Venerdì, 29 Gennaio 2016 00:00

Per un'analisi di classe del mondo del lavoro

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Di Alex Marsaglia per il numero cartaceo di dicembre

L'ultimo studio di ampia portata che tentò di delineare l'impatto del progresso tecnologico e di altre forze come la direzione scientifica del lavoro sullo sviluppo del capitalismo, nell'accezione monopolistica è quello di Harry Braverman nell'ormai lontano 1974. In “Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo” l'autore descriveva gli effetti sul processo lavorativo del neocapitalismo, appoggiandosi alla concezione di questo definita nel 1966 da Paul A. Baran e Paul M. Sweezy ne “Il capitale monopolistico”. Nella prefazione al libro di Braverman, lo stesso Sweezy ricordava come non vi fosse altro argomento tanto importante per il capitalismo come quello di nascondere la verità sulla natura del lavoro e la composizione della classe lavoratrice, rimproverando “l'ingenuità di aver tranquillamente bevuto il mito di un enorme declino della percentuale di forze di lavoro non qualificate negli ultimi cinquant'anni”.

Marx ci ha insegnato come nella società capitalistica i processi di produzione siano incessantemente trasformati sotto la spinta dell'accumulazione del capitale e non è un caso che il libro di Braverman nasca otto anni dopo quello di Baran e Sweezy che indagava proprio il processo accumulativo.
Braverman dalla sua esperienza come operaio, prima calderaio, poi raccordatore-tubista, lamierista, tracciatore e infine impiegato ha raccolto i fermenti radicati alla base del sistema di produzione al suo apice alla fine degli anni '60, descrivendo con acume le prime riforme del sistema che sarebbe transitato dal fordismo al post-fordismo. Questa stessa transizione sistemica verrà chiarita meglio di lì a poco non più da Braverman, morto di cancro nel '76, ma nel '79 dallo stesso Sweezy, questa volta in coppia con Harry Magdoff ne “La fine della prosperità in America”. In quest'ultimo scritto verranno fatti emergere tutti i più gravi problemi dell'economia capitalista in seguito alla “fine della prosperità” intesa come l'epoca dell'unico vero rilancio keynesiano mai avvenuto nella storia, ossia quello “obbligato” dalle commesse militari della seconda guerra mondiale e descritto dagli autori nella Prefazione come periodo “caratterizzato da quelli che, secondo alcuni criteri di raffronto storici, venivano ad essere periodi ciclici di crescita relativamente lunghi seguiti da recessioni abbastanza contenute”. Tuttavia alla fine di questa fase emergeranno i gravi problemi del sistema bancario e produttivo con la crescente scarsità del capitale monetario e di investimenti nell'economia reale. Gli anni '80 che seguiranno vedranno fiorire la droga dei debiti e della speculazione finanziaria di un capitale dirottato sul mercato delle azioni per valorizzarsi. Per rimediare a questa ipertrofia dei mercati il governo ha fatto largo ricorso all'indebitamento accostandolo ad una politica di tagli e privatizzazioni. Questo nuovo periodo viene sintetizzato dagli autori come “stagnazione strisciante” dettata dalla generale debolezza degli investimenti a loro volta frenati da gravi problemi nella fase di accumulazione del capitale che si caratterizzerà, inversamente alla fase precedente, per la presenza di “profonde recessioni e deboli riprese”. L'aumento dell'indebitamento pubblico, rivolto in gran parte a sostenere la struttura di mercato esistente avvenne senza tuttavia ottenere alcuna significativa riduzione della disoccupazione e dell'inattività e anzi ottenendo solo l'incremento dell'indebitamento privato per spingere i consumi. Ciò porterà gli autori a delineare le illusioni e le delusioni derivanti dal keynesismo e a tracciare i caratteri “dell'attuale crisi generale del capitalismo” che resta una valida disamina dei problemi che ci riguardano.

