Le cose non stanno proprio così. Scientemente viene tralasciato il fatto che investimenti nel settore pubblico non se ne fanno da anni, e questo la dice lunga sulla necessità di buona parte della classe politica di colpevolizzare chi ci lavora preferendo, alla bisogna, sfoderare qualche numero ad uso e consumo del sensazionalismo popolare anziché rispondere del fatto di non avere alcuna politica di sviluppo né di innovazione.
Anche nei settori di tradizionale preminenza dell'attore pubblico - come i beni culturali, la pubblica istruzione e università, la sanità - l'opzione di mercato segna il passo dei tagli lineari e dell'adeguamento ai ritmi di sviluppo di un'economia stagnante, mentre lo Stato non riesce più a fornire un'idea di futuro, limitandosi all'applicazione di direttive decise altrove e sui cui processi democratici è lecito avere qualche dubbio.
Visto così, il mancato rinnovo contrattuale nella scuola assume caratteri ideologici ben precisi: dal 2009 il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro è stato smontato pezzo dopo pezzo nel suo impianto normativo.
Finite le garanzie sindacali nella contrattazione decentrata - sotto i colpi del decreto legislativo 150 -, e derogati gli automatismi stipendiali, al contratto nazionale resta molto poco della sua portata ideale e così interi pezzi di esso migrano nella regolazione legislativa o, peggio, amministrativa.
Discutibili cedimenti sindacali, all'insegna del “pochi, maledetti e subito”, hanno disposto poi pure la sostanziale fine dei fondi d'istituto, relegando il ruolo delle RSU degli istituti al ruolo di semplici contabili e svuotando di ogni significato residuo pure la presenza del sindacato a scuola, senza che essa abbia però rivivificato – magari per reazione - l'azione degli organi collegiali, anzi.
La privatizzazione della scuola pubblica, nel contesto di una destrutturazione della partecipazione, è sempre più avanzata: prima le riforme aziendalistiche di Brunetta e co., poi l'aggancio dell'autonomia scolastica alle pratiche confindustriali hanno progressivamente minato la natura critica e libera della scuola della Costituzione.
Sullo sfondo, i problemi economici hanno lasciato campo libero alle deroghe su ferie, neo-assunti e precariato, regalando alle destre un'utile vittoria ideologica sulle stabilizzazioni: da farsi rigorosamente a costo zero e alle peggiori condizioni possibili, come il taglio del primo gradino di carriera che porta a nove anni il primo scatto di anzianità.
Il blocco contrattuale rappresenta, oggi, una leva attraverso cui si cerca di informare alle politiche più retrive il mondo del lavoro, elevando il debito pubblico a ragione di rinvio al legislatore delle norme che ne regolano la vita, nonostante queste avessero trovato un disciplinare pattizio fin dal 1993, sotto la spinta dei, pur deprecabili, trattati di Maastricht.
Chiaro, al punto di apparire banale, è il fatto che l'evoluzione pedagogica, politica e sociale non può non recepire gli stimoli in una comunità educante.
Ascoltare gli operatori, i lavoratori della scuola, portando in un nuovo contratto nazionale il ruolo dello Stato nell'ascolto dei bisogni delle persone esaltando l'autonomia del lavoro in una nuova stagione di partecipazione, popolare e sindacale, forse sarebbe più edificante che modificare i rapporti di forza confidando in un contratto scaduto da un lustro.
La classe politica eviterebbe così di trascinare lo Stato in soventi soccombenze di contenzioso. Facile capire chi pagherà per i vari esperimenti “spot”: dai presidi trasformati in improbabili monarchi ai prof a chilometro zero, come casse di pomodori, retaggio del peggior tardoleghismo.