“Quello che stiamo vivendo”, ha esordito Sandra Bonsanti, presidente di Libertà e Giustizia, “è un periodo difficile della nostra democrazia, i cui spazi vengono sempre più erosi e divorati da poteri economico-finanziari, da entità grige che niente ricordano della democrazia rappresentativa e partecipativa, la quale viene esautorata dei suoi poteri, della sua efficacia, del suo portato politico e della sua stessa essenza. Il lavoro di Libertà e Giustizia in questi anni è servito a rinvigorire le nostre radici ed è ciò che continua a fare perché quello a cui stiamo assistendo è un continuo attacco a quelle radici che affondano nella nostra storia e vita democratica. Basta dare uno sguardo alle vicende delle ultime ore per farci un’idea di questa assidua minaccia perpretata ai danni di essa: la riforma della Rai con un decreto deciso a scatola chiusa dal nostro premier-padrone; il decreto del jobs act, che ha smantellato lo statuto dei lavoratori; il patto del Nazareno sulla legge elettorale. Insomma tutte operazioni preoccupanti che dovrebbero indurre i cittadini a uscire di casa e scendere in piazza a protestare. Putroppo però in un periodo di crisi la maggiorparte delle persone avverte come normali, o naturali o indispensabili cose che in altri momenti le avrebbero fatte urlare e ribellare".
Fattori ha parlato proprio di uso della crisi per imporre come necessarie e indispensabili certe misure che di fatto non lo sono ma che vengono fatte digerire in nome del sacrifico a cui tutti dobbiamo sottoporci proprio a causa della difficile fase in cui imperversiamo. L’impegno preso da Libertà e Giustizia è dunque politico (sebbene senza intenzione di costruzione di un partito) e mirante a una più profonda consapevolezza di quello che viviamo e di quello che ci stanno rubando, degli spazi di partecipazione e scelta democratica (che non equivale soltanto al diritto di andare a votare durante le elezioni) di cui ci stanno privando e indurci a delle riflessioni che ci portino, di nuovo, a essere cittadini non apatici ma attivi, informati e pronti a riprendersi quella democrazia che in maniera sempre più accelerata viene svuotata nei suoi nuclei principali, mortificata e lasciata morire e sacrificata sull’altare di una governance economico-finanziaria (Fattori parla infatti di post-democrazia austeritaria) o lobbistica come fosse un vecchio e anacronistico idolo non più necessario e passato di moda.
Con questo convegno – ha esclamato Paul Ginsborg, professore di storia contemporanea presso la facoltà di storia dell’Università degli Studi di Firenze e voce importante del movimento – Libertà e Giustizia vuole attirare l’attenzione sul fatto che stiamo entrando in una nuova fase in cui la democrazia viene messa costantemente sotto minaccia per almeno due aspetti: da un lato assumono sempre maggior importanza articoli impregnati di razzismo e che pertanto costituiscono forti attacchi ai principi cui la democrazia dovrebbe ispirarsi e di cui dovrebbe vivere; dall’altro la cultura e la politica democratiche sembrano assolutamente impreparate di fronte alla sfida imminenente che le si para davanti e anziché risultare irrobustita finisce per somigliare sempre di più a un mero involucro, a uno striminzito guscio vuoto. Il servilismo dell’informazione, la concentrazione di questa in poche mani capaci di pilotarla o ridurla a seconda dei propri interessi, gli ostacoli all’estensione e all’espansione dei diritti civili ed umani... sono tutti problemi a cui la democrazia dovrebbe sentirsi chiamata a risolvere o a cercare risposte, mentre ne esce come prima impotente vittima. L’Europa potrebbe offrire un’ancora di salvezza dando risposte forti e offrendo alternative risolute contro la prospettiva populista e razzista. Una nuova Europa la cui unità non sia semplicemente quella monetaria, insufficiente e inefficace senza una politica fiscale comune con 18 debiti diversi per ogni stato.
Il mercato unico non può resistere senza stato , ha detto poi Fattori, che ha aggiunto che dalla crisi non si esce “lasciando fare il plebiscito permanente del mercato”, subendo “questa rivoluzione silenziosa” (cit. Barroso) che ci cala dall’alto, questa stretta austeritaria e oligarchica di gruppi finanzairi che sfruttano quella crisi che essi stessi hanno prodotto per deparlamentizzare la democrazia, per imporci politiche di austerità che mettono in ginocchio i paesi, che penalizzano gli spazi di democrazia partecipativa. Dalla crisi si esce piuttosto aumentando questi spazi e attraverso la costruzione di un diritto europeo capace di contrastare l’assolutismo di simili poteri. Non se ne esce con meno democrazia, ma, al contrario, con più democrazia.
