L’esperienza europea ci insegna che molto spesso l’ostracismo nei confronti dei partiti populisti si rivela un’arma a doppio taglio, e la decisione di ignorare il M5S bollandolo come una minaccia da evitare a tutti i costi non ha fatto eccezione. Una propaganda negativa può essere utile a creare un cordone di sicurezza attorno all’avversario soltanto se è accompagnata da valide scelte politiche, in grado di arginare l’attrattiva degli slogan populisti. In caso contrario, la marginalizzazione può tramutarsi in un boomerang dagli effetti perversi. Il partito preso di mira, infatti, può trasformarla in strumento di propaganda a sua volta, denunciando la volontà dei partiti tradizionali di allontanare qualsiasi possibile fonte di cambiamento che possa intaccare il loro potere. Senza contare che prese di posizione particolarmente forti potrebbero offendere quei cittadini che condividono alcune delle argomentazioni di protesta del partito populista in questione, senza per questo considerarsi antidemocratici, qualunquisti o addirittura fascisti, con il risultato di rafforzare, e non di indebolire, le loro convinzioni.
In ogni caso, che il movimento di Beppe Grillo possa essere definito populista è ancora oggetto di discussione, e gli studi sull’argomento non sono abbastanza numerosi per formulare una “diagnosi” attendibile. Anche la collocazione a sinistra sull’asse politico ha contribuito a creare confusione, nonostante una delle caratteristiche principali del populismo sia proprio la capacità di legarsi a qualsiasi tipo di formazione politica.
Per lo meno, non è poi così azzardato affermare che nel M5S convergano alcuni aspetti tipicamente populisti. Per limitarci agli esempi più evidenti, basterebbe citare l’orgogliosa rivendicazione da parte di Grillo della sua natura di outsider estraneo al mondo politico, o l’onnipresente appello a “mandare tutti a casa”, per ripulire il Parlamento dai membri indegni del mandato elettorale e restituire finalmente centralità ai bisogni della gente comune. Se davvero di populismo si tratta, il successo clamoroso del M5S sembrerebbe confermare una questione su cui gli studiosi s’interrogano già da alcuni anni.
Secondo la teoria del norvegese Stein Rokkan, tutte le principali famiglie di partito attive sulla scena europea occidentale sono nate, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, dalla politicizzazione di quattro linee di frattura socioculturale, dette cleavages. Lo sviluppo, in paesi diversi, di nuovi partiti che presentano caratteristiche comuni potrebbe indicare la nascita di un cleavage inedito all’interno della società europea. Partiti come la Fpö austriaca, l’Unione di Centro svizzera, il Front National francese, il Partito del popolo danese, la Lega Nord e (forse?) il M5S italiani, al di là delle differenze nazionali, mostrano segni di parentela non irrisori.
Per stabilire se siamo davvero di fronte a un nuovo antagonismo sociale, basato principalmente sul rigetto delle politiche europee e del modello multiculturale di organizzazione delle società plurietniche, bisogna però prima accertare la capacità di questi partiti di produrre effetti politici di lungo periodo. Finora i partiti populisti hanno spesso lamentato difficoltà nella fase d’istituzionalizzazione, al momento di dialogare con le altre forze politiche per attuare le riforme promesse e, con poche eccezioni, hanno perso consenso una volta ottenuto l’accesso al governo. Nel caso del M5S è troppo presto per azzardare ipotesi di qualsiasi tipo, e saranno i futuri sviluppi della situazione politica italiana a stabilire se si tratti di un fuoco di paglia o di un fenomeno destinato a durare, con il quale i partiti tradizionali dovranno imparare a fare i conti. La speranza è che il Paese non si affossi irrimediabilmente nell’attesa di un verdetto.
(Bibliografia: Marco Tarchi, Le nuove destre radicali in Europa, Trasgressioni n. 51; Marco Mancini, Tra risentimento ed esclusione. I partiti della destra radicale populista nell’Europa occidentale, Trasgressioni n. 51)
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