Mercoledì, 12 Febbraio 2014 00:00

Lavorare non è per giovani, di disoccupazione e precarietà

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Secondo un rapporto dalla commissione lavoro della Camera dei Deputati, in Italia ci sono 7 milioni di “soggetti in situazione di disagio occupazionale”. In questo contesto esiste una questione generazionale che caratterizza il nostro paese: siamo la realtà europea dove per un giovane è più probabile rimanere disoccupato, rispetto alle altre classi di età. Non solo, siamo l'unico caso di tutto il vecchio continente in cui ci sono più "scoraggiati" (2,9 milioni di persone che non cercano più impiego) che disoccupati (2,7 milioni).

Da qualche mese i telegiornali insistono nel dare visibilità al dato della disoccupazione giovanile, ignorando però di analizzare la situazione nello specifico e quindi evitando di ragionare criticamente sugli effetti dei numerosi interventi legislativi che si sono susseguiti dal pacchetto Treu ad oggi. Il rapporto già citato della Camera è estremamente chiaro: dopo il "percorso di riforme legislative del mercato del lavoro avviatosi nel 1997 (...) la situazione attuale sembra essere ritornata la medesima di allora".

A leggere le varie interviste delle parti sociali e le numerose analisi facilmente rintracciabili sul web appare chiaro come non esista alcuna forma contrattuale in grado di risolvere il problema dell'occupazione giovanile. Le nuove generazioni affrontano gli studi con il costante terrore di non trovare lavoro: viene loro detto che la flessibilità è un punto irrinunciabile ormai, che non ci si può più permettere di avere certezze, perché neanche le aziende possono averle. Dopo anni di precarietà emerge che questa non ha influito minimamente in positivo nei dati complessivi occupazionali.

Svincolare le aziende da parte delle loro responsabilità sociali non è quindi stato utile in nessun modo per i giovani (e i lavoratori in generale).

Non solo. La maggioranza assoluta di chi usufruisce di incentivi e agevolazioni assumerebbe comunque. L'apprendistato rappresenta l'esempio più recente e significativo per spiegare l'inadeguatezza delle risposte politiche ai problemi di inoccupazione. Il fallimento di questo strumento di avviamento al lavoro è ammesso da tutti, anche perché le cifre sono inequivocabili (solo ). Confindustria e buona parte del mondo imprenditoriale, stando alle interviste pubblicate sulle testate locali e nazionali, ritengono che il problema sia negli eccessivi vincoli previsti dalle leggi nazionali e locali. La soluzione starebbe in una semplificazione burocratica, nel rendere omogenee le regole in tutta la penisola (superando le competenze regionali) e nell'alleggerire il più possibile il vincolo all'assunzione a tempo indeterminato. Questa forma di inserimento lavorativo è in realtà utilizzata, per citare il professor Michele Tiraboschi, "come contratto temporaneo e flessibile volto ad abbattere il costo del lavoro" o come modo per risparmiare in un'assunzione che comunque si sarebbe dovuta fare. La formazione del dipendente è nella maggior parte dei casi una scusa per pagare meno, lo Stato e il lavoratore.

In un contesto di crisi economica, il costo del lavoro è solo un pretesto dietro cui nascondere il fallimento di un impianto produttivo e l'assenza di proposte strutturali. Non a caso in Italia si discute di riforma dell'istruzione e delle forme contrattuali lavorative come se fossero ambiti separati, arrivando anche a sopprimere la direzione del MIUR dedicata all'istruzione tecnica (che si occupava anche del rapporto scuola-lavoro).

I giovani italiani non hanno nessuno strumento per orientarsi dopo (o durante) gli studi. Solo l'1,6% della nuova manodopera ha trovato lavoro grazie ai Centri per l'impiego (dati Istat 2012). Non c'è niente di strano e anzi questo si spiega con relativa facilità: abbiamo solo 7.500 addetti ("molti dei quali precari"), a fronte dei 77.000 della Gran Bretagna e dei 115.000 della Germania. Non solo. Tra il 2005 e il 2010, secondo fonti Eurostat, solo l'1,5% dei fondi stanziati per interventi di politica del lavoro è stato destinato ai servizi per il lavoro.

