Giovedì, 13 Febbraio 2014 00:00

Una questione di conflitto sociale

Scritto da
Vota questo articolo
(3 Voti)

In vista dell'iniziativa di sabato 15 febbraio (clicca qui per l'evento Facebook),

vi proponiamo un'intervista a Carlo Formenti uscita su uno dei nostri numeri cartacei

1) Sei stato tra i primi a utilizzare la definizione di “quinto stato”, ormai molti anni fa…

In effetti ho la responsabilità di aver lanciato il termine in Italia, quando, con alcuni giovani amici, misi in piedi un sito che si chiamava appunto Quinto Stato. Con quel termine mi riferivo ai nuovi strati di classe emersi con la Nuova Economia, gli stessi che altri chiamavano classe creativa, classe hacker o lavoratori della conoscenza. Sostanzialmente si trattava dei tecnici che operavano nella produzione di hardware e software, con un forte riferimento alla

situazione americana degli anni ’90. Quell’esperienza storica suscitò grandi aspettative e speranze anche nelle sinistre radicali europee: in particolare, si pensava che i lavoratori cognitivi fossero in grado di sviluppare elevati livelli di autonomia rispetto al controllo capitalistico sulla produzione. Il capitale, si diceva, era costretto a concedere loro ampi margini di autonomia perché la loro creatività individuale e collettiva era il fattore strategico per la produzione di valore in quei settori (ma anche in altri). Pur ammettendo che quei soggetti erano segnati da una serie di contraddizioni, in quanto portatori di una mentalità individualista, competitiva e non antagonista nei confronti del mercato, si pensava che tali limiti fossero riscattati dalla loro capacità di sviluppare nuove forme di cooperazione spontanea e gratuita attraverso la rete (l’ “economia del dono” o la “terza via” di cui parlavano autori come Yochai Benkler). Per queste ragioni, anche senza ignorare le problematicità associate a tale strato emergente, avevo ipotizzato che esso potesse in qualche modo agire da catalizzatore di una nuova alleanza politico-culturale con altri strati proletari: dagli operai tradizionali alle nuove forme di lavoro precario che venivano proliferando soprattutto nei settori del terziario arretrato.

2) Oggi però sei ritornato su questa posizione, come ci avevi detto già sul numero 0 di questa rivista.

Successivamente ho compiuto una radicale autocritica nei confronti di questa ipotesi, la quale, più che sul piano astratto, sul piano cioè della composizione tecnica del lavoro, è apparsa infondata dal punto di vista pratico-politico, vale a dire dal punto di vista della composizione politica del lavoro. L’analisi di classe va infatti sempre condotta a partire da contesti storici determinati: nel corso del tempo essa cambia – a volte anche con ritmi assai rapidi - sia in termini tecnici che politici. Ciò che interessa, almeno dal mio punto di vista, è capire di volta in volta quali sono i settori che, in un contesto storico determinato, possono incarnare il più alto livello di contraddizione tra capitale e lavoro. Ebbene: sotto questo aspetto, la situazione è cambiata radicalmente nel primo decennio del XXI secolo rispetto agli anni ‘90, grazie agli effetti devastanti di una crisi economica che ha rappresentato un ulteriore passaggio della controrivoluzione neoliberista iniziata negli anni ’80. Il capitale ha intensificato il suo attacco, quella che Gallino chiama la lotta di classe dall’alto, sfruttando il meccanismo della crisi per distruggere i rapporti di forza conquistati dai lavoratori cognitivi, dei quali è riuscito a liberarsi assai più facilmente di quelli che dell’operaio-massa aveva strappato negli anni’60 e ’70. Grazie ai licenziamenti di massa, al decentramento delle mansioni in Cina, India, Russia, Brasile e alla drastica riduzione dei livelli di reddito, si può dire che gli strati di classe cui facevo riferimento per definire il quinto stato oggi non esistano quasi più. Nel settore delle tecnologie avanzate un’esigua minoranza della forza lavoro che è stata cooptata nelle stanze dei bottoni (cioè negli staff di Amazon, Google, Facebook, Apple e delle poche altre aziende che contano sul web): il resto è sprofondato nell’immiserimento relativo e assoluto insieme ad altri strati della classe media (negli Stati Uniti ma non solo), finendo spesso per condividere le condizioni di lavoro e di vita in cui si trovano i working poor del terziario arretrato, a fianco dei migranti. La mia ipotesi di quinto stato ha dunque perso ogni attualità con la sconfitta del soggetto sociale a cui la legavo.