E' proprio in questi anni a cavallo tra due cicli che inizia a manifestarsi la riorganizzazione dei processi lavorativi da parte di dirigenze che nascondono, dietro alla retorica dell'«arricchimento della mansione» o dell'«umanizzazione del lavoro», i tagli sempre più estesi a settori liquidati come costosi e l'incremento della produttività e la riduzione del personale concepite come unica via all'efficienza. Qui ritorna prepotentemente il saggio di Braverman che rinviene questo fenomeno come un “nuovo stile dirigenziale” caratterizzato dall'ipocrita “pretesa di far partecipare il lavoratore” al processo produttivo1. La caustica definizione di management fornita ne fa emergere tutta la carica manipolatoria presente anche nell'odierna retorica: “Come un cavaliere che usa le redini, la briglia, gli speroni, la carota e la frusta e l'addestramento fin dalla nascita per imporre la propria volontà, il capitalista compie ogni sforzo mediante il management, per controllare”2 .

Così gli effetti della direzione scientifica del lavoro non cessano col taylorismo, bensì si affinano e passano dal cronometraggio e lo studio dei tempi di lavoro alla spogliazione degli operai della conoscenza e dell'autonomo controllo sul proprio lavoro nei nuovi settori creati dal progresso tecnologico, costituiti a loro volta dallo spostamento del capitale, questo sì autonomo, alla ricerca di nuovi processi di valorizzazione. La funzione direttiva continua così ad operare permettendo alle aziende di incassare i vantaggi della ricostruzione dei cicli produttivi, della riduzione dei tempi morti e delle conflittualità all'interno di un meccanismo ben oliato che è passato dalla grande industria manifatturiera ai settori dell'high tech accrescendo la sua capacità di controllo sull'essere umano. La stessa scienza, come anche la tecnologia, viene così ridotta a strumento di dominio di classe e troviamo così la sociologia e la psicologia impegnate a scoprire le molle del comportamento umano per manipolarle nell'interesse della direzione aziendale “disperse in una miriade di metodi confusi e confusionari, correndo dietro alle interpretazioni psicologiche, sociologiche, economiche, matematiche o sistematiche delle realtà del luogo di lavoro, con scarsa incidenza effettiva sulla direzione del lavoratore o del lavoro3.

Lo stesso diritto del lavoro si è trovato di fronte alla difficoltà di istituzionalizzare la variabilità socio-economica. Il volume di A. Salento “Postfordismo e ideologie giuridiche. Nuove forme d'impresa e crisi del diritto del lavoro” ci mette in guardia proprio dal proliferare di quelle che vengono definite “ideologie” che emergono dallo stato di “decadentismo giuridico della disciplina”. L'esempio più evidente sovviene se si pensa alla retorica giuslavorista delle socialdemocrazie del Nord Europa traslata sul disconnesso mondo del lavoro mediterraneo. Le discipline manipolatorie non servono dunque all'adattamento del lavoratore al modo capitalistico di produzione e nemmeno contribuiscono a spiegarlo, infatti sono le stesse forze socio-economiche a portare a compimento il processo in maniera forzosa. Braverman in merito spiega quella che è “la regola per la quale la classe operaia è progressivamente assoggettata al modo capitalistico di produzione e alle forme da quest'ultimo successivamente assunte, solo nella misura in cui esso conquista e distrugge tutte le altre forme di organizzazione del lavoro e, con esse, ogni altra alternativa per la popolazione lavoratrice”4. Così “nel modo di produzione capitalistico, i nuovi metodi e i nuovi macchinari vengono integrati in uno sforzo della direzione aziendale inteso a dissolvere il processo produttivo come processo gestito dal lavoratore e a ricostruirlo come processo costruito dalla direzione”5. In seguito a questo processo si creano nuovi mestieri, qualificazioni e specializzazioni tecniche che in principio erano di pertinenza del lavoro anziché della direzione e il risultato è il continuo cambiamento dell'occupazione, “per il fatto che la direzione scientifica sia pienamente riuscita ad aumentare la produttività in alcune industrie” portando “allo spostamento del lavoro in altri campi, dove esso si accumula in grandi quantità perché i processi ivi adottati non sono stati ancora sottoposti alla tendenza alla meccanizzazione dell'industria moderna”. L'esito di tutto ciò secondo Braverman che in questa complessa analisi si appoggia ai Grundrisse “non è l'eliminazione del lavoro, ma il suo spostamento ad altre industrie e occupazioni”6. In questo processo il lavoratore diventa il “fattore umano” posto al centro delle indagini sul lavoro rivolte a inglobare il più ampio ventaglio di attività lavorative oltre a quelle manuali al fine di applicarle non solo al lavoro impiegatizio, ma pure alle specialità professionali e semi-professionali affinché si svolgano seguendo il principio animatore secondo cui si ha una “visione degli esseri umani in termini di macchine”. Avviene quindi la pura “degradazione del lavoro in quanto elemento soggettivo del processo lavorativo e la sua trasformazione in oggetto”7.

