A duecento anni dalla nascita di Marx, così come per il centenario della rivoluzione russa e per il cinquantesimo del 1968, l’editoria propone negli scaffali numerosi testi.
Il, i '68… e Marx?
Qualche settimana fa Mapelli di Punto Rosso ci invitava a leggere l’articolo di Emilio Molinari: “Un altro ‘68”. L’articolo, per me molto bello, evidenzia con intenti provocatori, che i ‘68 furono due, uno “... degli studenti e di molti intellettuali. Un soggetto complesso egemonizzato dalla piccola borghesia radicalizzata...”, “L’altro dei lavoratori.”
C’è un concetto fortemente distorto dell’operaismo che viene riproposto da alcuni degli intellettuali sopravvissuti ai Quaderni Rossi, i quali snaturano quel progetto nella sua essenza anticapitalistica. In particolare Toni Negri e i postoperaisti sono convinti che la classe operaia, ormai dispersa nella “società liquida” e divenuta Moltitudine, abbia una sola chance per abbattere il capitale cioè rinunciare al lavoro e presentarsi unicamente come massa di consumatori.
“Orientalismo”, 40 anni dopo
Nel 1978 usciva il celebre saggio di Edward Said, un ripensamento critico del rapporto fra oriente e occidente
L’Oriente misterioso, l’Oriente minaccioso, l’Oriente sensuale, l’Oriente dispotico, l’Oriente immutabile.
Una lunga tradizione di pensiero ci ha portato a plasmare una solida immagine di tutto ciò che abbiamo voluto identificare come altro.
Genealogia dell'ordoliberalismo - II parte: Il Governo della Società
Qui la parte I, qui la parte III
Se l'ordoliberalismo, da fenomeno accademico di nicchia, può imporsi già nell'immediato dopoguerra come la scuola di riferimento per la programmazione economica tedesca, serviranno molti anni prima che questa nuova dottrina possa imporsi anche a livello simbolico, che possa essere accettata in maniera diffusa dalla società tedesca. Il sessantotto rappresenterà, da questo punto di vista, un momento di svolta. Il fallimento delle agitazioni in Germania, che culmina con il tragico episodio dell'attentato al leader del movimento studentesco Rudi Dutschke, significherà la fine delle speranze di generare un movimento rivoluzionario di massa. Qualche irriducibile passerà così a una temeraria lotta armata il cui destino sembrava già scritto (come nel caso della RAF), mentre la maggior parte si riallineerà con l'SPD che, già da qualche anno, col congresso di Bad Godesberg (1959), aveva accettato l'economia di mercato e ripudiato il marxismo.
Pubblichiamo qui di seguito uno scambio avvenuto tra Mauro Lenzi e Paolo Favilli sulle colonne de Il manifesto convinti che possa essere da stimolo per una riflessione più generale.
L’articolo di venerdì 21 ottobre di Paolo Favilli pubblicato sul manifesto (La sinistra e l'inedita questione sociale dei nostri tempi), purtroppo alla fine, introduce la necessità di un approccio al dibattito che consideri che “Oggi la ‘questione sociale’ si manifesta anche con tratti che “...nella…” storia non sono mai stati presenti. La nostra comprensione di questo nuovo (sottolineatura mia) è possibile solo se ragioniamo in termini di fasi di accumulazione di capitale, in particolare se ragioniamo sui caratteri dell’odierna fase di ‘accumulazione flessibile’. Qui stanno le radici analitiche di cui abbiamo bisogno.”
Mi pare un approccio promettente. Purtroppo, ripeto, arriva alla fine dell’articolo e la necessità di sintesi mi ha penalizzato in una comprensione più ampia: che si intende per "accumulazione flessibile"? Ho la sensazione che Favilli dia un significato importante a questo termine, addirittura dirimente. Probabilmente nella pubblicistica il concetto è da tempo e ripetutamente chiarito e esplicitato ma, per mia ignoranza, non ne sono edotto. È possibile da parte di Favilli fare un altro pezzo di approfondimento in grado, secondo me, di aprire ulteriori spazi al dibattito? Appunto, altro rispetto ai ‘balletti’ giustamente redarguiti di Favilli.
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Caro Lenzi,
hai perfettamente ragione, la necessità di sintesi ha portato a considerare scontate questioni che non lo sono per niente.
