se credo sia troppo facile fare riferimento ad diversa scala di valori o ad una differente capacità di autocontrollo.
Sia chiaro, la mia non vuole essere una generalizzazione, ma sono fermamente convinta che il confine tra “buoni e cattivi” sia sempre troppo labile soprattutto in questo caso perché la volontà di imporsi, con la forza bruta, fa da sempre parte della natura umana.
Stefania Noce, la ragazza catanese assassinata il 27 dicembre dall’ex fidanzato, era una militante femminista ed in uno dei suoi articoli scriveva :”le donne sono ovviamente persone di sesso femminile prima ancora di essere mogli, madri, sorelle e quindi, che nessuna donna può essere proprietà oppure ostaggio di un uomo, di uno Stato, né, tanto meno, di una religione." Ed è proprio contro questo persistente senso di “ proprietà” che siamo chiamate a lottare ogni giorno perché per cambiare le radicate abitudini mentali e culturali, bisogna partire dalla convinzione che la violenza esercitata su ogni altra donna è violenza esercitata su di ognuna di noi, nessuna è immune e come diceva Joice Lussu” una liberazione a titolo personale non esiste, o ci si libera tutte o nessuna è libera", perché la prossima potrebbe essere ognuna di noi. .