Per Zagrebelsky, noto giurista italiano (è stato anche presidente della Corte costituzionale nel 2004) e presidente onorario di Libertà e Giustizia, ribadisce che come per una sorta di virtuoso paradosso, è stata proprio la crisi a far riemergere energie che mai l’associazione di cui fa parte avrebbe mai sperato di avere. È stata una rinascita. Bisogna morire un po’, a volte, proprio per poter rinascere, per rigenerarci, ancora più forti e solidi; senza piccole morti (“la petite mort”, come la chiamava Geroge Bataille, riferendosi però, nel suo romanzo, a qualcosa di un po’diverso!) non ci sono rinascite possibili, senza morire un po’ ogni tanto, quella che trascorriamo non sarebbe vita ma mera esistenza.
Comunque, innanzitutto, continua il giurista ciò che occorre fare è un’analisi per esaminare i tempi che stiamo vivendo, per prendere o aumentare la nostra consapevolezza. La democrazia, non solo in Italia, ma nel mondo, soffre di qualche acciacco. Esistono addirittura libri che parlano di post-democrazia e quel post è piuttosto inquietante così come il neologismo recente di democratura. È vero che le forme esteriori della democrazia non sono state stravolte, ma ciò che è stato e sta continuando ad essere snaturato e minacciato è il suo contenuto e questo convegno, anche se non ha l’ambizione di fornire verità - che probabilmente nessuno ha in mano – cerca di stimolare la riflessione e l’analisi, contando sul fatto che ciascuno di noi è dotato di senso critico, anche se troppo spesso preferisce lasciarlo in letargo.
I tempi che stiamo vivendo, possono essere divisi secondo Zagrebelsky in tre tipologie: tempo esecutivo, tempo non politico e tempo tecnico.
Tempo esecutivo: esiste persino un’ideologia dell’esecutivo! Non è casuale il fatto che i vagoni della prima classe dei treni ad alta velocità siano chiamati executive e siano collegati alla business class, proprio a richiamare implicitamente il fatto che esecutivo e affari vanno quasi sempre a braccetto. Va comunque chiarito che esecutivo non equivale a governo esecutivo, sono due cose ben diverse. L’esecutivo è infatti l’organo che, come indica il termine stesso, esegue compiti che gli vengono assegnati da un’altra dimensione o da necessità e scelte che piovono sulla sua testa. Già Rousseau spiegava proprio questo, che considerava il potere esecutivo quello detenuto da un’autorità che facesse rispettare la legge nei casi particolari, quindi non con potere decisionale o tantomeno di legislazione. Nel corso degli ultimi due secoli però alla parola esecutivo si è affiancata la parola governo, ma la funzione di quest’ultimo è e deve essere ben diversa, essendo connessa alla discussione, organizzazione e determinazione dei fini e non alla loro esecuzione. Deve formulare indirizzi politici e qualora venga meno a tale ruolo il governo si annulla lasciando la sola esistenza all’esecutivo. Oggi l’unico compito del governo sembra esser diventato quello di andare dritto alla meta – cosa che dovrebbe appartanere invece all’esecutivo, la cui specificità è proprio quella del “tirare dritto” – e chiunque si frapponga tra questo suo tirar dritto e l’obiettivo da raggiungere è considerato un ostacolo, un guastafeste, un deviante, diventa un impiccio di cui sbarazzarsi.