3) Quindi tu guardavi più verso l’altra parte dell’oceano che all’Italia, mentre la definizione di quinto stato è particolarmente di attualità nel dibattito contemporaneo del nostro paese, almeno a sinistra.

Il dibattito sul ruolo di questi lavoratori in Italia è molto articolato e vede sfumature estremamente differenti: secondo me c’è però un’asse comune, che ho tentato di evidenziare criticamente nel mio ultimo libro (Utopie letali, clicca qui per la nostra recensione). C’è chi parla di lavoratori autonomi di seconda (o terza) generazione, come Sergio Bologna, chi di capitalisti-personali, come Aldo Bonomi e chi, come Ciccarelli, di un quinto stato concepito come un soggetto assai più fluido e composito (più vicino, dunque, al concetto negriano di moltitudine piuttosto che al concetto marxiano di classe sociale). La mia critica accomuna tutte queste posizioni a partire dal fatto che esse valutano positivamente quello che chiamano l’esodo dal lavoro dipendente, in quanto lo ritengono un momento di emancipazione di certi strati di classe dal controllo capitalistico. Io penso, al contrario, che la crescita del (cosiddetto!) lavoro autonomo sia in primo luogo l’effetto di un feroce attacco del capitalismo finalizzato a smembrare il corpo della classe, un attacco che si è rivelato vincente nella misura in cui è riuscito a indebolire i rapporti di forza del lavoro e a renderlo impotente nei confronti di un comando capitalistico che sfrutta le tecnologie digitali: attraverso la rete si può disperdere la forza lavoro pur mantenendo su di essa un controllo ancora più rigido di quello consentito della catena di montaggio della fabbrica taylorista. È quello che chiamo taylorismo digitale, un’organizzazione del lavoro che, grazie al software, determina contenuti e metodi del lavoro controllandone l’elemento mentale, più che quello fisico, e che aumenta l’alienazione spostando il confine tra tempo di vita e tempo di lavoro; la vita messa lavoro (è quello che qualcuno chiama biocapitalismo, anche se io ho qualche perplessità su questo termine che non ho qui il tempo di spiegare). A tutto ciò vanno aggiunte le conseguenze della proliferazione del precariato: il precariato, come ha giustamente osservato Andrea Fumagalli, non rappresenta più una condizione specifica di alcuni strati della forza lavoro, ma è divenuto una condizione generale, trasversale che accomuna tutti gli strati della forza lavoro: dipendenti, a termine, autonomi, ecc. E tuttavia, come nota ancora Fumagalli, si tratta appunto di una “condizione”, insufficiente a definire un’identità di classe comune. A maggior ragione non possono essere considerati una classe sociale a sé i lavoratori autonomi di seconda generazione, i quali rappresentano piuttosto un “effetto collaterale” dell’attacco capitalistico che ha fatto esplodere in mille schegge il “diamante del lavoro”. Il lavoro autonomo, in tutte le sue forme, non può essere il protagonista di un passo in avanti nello sviluppo dei rapporti di forza del lavoro, in quanto rappresenta piuttosto un balzo di dieci passi indietro, sia in termini di autorganizzazione politica e sindacale, sia in termini di consapevolezza culturale: questi lavoratori sono drogati dai miti del merito individuale, della competizione selvaggia, del giocare a chi si auto sfrutta di più, abbattendo ogni limite di orario e abbassando il prezzo della proprie prestazioni per “fare fuori” i colleghi vissuti come concorrenti e non come membri della stessa classe sociale. È quanto di peggio si possa immaginare nei rapporti di forza tra capitale e lavoro.