L'espressione "accumulazione flessibile" è del geografo inglese David Harvey, uno dei più importanti studiosi delle tendenze odierne del capitale. La fase indicata con quell'espressione non si contrappone alle tendenza generali di accumulazione del plusvalore, ma le modella a seconda delle forme che il contesto rende possibili. In un certo senso il capitalismo di ogni fase è sempre un "nuovo" capitalismo.
Le possibilità odierne di comprimere ed interconnettere a velocità crescente e sempre più profondamente le dimensioni dello spazio e del tempo, aprono ad un'ampia gamma di forme di flessibilità. Quelle più evidenti riguardano il mercato del lavoro che assume una struttura centrale sempre più ristretta di occupazione stabile e, via via che ci si allontana dal centro, sempre più ampie cerchie di lavori temporanei, subappaltati in una catena lunghissima di delocalizzazioni. Questa struttura del mercato del lavoro permette di combinare modi altamente tecnologici di estrazione del plusvalore e modi antichi. Infatti nella sfera centrale del mercato, dove è collocata una forza lavoro estremamente specializzata e con una capacità di comprensione e gestione delle nuove modalità tecnologiche e di orientamento al mercato, l'acquisizione di plusvalore non è direttamente legata alla durata della giornata lavorativa. Via via che si scende nella catena della flessibilità di assiste alla diffusa rinascita di sistemi di lavoro in cui è possibile estendere l'orario della giornata lavorativa e forme di sfruttamento sul modello dell'accumulazione originaria.
Inoltre l'abnorme finanziarizzazione dell'economia permette non solo un'accumulazione che non passa attraverso la produzione di merci, e quindi di lavoro, ma è anche un'ulteriore, ed assai importante, spinta alla velocizzazione dei tempi di tutte le forme di flessibilità.
Ecco, a mio parere, questo insieme problematico deve essere al centro tanto della riflessione che dell'iniziativa politica della nostra sinistra. Non è un compito facile, ma al di fuori di questo percorso, che non avrà tempi brevi, si perde davvero il senso della politica per chi intende davvero essere l'erede della storia del movimento operaio.
Il pop contemporaneo e lo spettro di Marx: il rapporto fra musica e innovazione
Se si dovesse fare un bilancio critico del panorama della musica popolare degli ultimi quindici anni, non sarebbero tanti gli analisti propensi a esprimere giudizi entusiasti. Ma l'immagine statica e desolante di un periodo di crisi artistica senza precedenti si scontra con la crescente consapevolezza che anche al giorno d'oggi è possibile realizzare ottimi dischi. Si fa così sempre più strada l'impressione che siamo di fronte a un problema che non riguarda tanto la qualità di ciò che ci ascolta, quanto piuttosto il rapporto fra musica e innovazione, che pare essere radicalmente mutato.
Questo aspetto è stato immortalato magnificamente nel seminale saggio Retromania del critico musicale Symon Reynolds. Lo studioso britannico ha messo in luce come la musica popolare sia diventata vittima di una forte dipendenza dal suo passato. Non solo non si possono scorgere all'orizzonte nuove forme espressive degne di nota (l'unico nuovo genere degli anni zero è probabilmente la dubstep), ma anche le più interessanti proposte musicali contemporanee sono molto spesso il risultato di un'operazione di contaminazione di vecchi generi musicali o di riproposizione di sonorità appartenenti a gruppi del passato. Questa ossessione per il passato, in realtà non riguarda solo gli artisti ma anche l'industria musicale e il pubblico stesso, sempre più infatuato per tutto ciò che è vintage e retro: i vinili vanno a ruba, i concerti delle più leggendarie rockstar, che spesso ripropongono l'intera scaletta di qualche loro vecchio classico, vanno sold out, mentre pullulano musei in cui sono conservati, come fossero cimeli, i più disparati oggetti di modernariato musicale (chitarre, plettri, piatti della batteria, vecchie locandine, ecc...).