Tempo non politico: il politico come abbiamo accennato, è inteso come attività di determinazione dei fini, ma esistono, a parere del giurista, due tipi di politica. Una è la nozione di politica che avevano gli antichi, l’altra è la nozione moderna ed esse risultano ben diverse l’una dall’altra. Il ragionare stesso si fonda molto spesso, se non sempre su simili dicotomie, implica cioè una chiarezza cognitiva che implica la contrapposizione di idee, tanto che Norberto Bobbio (maestro dello stesso Zagrebelsky) parlava proprio di “ragionamento per dicotomie”, anche se poi le esigenze della vita pratica necessariamente fanno in modo che le idee cui siamo fedeli si incontrino con le nostre idee pratiche e concrete. La nozione degli antichi non aveva nulla a che vedere con la nozione cui siamo abituati oggi. Nei dialoghi platonici Socrate interroga i suoi interlocutori sulla natura della politica e attraverso la sua nota pratica maieutica che passa da esempi comuni e “profani” (la pratica dell’elengkos) che prendono in esame la figura del “buon tessitore”, del “buon flautista”, del “buon armatore” ecc… arriva a tratteggiare anche la figura del “buon politico”, che come gli altri, è colui che conosce bene le regole dell’ambito che gli compete, ovvero le buone regole del reggimento e della struttura della polis, quello che i greci chiamavano il “buon governo”. E buon governo per gli antichi dell’Atene di V secolo era l’equilibrio della comunità, della città, della polis appunto. Nella visione di Platone poi il governo per funzionare bene avrebbe dovuto esser messo nelle mani dei migliori della città, che per lui erano i filosofi, gli unici che avrebbero potuto guidare rettamente la città e disporne al meglio le strutture, gli unici a poter garantire l’equilibrio e l’armonia senza lacerazioni e fratture derivanti dalle passioni che potevano sviare qualunque altro individuo e quindi comportare la degenerazione del buon funzionamento della città. Aristotele invece, nella sua Politica delineava una forma di governo misto, e delucidava tre forme perfette qualora non si esasperassero precipitando nei loro esiti estremistici e negativi (l’aristocrazia in oligarchia, la monarchia in tirannide e la politia – il buon governo di molti – in democrazia). Comunque, né in un caso né nell’altro la nozione di politica qui non è integrata da criteri di giustizia o di scelta tra i fini. Oggi invece sì, la poltica si interroga sulla giustizia, discute su libertà assoluta o relativa, sull’ingerenza o meno dello stato nella vita dei cittadini (insomma, su liberalismo e statalismo), si pone questioni su una giusta distribuzione delle risorse, sull’estensione dei diritti civili, ecc ecc… o per lo meno, sono tutte domande cui sarebbe chiamata a rispondere. Ma la nostra contemporaneità vede la politica sempre più fagocitata dalle fauci dell’esecutivo, sempre più invasivo e onnipotente, tanto che la politica stessa viene ormai semplicemente assunta come mero dato oggettivo, semplice dato di fatto senza molto spessore.
Basti dare uno sguardo alla recente vicenda greca: il compito e l’attività del governo, per la governance europea che detta i suoi diktat, dovrebbe limitarsi al raggiungimento di equilibri finanziari e dello smaltimento del debito pubblico, senza tanto porsi il problema della giustizia e dell’efficacia pubblica delle riforme, che prendendo di mira solo il superamento del deficit, del debito pubblico rischiano di minare irrimediabilmente le condizioni lavorative e vitali dei cittadini. Il neonato governo greco è succube e lasciato solo in questo braccio di ferro con una dimensione superiore che lo trascende e lo “comanda”, riducendolo (o almeno tentando in tutti i modi di ridurlo) a suo banale esecutivo, cui impone degli obblighi facendoli passare come assolute e indiscutibili necessità.
Siamo in un periodo in cui chiamiamo riforme queste mosse di raggiungimento di fini appetibili alla finanza internazionale, svuotate di principi e ideali di giustizia, di valori democratici e civili che dovrebbero sostenerle. Si definiscono riforme quegli interventi nella sfera pubblica che soddisfino condizioni di natura solo economico-finanziaria che tendano all’abbassamento del debito pubblico e alla crescita del Pil e non miranti a una trasformazione in positivo della società, come indicherebbe invece lo stesso termine “riforma”. Ed ecco che la modifica del mercato-lavoro viene presentata come una riforma, benchè sia una norma che ha reso nullo il valore dei contratti collettivi nazionali, erogabili dai cosiddetti contratti di prossimità. E in questo tipo di “riforme” del mercato del lavoro quest’ultimo finisce per esser degradato a merce da contrattare sul libero mercato, andando contro quel che afferma la nostra Costituzione, nella quale rientra nel nucleo dei valori che costruiscono la dignità della persona e in quanto tale non spendibile sul mercato delle merci.
Il nostro tempo non politico ha perso l’essenza della politica stessa, della dignità umana, dei principi di giustizia, di trasformazione sociale, di vita partecipativa e comunitaria, sbandierando e avvalendosi di formule che sono diventate di una banalità sconcertante (come crescita, modernizzazione ecc..) che fanno perdere di vista valori molto più importanti e preziosi per la vita privata e soprattutto pubblica degli individui, relegandoli sempre di più in un angolino da cui passivamente e con apatica impotenza osserva l’andamento degli eventi, convinto che sia un fatale e unico destino cui non esiste alternativa alcuna.