Nell'attenta analisi dei cambiamenti delle occupazioni descritta nell'opera, con riferimenti alle varie forze operanti nel capitalismo monopolistico, si rileva come il capitale entrando in ogni area possibile d'investimento riesca a riorganizzare completamente la società dando vita alla nuova distribuzione del lavoro che è oggetto d'analisi. Questa distribuzione secondo l'autore trova la seguente composizione in sei categorie professionali “di massa” comprese nella popolazione operaia: gli operatori, i lavoratori non agricoli, gli artigiani, gli impiegati, addetti alla vendita, e lavoratori dei servizi, mentre il personale di vigilanza viene escluso da questa categoria. Nel 1970, i lavoratori di queste categorie rappresentano circa il 69% di tutta la forza lavoro che era il 59% nel 1920.

La stima complessiva aggiornata dalla redazione della Monthly Review per le occupazioni operaie di base delineate da Braverman come percentuale del totale delle occupazioni presenti è quasi identico al 1970, ossia del 69,8% nel nostro caso, rispetto al 69,1% nella stima originale di Braverman. Tuttavia le occupazioni dei lavoratori di base in relazione al totale degli occupati come percentuale di tutte le occupazioni nei successivi quattro decenni (dopo la pubblicazione di “Lavoro e capitale monopolistico”) è nel 2011 al 56%, un calo di 13 punti percentuali. “La classe operaia dunque è in declino?” si domandano R. Jamil Jonna e John Bellamy Foster sul numero di ottobre 2014 della celebre rivista statunitense.
La risposta vede “l'inclusione di gruppi professionali crescenti di lavoratori che comprendono: (a) lavoratori della vigilanza, lavoratori d’ufficio con bassa qualifica, vendite, servizi e agricoltura; (b) insegnanti precari e consulenti scolastici; (c) lavoratori addetti alla manutenzione; (d) lavoratori addetti alla vendita del settore assicurativo, immobiliare, pubblicitario; (e) i lavoratori addetti alla ricreazione. Una volta che queste categorie crescenti di lavoratori vengono aggiunte, l’esercito attivo del lavoro può essere visto nella sua differente composizione”8. Inoltre, “se si integrano queste categorie della forza lavoro potenzialmente disponibile, non incluse nelle statistiche ufficiali con quelle che il BLS (Bureau of Labor Statistics) classifica come lavoratori marginali; i non-lavoratori poveri in età lavorativa primaria (20-55 anni); studenti di ritorno; la popolazione carceraria che, come Bruce Western e Katherine Beckett hanno dimostrato, è il modo peculiare degli Stati Uniti (rispetto ad altre economie avanzate) di utilizzare parti della popolazione che sono state impoverite e/o sono criminali (…) si scopre che ognuna delle categorie citate è drammaticamente aumentata dal 1970. Aggiungere queste categorie come forza lavoro effettiva determina, nel 2011, il 68,9%, un dato, superiore di due terzi al totale della forza lavoro potenzialmente disponibile”9.

