Eppure il suolo continua a contare. Conta nelle rivendicazioni politiche di minoranze etniche, conta quando assistiamo a intensi fenomeni migratori, conta nell’accesso alla cultura e ai servizi. Dove si nasce e si vive continua a influenzare ciò che siamo, le nostre possibilità e sopratutto la nostra situazione economica. La ricchezza è prodotta sul territorio e là tende a restare: nonostante le tecnologie informatiche e digitali, il sistema economico produce e riproduce le dinamiche della sua organizzazione nella concretezza dei luoghi. Persino le imprese attive nell’ambito informatico, per quanto legate all’economia virtuale, sono insediate in specifiche zone geografiche. Non dovrebbe stupire allora il fatto che al giorno d’oggi il capitalismo per continuare a creare profitto ha un crescente bisogno di luoghi capaci di produrre grandi quantità di ricchezza, come lo sono le città. Necessita, anzi, di grandi città, di grandi centri fisici di creazione, diffusione e riproduzione delle dinamiche di mercato. Il tessuto urbano permette alla grande metropoli di funzionare come centro di apprendimento, creatività, innovazione proprio perché essa è costituita da relazioni dense e da rapporti intensi tali la renderla il luogo dove nuovi incontri ed esperienze avvengono su base giornaliera e dove circola quotidianamente una massa enorme di dati. “Il mix di saperi, talenti e competenze da una vasta gamma di settori specializzati” — afferma Saskia Sassen — “permette a un certo tipo di ambiente urbano di funzionare come centro informazioni. Essere in una città diventa sinonimo di essere all’interno di un circuito estremamente denso di informazioni”.
Per la new economy, sempre più basata sulla comunicazione, la condivisione, la conoscenza e la creatività, quello urbano è ancora oggi il background ideale per la proliferazione delle idee e delle innovazioni, per la creazione di valore aggiunto e per l’accesso a capitale umano altamente qualificato, per il successo imprenditoriale e per la competitività nei mercati internazionali. Come è vero che la globalizzazione non ha eliminato l’importanza della dimensione locale, allo stesso modo si può dire che la crescente digitalizzazione delle attività economiche non ha eliminato il bisogno di grandi centri della finanza e degli affari ma anzi l’ha moltiplicato. Come nota Castells, sono sempre più le grandi città mondiali il luogo dove le élite economiche, a stretto contatto con tutte le infrastrutture e le facilities necessarie, costituiscono i nuovi snodi fondamentali del sistema a rete dei nuovi flussi economici.
Con la crescente difficoltà degli Stati nazionali di tenere sotto controllo la nuova economia globalizzata, la città emerge come nuovo protagonista assoluto di questa fase neoliberista, come luogo ove le esigenze di creazione di ricchezza e profitto vengono realizzate. La città postfordista è il luogo nel quale saperi e conoscenze sono concentrarti, dove la prossimità genera sapere diffuso. Secondo il geografo Allen J. Scott, a dominare il panorama economico globale è un sistema di “città creative”, caratterizzate cioè dal sfruttare al massimo le potenzialità della nuova economia della conoscenza e dunque nel focalizzarsi sempre di più su prodotti non standardizzati in settori quali l’alta tecnologia, i servizi alla persona e finanziari, il mondo degli affari oltre che a un vasto assortimento di industrie culturali che vanno dai media alla produzione artigianale nel capo della moda e del settore del lusso. Le città che riescono a costruire un sistema integrato basato sui settori più profittevoli della new economy sono anche quelle che riescono ad attrarre o a formare in loco una nuova classe lavoratrice che è sempre più chiamata a disporre di abilità cognitive e culturali di alto profilo, come capacità di ragionamento deduttivo, di leadership, di comunicazione o di immaginazione visiva da applicare all’interno del posto di lavoro.
Ovviamente non tutte le città riescono a imporsi come poli creativi per la creazione e riproduzione del capitale globale: sono molti i territori, come ad esempio i centri urbani tradizionalmente adibiti alle attività produttive e manifatturiere, che non riuscendo a integrarsi nel sistema globale, restano indietro e isolate. In un sistema sempre più caratterizzato dalla concorrenza spietata, non deve stupire che siano pochi gli agglomerati urbani che riescono a inserirsi con successo all’intero delle dinamiche capitaliste. Si tratta di quelle grandi megalopoli, città-regione o, continuando a usare il lessico di Saskia Sassen e Manuel Castells, le città globali, che avendo vinto la sfida della globalizzazione, si sono inserite in una posizione dominante all’interno del nuovo sistema economico.