Tempo tecnico: se non c’è più politica, conseguentemente e logicamente non ci sono più né uomini né donne politici, bensì isituti tecnici, spesso composti da uomini della tecnica finanziaria che detengono ruoli e posizioni chiave. Il governo tecnico è per sua natura conservatore. Si pensi banalmente e prosaicamente al tecnico della televisione: lo si chiama per riparare quel televisore che si è guastato, non per fabbricartene uno nuovo, suo compito o speranza sono quelli di riportarlo al vecchio funzionamento laddove qualcosa si era inceppato. Quando c’è solo la tecnica essa è per definizione riparatrice, conservatrice, rimette in funzione meccanismi che si sono intoppati. Nella loro anima profonda i governi tecnici sono governi ripristinatori e perciò, conservatori. Persino le questioni di giustizia sociale divengono così misure altrettanto conservatrici (vedi misura degli 80 euro, mossa da una logica di conservazione dell’ordine pubblico, messo in pace, almeno momentaneamente da un misero – ma sufficiente, almeno nella sua idea di fondo, a placare i ribollenti spiriti – contentino). Tale affievolimento del politico a favore dell’esecutivo e del tecnico è ciò che è stato ragionevolmente definito “dittatura del presente”, che corrisponde all’idea che noi tutti pensiamo di agire in un tempo che è quello che è e non può essere altrimenti che così, portandoci quindi ad agire subendo il corso degli eventi senza neanche pensare di poter intervenire su di essi, subendo supinamente questa cogente necessità che consideriamo l’unica possibile, che, riecheggiando l’essere parmenideo è e non può non essere altrimenti. Ma questa necessità è un diktat, una, appunto, tacita (ma neanche troppo) e quindi ancor più subdola e pericolosa dittatura del presente, che influenza potentemente proprio perché fomentata e tesa a fomentare la convinzione ciò che è non può che essere così e che ciò che accade non può non accadere in maniera diversa.
Tale convinzione, a detta di Zagrebelsky è l’equivalente moderno del nichilismo, o comunque di una forma di nichilismo che non necessariamente deve coincidere con il nulla, il vuoto, la distruzione totale e a volte costruita o voluta di ogni valore, perché tutto è vano e inconsitente, tutto è interpretazione, tutto è vacuità, ma michilistica può essere anche la situazione di chi vive in questo essere parmenideo che non può essere diverso da ciò che è. Questa condizione di nichilismo apatico porta di conseguenza alla riduzione o persino all’annullamento di qualsiasi azione politica, di qualsiasi forma di partecipazione pubblica, conduce alla presa di distanza, al totale distacco dalla classe politica in cui non riponiamo più alcuna speranza, e al popluismo più bieco e conformistico, ai luogi comuni ciechi e improduttivi, all’antipolitica. Con questo termine prima si intentendeva la vita politica come luogo di malaffare e corruzione. Ma l’antipolitica nel senso odierno per il giurista è ancor più pericolosa, perché in fondo, anche dal malaffare a volte può nascere qualcosa di buono, qualora il male, un po’ mahiavellicamente, sia orientato a fini positivi e portatori di dignità umana. L’antipolitica attuale è più grave perché lancia il messaggio che tanto ormai oggi la politica non conta più nulla. Ciò che ha importanza sono gli affari, gli interessi, i giri di potere, i diktat che piovono da sfere ultrastatali perché gli stati hanno perso la loro capacità politica. Ed è quindi ancora più difficile contrastare questo tipo di antipolitica, proprio perché né la classe politica né la politica stessa hanno più presa nelle nostre vite, così da mettere a serio repentaglio la stessa partecipazione democratica, con cui non si intende solo e semplicemente l’andare a votare al momento delle elezioni (per quanto anche in quel momento ormai si assista a un triste deserto partecipativo).
Insomma, prosegue Zagrebelsky, è in corso un processo che, benché non contraddica le forme della democrazia ne stravolge però la sostanza. La democrazia come concepita nell’idea dei nsotri costituenti era un processo ascensionale che partiva dai singoli e dalle loro associazioni culturali e politiche attraverso cui manifestavano esigenze e domande che i partiti politici trasformavano poi in proposte politiche, in linee direttive che infine i parlamenti avrebbero dovuto rappresentare. Era una sorta di modello piramide il cui vertice era rappresentato da forme di decisione unitaria che però trovavano il loro humus e la loro sostanza dalle proposte, dalla partecipazione, dalle esigenze, dalla consociazione, dall’attività e dalle manifestazioni che si agitavano in basso. Oggi la piramide si è rovesciata. Il flusso, l’energia politica, anziché nascere dal basso e trasformarsi in espressioni politiche, sono partoriti dall’alto per poi diffondersi verso il basso. Alla partecipazione del primo concetto di democrazia si è sostituita l’ubbidienza, per così dire.