Con la svolta del nuovo millennio, la musica si è catapultata in un'era in cui l'urgenza del nuovo è stata strozzata dall'incedere inarrestabile di un cultura retro che ha reso gli anni zero (e oltre), piuttosto che un epoca a sé stante, come la riproposizione simultanea di tutte le decadi del passato, dagli anni sessanta psichedelici, fino ai novanta della cultura rave. Scrive Reynolds che la nostra epoca è segnata dal prefisso "re": re-vivals, re-issues, re-makes, re-anactments, re-unions, re-vivals. Appare evidente come questa tendenza non riguardi solo la musica, ma anche il cinema (coi suoi remakes di vecchi blockbuster), la moda, la gastronomia e quasi tutte le altre forme di cultura popolare in voga nella contemporaneità. Ma la musica appare il settore più segnato da questo fenomeno di ossessione nostalgica, anche in virtù del fatto che il rock e il pop in tutte le loro declinazioni sono sempre state collegate alla cultura giovanile e alla loro voglia di sovvertire il presente e di rompere col passato.
Lo scenario tracciato si fa ancora più cupo se pensiamo che il passato, lungi dal prendere le sembianze della scrupolosa analisi storica o della attenta precisione cronologica e filologica, assume piuttosto l'aspetto di un ripescaggio casuale di elementi del passato che, isolati e decontestualizzati, vengono ripresi sotto forma di mere citazioni o all'interno di caotici pastiche stilistici. Ma non c'è da meravigliarsi, perché la tradizione non conta nulla quando non è messa in discussione e modificata. Senza una prospettiva futura di novità, la storia è svuotata del suo portato e si configura solo come un enorme appendiabiti dal quale attingere disordinatamente a seconda delle esigenze del momento: una cultura che è meramente preservata non può definirsi cultura.
Ovviamente l'ipercitazionismo e la cultura del ripescaggio hanno portato alla realizzazione non solo di mediocrità derivative ma anche di opere musicali eccelse: abbiamo grandi e spesso sottovalutati artisti come Joanna Newsom, Julia Holter, Fennesz, Andrew Bird, Jon Hopkins, Bon Iver, ecc... che sono emersi o hanno realizzato i loro migliori lavori dopo gli anni novanta. Se è dunque vero che ancora si può ascoltare ottima nuova musica popolare, occorre domandarsi come quest'ultima sia cambiata in relazione a trasformazioni socio-economiche e culturali più vaste. Quale può essere il futuro della musica, bella o brutta che sia, in un contesto in cui il nuovo si configura come riproposizione caotica di stilemi del passato? Ma sopratutto, come siamo arrivati a una logica culturale così ripiegata sul suo recente passato da non riuscire più a concettualizzare la possibilità dell'innovazione?
Come ho provato a mettere in luce in un precedente articolo (leggi qua) la musica popolare nasce in un alveo culturale ben preciso, quello del modernismo. Si tratta di un enorme movimento artistico e culturale che rispecchiava l'inquietudine e il disagio rispetto alle grandi trasformazioni sociali ed economiche successive alla rivoluzione industriale: l'artista si trova improvvisamente a vivere in un mondo che ha perso ogni legame come la comunità tradizionale e attorno a sé percepisce il frastuono di un mondo che aveva accelerato a dismisura la sua corsa verso il futuro. Processi di urbanizzazione rapidissima, il regime di fabbrica, la trasformazione nei trasporti e nei sistemi di comunicazione concorrono tutti a definire una esperienza di vita che, persa la sua prevedibilità, è un susseguirsi di urti, collisioni ed eventi. Nella modernità "tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria", come ci ricorda Bergman.
Il clima modernista, inquieto di fronte al cambiamento imposto dal ritmo frenetico e martellante del capitalismo, riproduce il bisogno di superare, di rivoluzionare continuamente la realtà. Il modernismo fa così dell'"oltre" un culto: oltre la moralità, oltre la cultura, oltre l’arte diventano le parole chiave di un movimento che tramite lo sperimentalismo puntava a mettere in discussione il dato per scontato. Nonostante il Novecento porti con sé un crescente disillusione verso l'idea borghese di progresso, il modernismo continua a configurarsi come spinta avanguardistica verso il futuro e verso il nuovo.
La fine di questo movimento culturale, ha profondamente segnato anche il mondo della musica. Dagli anni ottanta la tendenza postmoderna porta a un deciso cambio di rotta: il futuro si frammenta, i concetti di linearità e progresso vengono radicalmente decostruiti, prevale quel senso di cinismo di chi avendo visto tutto, non si stupisce più di nulla, che Nietzsche attribuiva all'Ultimo Uomo il quale, non portando più il caos dentro di sé, non era in grado di inventare più nulla.
