Con la rottura unilaterale del compromesso democratico, il capitalismo non riconosceva più nulla di tutto questo al proletariato, né a livello internazionale (da cui le guerre, ovunque, untuosamente definite “missioni umanitarie”) né a livello nazionale (da cui la subordinazione consociativa oppure l’emarginazione del Sindacato).
Questa politica sindacale portava con sé un colossale spostamento di reddito dai salari, dagli stipendi e dalle pensioni verso i profitti e le rendite. Nel 1980 la percentuale di redditi da lavoro dipendente era il 49,6% del Prodotto interno lordo; nel 1993 (con gli accordi “concertativi”) questa percentuale scende al 45,8%, nel 2000 diventerà del 40,5%: 10 punti di PIL in meno! È un colossale spostamento di ricchezza dalle tasche dei lavoratori a quelle dei padroni che continuerà e si accentuerà ininterrottamente anche in seguito.
È questa la storica sconfitta materiale della classe operaia su cui si innesca il berlusconismo, perché – ormai lo sappiamo – quando si perde salario e si perdono posti di lavoro si perde anche potere e si perdono diritti.
La rottura del compromesso democratico operata dalla borghesia capitalistica significa in realtà un attacco diretto alla democrazia, perché quelle politiche economiche degli anni Novanta, esattamente come le politiche di Berlusconi ieri e di Monti oggi, non si fanno, non si possono fare, in un quadro di vera democrazia. E infatti l’attacco più duro ci venne portato sul terreno istituzionale, in quel punto vitalissimo e cruciale che sono le leggi elettorali, cioè le regole del gioco. Il quadro politico in cui Rifondazione dovette muovere i primi passi è stato segnato non solo dall’attacco al lavoro e dai “massacri sociali” dei vari Governi Amato e Ciampi e Berlusconi e Dini (quest’ultimo col voto di fiducia anche di un deputato pugliese, che noi con generosità comunista non espellemmo: e sbagliammo), ma appunto anche dall’attacco alla democrazia cioè alla proporzionale (proporzionale significa solo, ricordiamocelo, che il numero dei parlamentari eletti è in proporzione al numero dei voti ricevuti).
E fu il PDS di Occhetto, in prima persona, a raccogliere le firme insieme a Segni per abbattere la legge elettorale proporzionale, che è il fondamento necessario (e direi: logico) di tutto l’impianto della nostra democrazia costituzionale; e fu D’Alema a concordare addirittura con Berlusconi un’ipotesi di Repubblica presidenziale e non più parlamentare (che poi Berlusconi, non D’Alema, fece saltare).
Riguardando anche autocriticamente alla nostra storia di Rifondazione, dobbiamo tuttavia riconoscere che la gabbia del sistema bipolare che si cercò di imporre con ogni mezzo al Paese rappresentò per i comunisti un problema oggettivamente gravissimo: al di là dei limiti di direzione politica, che certo ci furono e furono gravi, quel bipolarismo forzoso costringeva a oscillare fra l’inefficacia del settarismo e l’inefficacia dell’opportunismo (e anche le 8 scissioni, 8!, che abbiamo subito in venti anni sono state quasi sempre legate a questo problema del bipolarismo coatto).
Oggi, nella stessa logica antiproporzionalista e antidemocratica vanno gli orrendi premi di maggioranza che si sommano agli orrendi sbarramenti nell’orrenda legge elettorale “porcellum”, una legge che il PD si è guardato bene dal modificare perché in realtà gli andava più che bene. Eppure con la proporzionale Berlusconi sarebbe stato addirittura impensabile, e solo i trucchi della legge elettorale gli hanno consegnato una schiacciante maggioranza di seggi pur non avendo egli superato mai il 37,8% dei voti espressi, mentre con quella legge elettorale non hanno neppure un rappresentante i partiti con meno del 4% dei voti alla Camera (che diventa addirittura l’8% al Senato); il 4% dei voti significa, non dimentichiamocelo mai, circa due milioni di voti espressi: e perché mai due milioni di votanti ... meno 1 non debbono avere nessun rappresentante? È una autentica vergogna!