In conclusione l'economia capitalista ha trasformato i posti di lavoro, creandone di nuovi al prezzo di una crescente polarizzazione di classe oggi più visibile nel settore dei servizi. L'unico principio su cui si regge l'economia capitalista resta la capacità di produrre profitto tramite il lavoro salariato, dunque risulta relativamente irrilevante la forma del lavoro rispetto alla sua forma sociale che permette la riproduzione dei rapporti sociali capitalistici: “Nell'impresa moderna tutte le forme di lavoro vengono impiegate senza distinzione, e nella moderna impresa «conglomerata» alcune divisioni si occupano della produzione, altre della distribuzione, altre delle operazioni bancarie e finanziarie, altre delle miniere, e altre ancora dei «servizi». Tutte coesistono pacificamente, e il risultato finale registrato nei bilanci è che le forme di lavoro scompaiono interamente nelle forme di valore10. Per quanto riguarda le condizioni lavorative, già nei primissimi anni '70 Braverman rilevava la crescita della disoccupazione e la diminuzione del potere d’acquisto effettiva dei salari. Questo aspetto è inesorabilmente peggiorato in base a quanto spiegato ne “La fine della prosperità in Amerivca”. Dunque, questo esercito di lavoratori sovra-formati, sotto-occupati e sotto-pagati crea inevitabilmente problemi per il capitalista. Il calo della domanda complessiva è forse l'aspetto che acquista maggior risalto, ma se si analizza questo fenomeno da un punto di vista di classe anziché consumistico non si può fare a meno di considerare l'enorme problema della sottovalutazione della classe lavoratrice dovuta al mancato conteggio della sovrappopolazione relativa. Infatti, la stessa forma di lavoro “flessibile”, propagandata come innovativa, oggigiorno non sarebbe stata nemmeno inserita tra gli occupati seguendo la classificazione di Marx che piuttosto utilizzava per descrivere queste forme irregolari di lavoro la formula “esercito industriale di riserva”. In particolare sembrerebbe adattarsi bene alla concezione odierna di lavoro flessibile la forma “fluttuante” di tale esercito. Gli stessi “strati intermedi” dell'occupazione, un tempo definiti “classe media”, oggi sono completamente falcidiati, già Braverman mostrava con lucidità come la categoria impiegatizia avesse subito prima un processo di proletarizzazione e poi di sostituzione ad opera dei primissimi calcolatori.

Appoggiandoci al lavoro di Braverman e alle ricostruzioni della redazione della Monthly Review si potrebbe concludere che abbiamo di fronte un processo dinamico di scomposizione e ricomposizione della classe operaia11, quindi non si tratterebbe di una classe operaia scomparsa ma semmai di una classe operaia in scivolamento verso il sottoproletariato.

L'ultimo aspetto davvero illuminante che non si può trascurare, ma che emerge dal saggio riguarda il rapporto tra composizione di classe e qualificazione della manodopera, viene infatti dimostrato come le mutate condizioni di lavoro che richiedono una popolazione lavorativa più “qualificata”, “istruita” e “addestrata” non siano necessariamente un fattore positivo, soprattutto visto lo scivolamento verso il basso della classe operaia. Così12: “si tratta precisamente di sapere se il contenuto scientifico e «istruito» del lavoro tenda a livellarsi oppure al contrario, a polarizzarsi. Se è vero quest'ultimo caso, dire che la qualificazione «media» si è elevata significa far propria la logica dell'esperto in statistica, il quale, tenendo un piede nel fuoco e l'altro nell'acqua fredda, vi dirà che «mediamente» sta benissimo (…) Quanto più la scienza viene incorporata nel processo lavorativo, tanto meno l'operaio riesce a comprendere tale processo; quanto più la macchina diventa un prodotto intellettuale complesso, tanto meno l'operaio è in grado di controllarla e di capirla. In altri termini, quanto più l'operaio ha bisogno di sapere per restare essere umano che lavora, tanto meno vi riesce. Questo è il baratro che il concetto di «qualificazione media» tiene celato” . Anche in questo senso risulta impossibile non tener conto della sottovalutazione della sovrappopolazione relativa all'interno di un sistema economico-sociale che ha pressoché continuato dal '74 in poi (ma lo rilevava già Braverman rispetto ai concitati anni precedenti) ad allargare il sistema formativo, ritardando l'età media dell'uscita scolastica per diluire l'impatto economico della disoccupazione. Si potrebbe concludere sintetizzando come nel XX secolo, ma anche in questo scorcio di XXI, “con lo sviluppo del modo capitalistico di produzione, il concetto stesso di qualificazione continui a degradarsi insieme con il lavoro”13 .

 

Cfr. H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo, Einaudi, 1978, p. 40
H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo  p.69
Ibidem pp. 142-143
Ibidem p.147
Ibidem p.168
6 Ibidem p.170
7 Ibidem p.179
R. Jamil Jonna, John Bellamy Foster, “Braverman e la struttura della classe operaia degli Stati Uniti d’America. Oltre il degrado del lavoro”, Monthly Review, ottobre 2014
Ivi
10 H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo  p.367
11 In riferimento alle nuove professioni in ambito informatico segnalo Ruy Braga, “Un’“altra faccia” del lavoro informazionale e immateriale. La vendetta di Braverman”, Proteo N.2007-3
12 H. Braverman,  Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo, p.427
13 Ibidem p. 447

Ultima modifica il Giovedì, 28 Gennaio 2016 15:43
Beccai

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