Ma queste trasformazioni culturali non avvengono in maniera spontanea bensì sono strettamente connesse a mutamenti più profondi nella società e legati agli avvenimenti storici degli ultimi trenta anni. Non si tratta tanto di sottolineare il pur significativo ruolo distruttivo che il credo neoliberista, secondo cui ogni aspetto della realtà deve funzionare in conformità al modello di un'impresa, ha apportato alla cultura, quanto sopratutto mettere in luce il carattere intrinsecamente totalitario di una nuova configurazione della realtà che fa apparire come naturali e normali atteggiamenti individualistici, competitivi, cinici che in realtà sono il frutto di un sistema di verità strutturatosi solo a partire dalla fine della Guerra Fredda.
Ma che ruolo può avere tutto ciò con la cultura e con la crisi di creatività della musica? Seguendo le stimolanti tesi dello studioso britannico Mark Fisher, si può ipotizzare che l'emergere di un mondo dominato da un solo sistema politico -ideologico, da un'unica meta-narrazione neoliberista, chiuda lo spazio per immaginare il diverso. Il trionfo globale delle logiche capitaliste, che Fukuyama ha interpretato come "la Fine della Storia", rende impossibile immaginare a un sistema diverso, un' alternativa possibile. Non sembra cioè immaginabile qualcosa di diverso e "oltre" la configurazione attuale. Come sostiene il filosofo sloveno Zizek, "è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo". Mancando un oltre verso cui tendere, anche la musica popolare risulta schiacciata su un passato che invece di essere utilizzato come strumento per rompere il presente, viene decontestualizzato, ripulito dai suoi potenziali aspetti rivoluzionari e reimpiegato sotto forma di citazione e pastiche.
Così, il modernismo musicale, incarnato in particolare in artisti come Kraftwerk, Per Ubu, Velvet Underground, Pink Floyd, Jefferson Airplane, Slint, David Bowie, Soft Machine, Brian Eno, solo per citarne alcuni, perde nella contemporaneità ogni possibilità di esprimersi. In un vuoto che non può essere colmato, in una restrizione della possibilità di immaginare il diverso, la musica contemporanea esprime appieno questo disagio. Non solo il capitalismo occupa da solo l'orizzonte del pensabile e del possibile ma, come mette in risalto Zizek, occupa in profondità anche l'inconscio dell'uomo, colonizzando le modalità di pensiero ed azione dell'individuo.
È a partire da queste basi che si può capire perché il filosofo Fredric Jameson parli di una "maniera nostalgica" che prevale nell'arte e nella cultura: non si tratta di un atteggiamento psicologico dell'artistica bensì di un attaccamento formale alle tecniche e alle formule del passato, conseguenza di un abbandono di quella sfida tipicamente modernista che animava il continuo rinnovamento delle forme culturali affinché queste fossero adeguate a descrivere l’esperienza contemporanea. A titolo di esempio, nel mainstream ciò è ravvisabile in particolare nel revival soul di Adele e Amy Winehouse, nella patina vintage di Lana del Rey, nei calderoni r'n'b di Rihanna e Pharrell Williams, negli scimmiottamenti eurodance di Mika, mentre nell'indie proliferano generi revivalistici di ogni tipo, dalla neopsichedelia (Tame Impala, The War on Drugs, Foxygen ecc....) , al revival new wave (Interpol, Editors, Soft Moon, Arctic Monkeys ecc...) alle fascinazioni pop anni ottanta (Ariel Pink, Beach House,Wild Nothing, Antlers) senza dimenticare il nuovo synth-electro pop (Grimes, Austra, Cold Cave, ecc...).
Cosa è rimasto? Mark Fisher, che riprende un concetto del filosofo algerino Derrida, ritiene che del futuro permanga solo un fantasma. Così come Marx ed Engels indicavano nel comunismo lo spettro che si aggirava per l'Europa facendo tremare la borghesia dell'Ottocento, così ora lo spettro, seppellito sotto le macerie del socialismo reale, resta solo nella forma eterea e impalpabile di una possibilità che ci sia qualcosa di diverso da ciò che l'establishment liberista ha imposto come credo unico. Questo spettro, impalpabile e inafferrabile, allora come oggi gioca ancora un ruolo nella società contemporanea perché si configura come un virtualità che però ha già dei potenziali effetti reali nel minare lo status quo.