Non stupisce che l'italia sia il paese europeo in cui c'è il maggior numero assoluto di lavoratori in proprio senza dipendenti, soprattutto tra i giovani (sono 1.310.267 gli own-acount workers tra i 15 e i 39 anni) .Ci si mette in proprio e spesso si offrono servizi che le aziende preferiscono affittare anziché inglobare all'interno della propria struttura. Questo in un contesto dove "l'aggravio contributivo per i veri lavoratori autonomi non iscritti a ordini professionali appare ingiustamente penalizzante", secondo la Camera del Parlamento italiano.

Per rendere chiara l'assurdità delle politiche nazionali è utile citare un paio di dati relativi al taglio della spesa pubblica, "100,4 miliardi in meno di spesa per investimenti e una trentina di miliardi in più di spesa corrente" (fonte Sole 24 Ore).

In Italia esiste una questione giovanile, perché più che altrove le nuove generazioni pagano le conseguenze della crisi e dei tagli ai servizi. Pensare però di affrontare il tema in modo separato rispetto al resto del contesto economico è funzionale a un ulteriore indebolimento delle nuove generazioni. I dati dimostrano che nessuno è interessato a promuovere nuove forme di lavoro, così come è evidente che la precarizzazione e i tagli del costo del lavoro sono funzionali solo a risparmi aziendali che non comportano maggiori investimenti.

Senza sapere per chi produrre e cosa produrre, senza un ruolo attivo dello stato (o dell'Europa) all'interno del mercato del lavoro non esiste legiferazione che possa risolvere i problemi. Occorre quindi denunciare la pretestuosità di chi teorizza lo scontro tra generazioni, dando la colpa ai "troppo tutelati", e evidenziare le chiare responsabilità delle forze politiche che fino ad oggi non hanno voluto (o saputo) rivendicare la centralità del lavoratore all'interno dell'economia, anziché delle aziende e degli imprenditori. In questo senso l'attacco alla scuola pubblica e all'università di massa fa parte di un disegno complessivo che vuole le nuove generazioni in grado di rispondere esclusivamente agli interessi "del mercato".

Non è un caso che l'economista Thomas Piketty denunci come si sia tornati ad un sistema economico simile al XIX secolo, dove il rapporto tra rendita del capitale e reddito è fortemente schiacciato sulla rendita finanziaria (l'influenza del lavoro e dell'impresa è secondaria nell'andamento dell'economia).

Il lavoratore ormai non conta molto, i rapporti di forza tra capitale e lavoro sono "scomparsi" in una visione della società dove tutti sarebbero sulla stessa barca. La priorità dei giovani (ma non solo) è quella di sopravvivere, a costo di dare le colpe dei propri problemi ai nonni e ai genitori, piuttosto che al datore di lavoro, per il quale si è disponibili a offrire ore in più gratuite, rinunce ai diritti e a prendere parte ad una guerra tra poveri.

Un primo passo importante sta nel riuscire a chiarire che tra le modifiche alla normativa sui rapporti di lavoro e la creazione di nuovi rapporti di lavoro non ci sono legami, che non è rinunciando alla propria dignità che si risolveranno i propri problemi.

Fonti principali usate e citate

http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/bollettini/pdf/2013/10/16/leg.17.bol0104.data20131016.com11.pdf

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-02-10/il-lavoro-proprio-e-soli-064209.shtml?uuid=ABavUWv

 Luciano Cimbolini, Gianni Trovati, «Investimenti Pa, tagliati 100 miliardi», Il Sole 24 Ore 10 febbraio 2014, p. 6

 Giorgio Barba Navaretti, «Rivoluzione capitale», Il Sole 24 Ore Domenica 9 febbraio 2014, p. 39

Ultima modifica il Martedì, 11 Febbraio 2014 10:54
Dmitrij Palagi

Nato nel 1988 in Unione Sovietica, subito prima della caduta del Muro. Iscritto a Rifondazione dal 2006, subito prima della sconfitta de "la Sinistra l'Arcobaleno". Laureato in filosofia, un dottorato in corso di Studi Storici, una collaborazione attiva con la storica rivista dei macchinisti "ancora IN MARCIA".

«Vivere in un mondo senza evasione possibile dove non restava che battersi per una evasione impossibile» (Victor Serge)

 

www.orsopalagi.it
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