Si pensi anche solo al patto del Nazareno, che ha visto l’incontro a porte chiuse tra quattro (diciamo due) esponenti di partiti politici diversi da cui una volta aperta la porta, abbiamo visto sbucare una riforma costituzionale, toh, che sorpesa! La Costituzione è un bene dei cittadini e se anche la si dovesse cambiare, questo è possibile esclusivamente attraverso una democrazia partecipativa, e non tramite un incontro privato di cui non si sa nulla. Nel momento in cui essa è tematizzata da un patto stipulato dal governo che poi impone quel testo alle camere ecco che non c’è più nulla di democratico, ecco che la Costituzione viene attentata dal colpo di mano di pochi. La democrazia dal basso presuppone la libertà di una visione allargata, di un confronto o comunque una discussione, mentre in questo caso le camere si riducono a meri organi di approvazione di testi redatti dal governo. Cala un’imposizione e si richiede una ratifica. Stop. Chi si trova ai piedi della piramide si ritrova a subire queste decisioni imposte dall’alto.
La legge elettorale è un lampante esempio di questa imposizione: “La sera prima delle elezioni andate a dormire tranquilli, questo è il governo che vi governerà per i prossimi cinque anni”, sembra dirci il premier, perché la sera stessa, con questa nuova riforma sarpremo già chi ha vinto! La stessa parola vincere, dice il giurista, suona male in una democrazia, in quanto essa non dovrebbe prevedere né vincitori né vinti, ma che ci siano proposte politiche, partiti politici, raggruppamenti politici che abbiano ricevuto maggior consenso e che quindi avranno l’oner di guidare, governare il paese; chi invece ha ricevuto un consenso minore ha a sua volta l’obbligo di coordinare criticamente o meno l’azione del partito che ha ricevuto il consenso maggiore. Quest’ultimo come primo dovere ha quello di tenere insieme la compagine politica sensa creare fratture e dunque l’eventuale (e frequente) deserto in parlamento è innanzitutto sua responsabilità.
In questa situazione, continua Zagrebelsky avviandosi alla conclusione, Libertà e Giustizia cerca di portare avanti quel compito che si è data al momento della sua nascita, tredici anni fa, ovvero vigilare sui comportamenti della classe politica, condannare quelli che siano illegali o corrotti, difendere la dignità politica, compito che non è diventato affatto inattuale, anzi! Proprio quando la politica entra in una zona d’ombra e con essa anche la democrazia, tale compito si fa più impegnativo e difficile, ma doveroso e fondamentale per liberarci da quella cappa che pende sulla vita pubblica che ci spinge al conformismo, che assomiglia sempre di più alla loi du silence di Luigi XIV e chiunque osi rompere quel silenzio viene messo ai margini, chi si mette fuori dal “cerchio d’acciaio” , fuori da tutto ciò che è diventato luogo comune, viene ostracizzato, messo da parte, gli viene strappata la capacità e la possibilità di venire assordato. Di fatto, viene messo a tacere, perché le sua parole risultano stravaganti, assurde, prive di senso, nel mondo del pensiero unico. La società civile viene chiamata in causa da questo compito che Libertà e Giustizia ha voluto darsi, e la società a cui pensa non è certo quella dei magnati dei salotti del potere, ma quella composta da singoli e associazioni che dedicano energie, interesse, attività, tempo e impegno allo scopo di creare istanze politiche. Oggi più che mai c’è bisogno di unire più forze per occupare un terreno che è sottorappresentato ed è proprio nella ricchezza della società civile che eiste il serbatoio per un rinnovamento democratico della società. Si tratta di un programma politico, non economico, che non deve limitarsi entro il confine del quotidiano e del locale né del nazionale ma allargarsi al sovranazionale, all’Unione Europea.
Infine, Zagrebeslky conclude citando la nostra Costituzione, proprio per ribadire che sacrificare la sovranità nazionale, come sta avvenendo in molti paesi, sull’altare di interessi economico finanziari, non rispetta perfettamente l’articolo 11 della nsotra Costituzione:
“L'Italia (..) consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Solo se finalizzate a questo ordinamento e in condizioni di parità tra stati, esse possono essere ammesse, altrimenti la democrazia del nostro e di molti altri paesi, rischia di agonizzare sempre di più, perché indebolita e schiacciata da poteri economici, capitalistici, finanziari, lobbistici che la depauperano e la svuotano fino a farla diventare fasullo involucro di quegli stessi poteri. Poteri che poi quella democrazia snaturata, mortificata e colpita nei suoi valori e principi, dimenticando o rinunciando alle sfide più alte e ai compiti più nobili per cui era nata, finisce per difendere, tutelare e perseguire.