Ciò che è rimasto allora è la possibilità di intravedere quello spettro, la capacità di capire - scostando il velo di Maya dell'ideologia capitalista - che l'oblio del futuro e la retromania musicale non sono la normalità e che il futuro, il nuovo, il diverso, sono ancora possibili. Da questo punto di vista, come enfatizzano Reynolds e Fisher, una folta schiera di artisti che vanno da William Basinski, Philip Jeck, Burial, Leyland Kirby, oltre a quelli vicini all'etichetta Ghost Box e al genere dell' Hypnagogic pop di Neon Indian, Memory Tapes e Washed Out (a cui forse potremmo aggiungerci alcuni esponenti della "nostra" Italian Occult Psychedelia e la Vapor Wave), è arrivata a convergere verso delle formule sonore che si situano su quel delicato confine che separa conformismo e innovazione: da una parte si tratta di artisti che, tramite l'uso smodato delle tecniche di sampling, hanno fatto della loro musica un collage di registrazioni del passato, ma dall'altra parte, questi stessi artisti sono anche quelli che nella loro disperata nostalgia, mostrano un nuovo disagio nei confronti dello status quo e mandano, più o meno inconsciamente, anche un certo messaggio politico avanguardistico: che non ci si può arrendere di fronte all'oblio creato da un sistema totalizzante, che si vuole andare a scovare lo spettro, che si vuole ripescare il futuro insito dentro il passato, che non si vuole rinunciare al fantasma e con esso, alla possibilità dell'innovazione e di un futuro aperto e molteplice.
Riferimenti Bibliografici:
Derrida J. (1994) Spettri di Marx
Fisher M. (2009) Capitalist Realism: Is there no alternative?
Fisher M. (2014) Ghosts of My Life: Writings on Depression, Hauntology and Lost Futures
Jameson F. (2007) Postmodernismo, ovvero La logica culturale del tardo capitalismo
Reynolds S. (2011) Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato
Achille Occhetto: Marx, Italia e comunismo
Necessità e debolezza della cultura politica comunista in Italia è un contributo che si inserisce in un filone ben preciso, quello che sta tentando di ricostruire una specifica visione del mondo entro contesti nazionali e internazionali. Una necessità imprescindibile: riscoprire la vera portata del pensiero di Marx. Achille Occhetto ripercorre così quella storia delle idee che portò alla caratterizzazione del movimento comunista italiano, tappe che hanno segnato la cultura comunista del nostro paese, che hanno determinato un bagaglio culturale ricco e diversificato.
Di Alex Marsaglia per il numero cartaceo di dicembre
L'ultimo studio di ampia portata che tentò di delineare l'impatto del progresso tecnologico e di altre forze come la direzione scientifica del lavoro sullo sviluppo del capitalismo, nell'accezione monopolistica è quello di Harry Braverman nell'ormai lontano 1974. In “Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo” l'autore descriveva gli effetti sul processo lavorativo del neocapitalismo, appoggiandosi alla concezione di questo definita nel 1966 da Paul A. Baran e Paul M. Sweezy ne “Il capitale monopolistico”. Nella prefazione al libro di Braverman, lo stesso Sweezy ricordava come non vi fosse altro argomento tanto importante per il capitalismo come quello di nascondere la verità sulla natura del lavoro e la composizione della classe lavoratrice, rimproverando “l'ingenuità di aver tranquillamente bevuto il mito di un enorme declino della percentuale di forze di lavoro non qualificate negli ultimi cinquant'anni”.
Il Pensiero di Althusser IV: materialismo aleatorio e teoria generale della società
La concezione althusseriana del cambiamento sociale e politico come esito di un complesso reticolo di influenze fra le varie sfere della società, secondo il principio della surderminazione (come abbiamo visto nel precedente contributo), è coerente con la lettura antistoricista che il filosofo francese dà del capitale: non ci sono meccanismi automatici che determinano il passaggio da un sistema di produzione all'altro, bensì solo delle concrete situazioni storiche, in cui, in maniera casuale, o quantomeno non del tutto deliberata da alcun soggetto, si può verificare la simultanea presenza di una grande quantità di contraddizioni nei rapporti sociali, economici, culturali tali da portare a una rottura dirompente col passato.
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