Al modello ormai antiquato Centro/Periferia di Wallerstain, che spiegava le relazioni inique fra gli stati occidentali consumatori dei prodotti lavorati nei paesi in via di sviluppo, vi è, con le parole di Castells un sistema a rete in cui i flussi di merci, capitali, informazioni e saperi più significativi passano trasversalmente per una serie di città in posizione di dominio e in cui la ricchezza e le transazioni economiche si muovono rapidamente fra città del nord e del sud del mondo come Shangai, Los Angeles, Tokio, Francoforte, Dubai, Hong Kong, San Paolo o Londra. Sono queste le città globali, ovvero quello che cooperano alla gestione dell’economia globale, luoghi strategici per la produzione dei servizi avanzati e lo svolgimento delle operazioni finanziarie, oltre che per l’insediamento delle strutture che provvedono ai servizi avanzati e alle telecomunicazioni. Il nuovo sistema di interdipendenze dunque, lungi dal convergere verso una qualche sorta di uniformità monocromatica, rende le grandi città globali i cuori pulsanti di un capitalismo policentrico e sfaccettato.
L’emergere di questo nuovo sistemamondo tuttavia, sebbene privilegi l’integrazione con zone geografiche precedentemente in posizione di subalternità rispetto all’occidente, segue dinamiche tutt’altro che orizzontali e paritarie. Non solo perché, come già accennato, sono poche le città “creative” che riescono efficacemente a creare o ad attrarre agenti della nuova economia finanziaria e globale, ma anche perché all’intero delle stesse città globali emerge una nuova geografica della marginalità che rispecchia le più ampie disuguaglianze che il nuovo sistema economico sta producendo.
A fronte infatti di un processo di ampliamento e modernizzazione della zona centrale degli affari e della finanza, con le sue nuove forme architettoniche estetizzanti e coi suoi nuovo edifici postmoderni dal design accattivante e aggressivo, per attirare gli agenti globali del capitale finanziario e i dipartimenti più profittevoli delle grandi imprese multinazionali, si costituiscono in maniera sempre maggiore zone periferiche sempre più degradate e alienanti, abitate non più dalle classi operaie ma dal nuovo ceto medio in declino o dalla manodopera immigrata. Si crea dunque un sempre più marcato contrasto fra le zone residenziali adiacenti al centro finanziario abitate dalla nuova classe creativa, che va a formare il capitale umano impiegato nelle forme tipiche della new economy della conoscenza, con i quartieri periferici in cui una classe legata ai servizi alla persone si barcamena per pagarsi l’affitto o il mutuo e che vive in una situazione di perenne precarietà e incertezza.
La “riconquista del centro” da parte della borghesia, è in realtà un fenomeno urbano relativamente recente e che attiene a un processo ampiamente studiato da urbanisti, geografi, ingegneri e sociologi chiamato di “gentrificazione” che avviene quando un quartiere popolare o operaio, spesso centrale, tramite un processo di acquisto di immobili e riqualificazione, viene occupato da un ceto benestante che vi si insedia causandone contestualmente l’abbandono da parte degli abitanti precedenti.
Dagli anni ottanta dunque entra in profonda crisi il modello ecologico dei sociologi Park e Burgess della scuola di Chicago che ha aiutato a spiegare le principali dinamiche urbane fino a pochi decenni fa, compresa quella dello Sprawl o città diffusa. Se nel modello urbano dei due sociologi americani si metteva in risalto una dinamica tramite la quale al sopraggiungere in città di nuovi immigrati, le classi borghesi, spaventate dall’emergere dei nuovi quartieri ghetto, con la loro delinquenza e l’alienazione, sempre più cercavano rifugio nelle zone residenziali fuori dall’insediamento urbano, al riparo dai crescenti problemi urbani, la gentrificazione testimonia un meccanismo ben diverso di recupero del centro urbano da parte delle nuove classi dominanti del nuova capitalismo globale, la loro necessità di sistemarsi in prossimità delle infrastrutture amministrative e finanziarie o ai principali centri di cultura, come teatri, musei, gallerie d’arte, boutique di moda, caffè letterari e a contatto con le nuove amenità e i passatempi del capitalismo dell’intrattenimento.