4) Quindi non resta che rassegnarsi a questa situazione?

No, perché l'analisi della composizione di classe va sempre condotta a livello globale, e, da questo punto di vista, come ha messo in luce Karl Heinz Roth, non sono presenti solo le tendenze alla scomposizione del lavoro ma anche potenti controtendenze alla ricomposizione (basti pensare alle centinaia di milioni di nuovi operai in Cina, India, Brasile e Sudafrica). Inoltre si stanno sviluppando inediti livelli di antagonismo anche in Occidente, non solo con i vari movimenti degli Indignati, ma anche e soprattutto con nuove forme di lotte territoriali e con la costante crescita dei conflitti nei settori del terziario arretrato. Per la prima volta, per esempio, i lavoratori americani delle grandi catene commerciali si sono organizzati e sono scesi in lotta, e questo è un evento di portata strategica in quanto i nuovi posti di lavoro, tanto negli Stati Uniti, quanto in molti altri paesi occidentali, si concentrano ormai nei settori a basso reddito del terziario arretrato. Io penso che questi, assieme alla enorme massa dei migranti che “assediano” le nostre metropoli, siano oggi gli interlocutori obbligati di qualsiasi progetto di ricomposizione di un progetto di lotta antagonista. Quali i possibili alleati di questo nuovo “blocco storico”? Mi pare che l’unica altra forza che stia “tenendo botta” sul piano della conflittualità antagonista siano gli studenti, la forza lavoro in formazione. Non a caso in tutti i pesi occidentali stiano oggi assistendo un feroce attacco frontale all’università di massa: dall’aumento delle tasse universitarie (in Inghilterra sono state triplicate le tasse di iscrizione, mentre negli USA lo si era già fatto da tempo), al tentativo di tornare a imporre una rigida selezione di classe per gli accessi ai livelli più elevati di istruzione. Si vuole riprogettare l’università come luogo di formazione delle élite politiche e manageriali, funzionali alla riproduzione di uno strato sociale privilegiato e vietato alle classi subordinate. Queste ultime vengono espulse dalle università, oppure costrette ad accedere a corsi progettati per formare forza lavoro disciplinata, flessibile e disposta ad accettare livelli salariali molto bassi: il sistema tre più due va interpretato in questa ottica. Gli obiettivi sono molteplici: scomporre la forza lavoro intellettuale, mettendone in feroce competizione reciproca i componenti attraverso la retorica del merito, nonché sfoltendone radicalmente i ranghi, sia perché i nuovi meccanismi di accumulazione hanno meno bisogno di laureati, sia perché in questo modo si riduce la concentrazione di massa dei corpi che condividono la stessa condizione; si smonta la fabbrica dei saperi e la “classe pericolosa” che vi si concentra esattamente come si è smontata la fabbrica fordista per fare fuori l’operaio massa (non a caso negli USA e in Inghilterra si sta spingendo moltissimo per sostituire le lezioni tradizionali con i corsi online, l’equivalente accademico del lavoro a domicilio degli sviluppatori che producono applicazioni per le piattaforme web).

5) Quindi l’obbiettivo delle partite IVA deve essere quello di rientrare in forme di lavoro subordinato?