Se non va scartata del tutto l’ipotesi “culturale” della gentrificazione, ovvero quella che rimarca la scelta autonoma da parte della nuova borghesia di riappropriarsi del centro e della sua vitalità come scelta di consumo o strategia simbolica di distinzione dalla normalità e dalla monotonia del restante tessuto urbano, la tesi più influente e esaustiva è quella fornita da Neil Smith che rimarca come la gentrificazione sia il prodotto delle dinamiche del capitale finanziario che a seguito di un processo di disinvestimento e abbandono economico di certe aree centrali, la cui decadenza abbassa il tenore di vita e i costi dell’affitto attirando i ceti meno abbienti, torna a investire su quel quartiere quando le opportunità di profitto che ne conseguono da una riqualificazione dello stesso cominciano a materializzarsi. Così vecchi quartieri tradizionali, luoghi del vissuto di intere generazioni di inquilini vengono completamente stravolti da un nuovo flusso di investimenti che porta nuovi moderni negozi, eleganti e costosi loft, alberghi di lusso, atti ad ospitare la nuova borghesia e ad arricchire gli investitori e le imprese del settore edilizio. Gli abitanti tradizionali, a causa dell’aumento del costo della vita sono così costretti ben presto a traslocare e ad abbandonare le loro vite precedenti. Si tratta di dinamiche cicliche del capitale che, spinto dal profitto, con la scusa di riqualificare quartieri “degradati”, spinge in realtà intere famiglie fuori dal loro mondo di vita tradizionale spazzando via ogni sottocultura urbana e tutto il tessuto relazionale e sociale presente. Con le parole di Smith “la gentrificazione è un movimento di ritorno alla città, ma un ritorno alla città da parte del capitale piuttosto che da parte delle persone”.
I nuovi quartieri così “depurati” dall’ingombrante presenza del povero e del subalterno, si presentano finalmente sotto la luce rassicurante del pulito e dell’ordinato, dell’elegante e del rispettabile, mentre oltre la “frontiera” urbana del nuovo ordine spaziale e morale si ammassano i quartieri popolari ed etnici, escluse dalle logiche della globalizzazione e dalla nuove forme di profitto e creazione della ricchezza.
Questo fenomeno può essere riassunto con le parole del geografo Allen Scott: “l’aspetto economico e sociale delle parti più centrali della città sta cambiando in maniera drastica. L’emergere di una nuova economia è stata accompagnata da una espansione enorme di lavori nel cuore della metropoli, nelle aree più avvantaggiate economicamente, per lavoratori altamente qualificati dell’industria cognitiva e culturale. La rinascita delle aree centrali ha creato un incentivo per questi lavoratori ben pagati per spostarsi nei quartieri residenziali adiacenti, che ha portato alla ristrutturazione delle proprietà edili e dunque al fenomeno della gentrificazione […] Allo stesso tempo, i gradini più bassi della forza lavoro si trovano sempre più spinti nei quartieri suburbani a basso reddito”.
Occorre aggiungere che all’interno delle grandi città mondiali, il cui agglomerato urbano tende ormai a formare un sistema interconnesso spesso abbastanza grande da occupare regioni intere, si può ravvisare la presenza di più centri e dunque anche di più periferie. Una nuova e sfaccettata configurazione della città sta emergendo nella forma di una sempre più marcata alternanza fra tratti urbani con abitazioni e lavori a basso reddito e altre zone che, in concomitanza con snodi economici e culturali di rilevanza, sono caratterizzate da un tenore di vita decisamente più alto.
I forti contrasti economici e sociali di questa nuova geografia della centralità e della marginalità riproducono le più ampie disuguaglianze che il neoliberismo ha creato negli ultimi decenni. Se la città è il luogo in cui questa iniquità si palesa anche visivamente in tutta la sua concretezza, è proprio dalla città che può sorgere la speranza di un’alternativa e di un cambiamento. Le nuovi configurazioni urbane infatti, oltre ad attrarre le classi più agiate del nuova capitalismo cognitivo, richiama anche un gran numero di gruppi subalterni come immigrati, donne, operai che cercano nella città le possibilità per un futuro migliore. Come nei quartieri dell’alta finanza e dell’impresa tecnologica circolano saperi e conoscenze, così anche nei sobborghi periferici la prossimità e l’accessibilità all’alterità tipica del mondo urbano costituisce reti relazionali dense tali da rendere possibile la creazione di nuove idee e concezioni, di pensieri alternativi, di modalità organizzative e di forme di resistenza originali.
La città ha contribuito in maniera decisiva al sorgere della società industriale e, come abbiamo visto, è tutt’oggi protagonista indiscussa delle modalità di creazione e riproduzione dell’economia capitalista. Che le città non siano ancora le possibili protagoniste di un nuovo cambiamento epocale?