No. Certo questa è attualmente la linea sindacale. In Cgil si stanno rendendo sempre più conto di non poter trascurare questi lavoratori, altrimenti finiranno per non rappresentare più nessuno. Visto che oggi le forme di lavoro che un tempo si definivano atipiche sono diventante maggioritarie, i sindacati, coerentemente con la loro tradizione, tentano di affrontare il problema rincorrendo nuove forme di normazione. Intendiamoci, io non sono contrario per principio al fatto di difendere certi diritti tentando di contrattualizzarli. Ci sono per esempio esperienze interessanti, come quella delle lotte dei lavoratori intermittenti dei settori dello spettacolo in Francia, descritta da Maurizio Lazzarato, i quali hanno ottenuto un salario garantito se svolgono attività per un minimo di giorni all’anno. Credo tuttavia che, se è vero che la scomposizione di classe di questi strati sociali è irreversibile, il problema fondamentale non sia quello di difendere i loro interessi attraverso forme contrattuali di tipo classico (anche perché questo tipo di trattativa, in molti casi, potrebbe avvenire solo sul piano individuale). E allora? In primo luogo si dovrebbe rinunciare alla suddivisione in categorie, dato che precariato e il lavoro (più o meno) autonomo sono condizioni trasversali non riconducibili a una logica corporativa di settore. Occorrerebbe inoltre superare le tradizionali distinzioni tra sindacato, movimento e partito: servono nuovi modelli aggregativi e federativi. L’unico modo per sviluppare organizzare e rappresentare una nuova coscienza di classe consiste, a mio parere, nel riscoprire un modello organizzativo che fu tipico delle origini del movimento operaio dell’800: dobbiamo rifare le Case del Popolo, ripartire dal territorio, fare massa a partire dai luoghi, dobbiamo fare un passo indietro per farne due in avanti, dopo i cento passi indietro che ci hanno costretto a fare negli ultimi decenni. Il sindacato, con la sua articolazione in categorie, è morto e sepolto: è un residuo del secolo scorso. In Italia questo si vede forse meno, ma negli USA i dati sono tragici: solo il 7% della forza lavoro è iscritta al sindacato (30-40 anni fa la percentuale era del 35%). La ricostruzione non può avvenire nelle forme classiche, deve inventarne di nuove.

6) In questo però non c’è una distanza rispetto alle proposte di chi ancora utilizza la categoria del quinto stato nelle sue analisi.

Può darsi, ma ciò che non condivido di queste letture, come ho già detto, è la valutazione positiva dell’esodo dal lavoro dipendente inteso come percorso emancipativo. Sono impostazioni che rispecchiano vecchi vizi della tradizione operista (non a caso, in Utopie letali prendo congedo dai dogmi operaisti, dei quali salvo solo la categoria di composizione di classe). I disastri accumulati dal postoperaismo negli ultimi anni, il suo fallimento filosofico e teorico oltre che politico, nasce dal fatto che questa teoria è rimasta ingabbiata nel paradigma degli anni 60’ ’70, in base al quale non è mai il capitale a determinare lo sviluppo economico e sociale, ma sono le lotte operaie; detto altrimenti, il capitale si limita a reagire e rincorre le pratiche dell’autonomia operaia. Ebbene questa tesi ha avuto senso negli anni in cui è nata; il guaio è che poi si è voluto elevare una contingenza storica a principio assoluto, ricercando nuovi interpreti in grado di svolgere il ruolo dell’operaio massa. Si è così persa completamente di vista la potenza della controffensiva capitalista che, dopo avere distrutto quella forma di autonomia dei lavoratori, l’ha ricostruita come una sorta di “falsa autonomia”, funzionale alla nuova fase di accumulazione fondata sui processi paralleli di finanziarizzazione e digitalizzazione. Come annota Tronti: è vero che la classe operaia ha influenzato il capitale, ma poi il capitale è stato a usa volta capace di sfruttare l’autonomia operaia per compiere la “sua” rivoluzione (quella che Gramsci avrebbe definito una rivoluzione passiva). Dopo decenni di guerra di classe dall’alto, come l’ha definita Gallino, è venuto il momento di invertire la rotta, ma non sarà il Quinto Stato a guidare la controffensiva.

Ultima modifica il Mercoledì, 12 Febbraio 2014 23:53
Beccai

Il profilo per gli articoli scritti a più voci, dai collaboratori del sito o da semplici amici e compagni che ci accompagnano lungo la nostra esperienza.

Devi effettuare il login per inviare commenti

Free Joomla! template by L.THEME

Questo sito NON utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti.