Lunedì, 15 Febbraio 2016 00:00

Ancora di unioni civili

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Perdonatemi se torno a parlare di unioni civili e del Ddl Cirinnà, e mi scuso in anticipo se questo pezzo risulterà piuttosto ripetitivo. Il fatto è che ho un’impressione sempre più forte che sul tema dilaghi un’ignoranza aberrante, e che sia stata strategicamente messa ad opera una propaganda strumentale e depistante, che rischia di sacrificare sull’altare i diritti della persona. Mi riferisco in particolare a quello che è sembrato a molti il logico (?) e automatico (?) passaggio dalla step child adoption alla gestazione per altri (o di appoggio), detta brutalmente pratica dell’utero in affitto.

Sinceramente non vedo come l’adottabilità del figlio biologico del partner (rispetto a cui sarà comunque sempre un giudice a esprimersi per valutare l’idoneità del partner non biologico, come già avviene per le coppie eterosessuali) apra le vie alla gestazione per altri, che in Italia resta illegale. Questo punto, considerato così spinoso e temibile dalla maggior parte dei cattolici, dentro e fuori Parlamento e Senato, semplicemente renderebbe più facile la vita a un bambino, che, nel caso malaugurato di perdita del genitore biologico, verrebbe adottato da colui o colei con cui già da tempo ha stabilito un legame (questo sì che sembrerebbe logico e automatico!). Banalmente, la step child adoption darebbe giurisdizione a un rapporto familiare che esiste già, perché di fatto quel bambino cresce ed è accudito da entrambi i genitori e sarebbe un grandissimo torto anche, e soprattutto, nei suoi confronti, far sì che venga strappato via dalle braccia di quello o quella che ha considerato un secondo genitore a tutti gli effetti, rischiando di venir affidato ai servizi sociali o magari a un parente, vicino o lontano che sia. A me sembra così scontata la cosa che non riesco proprio a concepire come coloro che si dicono cristiani e che parlano in nome della tutela del minore, poi rubino diritti a bambini di famiglie arcobaleno che esistono già. Perché non riconoscerli questi bambini e condannarli a un futuro che delegittima l’unione dei loro genitori e castra i loro diritti? Perché non riconoscere queste famiglie e fingere che non esistano, renderle invisibili e renderne invisibili anche diritti e doveri dal punto di vista giuridico e politico?

Altro punto. Se proprio bisogna parlare di gestazione per altri occorre informarsi un po’. In Canada, in otto stati degli Stati Uniti (primo fra tutti ad introdurla è stato la California), in Irlanda, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Repubblica Ceca, in Argentina e in Venezuela la maternità surrogata esiste solo nella forma di altruismo ed è regolamentata minuziosamente proprio per evitare che venga fatta a scopo di lucro o per sopperire a gravi difficoltà economiche. In questi paesi è previsto un tipo di pagamento che va semplicemente a rimborsare le spese sostenute dalla donna per la gravidanza. La donna, per altro, deve risultare perfettamente idonea (dal punto di vista della salute fisica e mentale, dal punto di vista economico – non deve risultare indigente –, dal punto di vista della motivazione ecc..). Cosa c’è di sbagliato in una scelta che è la persona stessa a fare e che è dettata da un proprio desiderio e non da un proprio bisogno? Se una donna è spinta ad aiutare una coppia, omo o eterosessuale che sia (tra l’altro, in un’intervista a Formigli, la Cirinnà ha dichiarato che il 98% di coloro che ricorrono alla gestazione per altri sono coppie eterosessuali che non possono avere figli), chi ha il diritto di dire che sta facendo qualcosa di sbagliato? O meglio, si potrà anche non condividere quella scelta, ma chi siamo noi per stabilire che quella decisione sia qualcosa di condannabile visto che il frutto cui darà vita non è qualcosa di demoniaco, di malefico, di mortifero, ma è un nuovo cuore che batte, una nuova vita che nasce, e anche una nuova vita che comincia per quei due neo-babbi o neo-mamme o neo babbi-mamme? Cosa c’è di male in qualcosa che dà vita alla vita? Certo, laddove la pratica non è regolamenta il rischio di mercificazione del corpo della donna è forte. A quel punto si tratterebbe di vendere il proprio corpo in un’ottica in cui qualsiasi cosa è ormai mercificabile, vendibile o comprabile. Basterebbe però una regolamentazione internazionale che prevedesse tutta una serie di requisiti in base ai quali una donna può essere considerata idonea o meno alla gestazione per altri.

E torno anche a ripetere: se proprio spaventa tanto il logicissimo passaggio dalla step child adoption alla maternità surrogata, perché non estendere l’adottabilità (non mi riferisco solo al figlio biologico del partner ma a bambini in orfanotrofio in generale) anche alle coppie omosessuali, dietro, naturalmente, l’egida di un giudice, come avviene per le coppie eterosessuali? sicuramente ai vari Giovanardi, Scilipoti, Formigoni, Fioroni etc, etc, etc.. (purtroppo la sequenza di eccetera sarebbe lunga assai!) si rizzerebbero ancora di più i capelli a sentir parlare di una cosa del genere! Ma esistono forse studi antropologici, scientifici, cognitivisti, psicanalitici o neuro scientifici, che dimostrino l’incapacità di due uomini o di due donne nel saper accudire e crescere un figlio? Ci sono dati statistici che testimonino la carenza intellettiva e disturbi comportamentali o psicologici in un bambino o in un ragazzo perché nato o cresciuto da due genitori dello stesso sesso? Che io sappia non esiste alcuna statistica in merito e forse basterebbe chiedere ai bambini di tutte quelle famiglie arcobaleno di cui è pieno il mondo, se pensano di esser cresciuti con un grosso trauma o se si sentono infelici a causa del sesso dei loro genitori.

E basta con l’invocazione della famiglia naturale. La famiglia è una costruzione storica, sociale e normativa, non è affatto fondata su un presunto ordine naturale. Non c’è una naturalità della famiglia. Al massimo ciò che può essere naturale (ma neanche tanto, visto che è pieno il mondo di persone che non sentono alcun bisogno di formare dei nuclei affettivi o delle famiglie e che stanno proprio bene da soli, pur rimanendo “degli animai sociali”), come sosteneva Aristotele, è l’istinto di unirsi con i propri simili per formare dei nuclei affettivi e sociali, e poi delle comunità. Ma i nuclei affettivi si possono benissimo comporre anche con famiglie formate da due uomini o due donne e magari dai loro bambini. In quanto costruzione sociale la famiglia è in continua evoluzione e quindi soggetta a cambiamento. La responsabilità politica e sociale di un paese dovrebbe esser quella di tenersi al passo con tali cambiamenti e tali evoluzioni.

Altro punto. Data l’ovvietà della necessità di un’estensione degli stessi diritti a ogni coppia di fatto (prendendo atto, tra l’altro, di essere in questo, uno dei fanalini di coda in Europa e nel mondo), in questo dibattito non si è però mai messa in questione la radice di tutti i mali, ovvero l’eteronormatività, sia da parte di coloro che attaccano la legge sia da parte di coloro che la difendono. Scrive Federico Zappino in un ottimo e approfondito articolo relativo alla teoria del genere, comparso l’anno scorso sulla rivista online “Lavoro culturale” (www.lavoroculturale.org):

al posto di questo impossibile soggetto del discorso [la teoria del gender] si fanno avanti — solidi, reali e così beneducati e ripuliti da far dimenticare l’infamia delle origini nell’attivismo femminista e omosessuale degli anni Sessanta e Settanta — «studi scientifici di genere, meglio noti come Gender Studies che, insieme ai Gay and Lesbian Studies, hanno contribuito in modo significativo alla conoscenza di tematiche di grande rilievo per molti campi disciplinari». Lo afferma, a nome dell’internazionale dei professionisti della salute mentale, l’Associazione Italiana di Psicologia che, anziché interrogarsi sulle ragioni e sugli effetti di questo possente meccanismo di difesa, ritiene decisamente più «opportuno intervenire per rasserenare il dibattito» e per chiarire «l’inconsistenza scientifica del concetto di ‘ideologia di gender’".

Lo hanno ripetuto sulle colonne dei maggiori quotidiani nazionali, sulle testate online e su blog di varia natura filosofi e sociologi “progressisti” e “opinionisti” di “chiara fama” – così chiara da irradiare sull’opinione pubblica i lumi di una “verità” incapace di affermarsi senza dissimulare il proprio coinvolgimento con le procedure di selezione e di controllo che legano l’ordine del discorso alla materialità del potere. Ci hanno creduto quanti, codificando con una rigidità davvero inattesa la dissociazione tra le forme della violenza omofobica e di genere e le istituzioni sociali dell’eteronormatività, ritengono di potersi liberare delle prime lasciando rispettosamente intatto il privilegio di cui beneficiano le seconde” [da “La volontà di negare. La teoria del genere e il panico eterosessuale” di Federico Zappino].

Judith Butler, con la sua teoria di genere, ha criticato radicalmente la “presunzione di eterosessualità” che impone una norma sessuale – quella che cioè associa una costante biologica (quella della riproduzione) a una legge morale e dunque culturale: Dire “è un maschio” o è “una femmina”, non significa soltanto definire il sesso “naturale” del/la nuovo/a nato/a ma anche porlo/a già in partenza in un genere maschile o femminile decretato dalla cultura. Genere che il soggetto eredita come un destino ineluttabile di cui si appropria immediatamente costruendo un’immagine del sé fortemente legata a questo modello eteronormativo. La norma eterosessuale è interiorizzata quasi subito e anche chi si pone al di fuori di questa norma di fatto la tiene in considerazione, è pur sempre rispetto ad essa che compie la sua “ribellione”. Ci si può non conformare a questa norma ma di fatto implicitamente la teniamo presente e ne sanciamo l’esistenza anche nel nostro non adeguarvisi. In un certo modo la norma agisce doppiamente, sia nell’uno che nell’altro caso: se nel primo caso l’eteronormatività determina un processo di conformazione e normalizzazione, nell’altro la norma agisce comunque nel separare (e auto-separare) quel soggetto rispetto a se stessa, facendolo risultare così un soggetto “a-normato”, fuori dalla norma che comunque essa definisce, pur definendolo contro se stessa.

Occorre riappropriarsi di una teoria del genere in maniera contrapposta rispetto al significato che al termine gender venne applicato in ambito cattolico (negli anni 2000) per contrapporsi agli studi di genere, nei quali la Chiesa scorgeva un pericoloso tentativo di sovversione e distruzione della famiglia basata su un presunto ordine naturale. Negare l’esistenza, però di altri significati di teoria del genere vanifica tutti gli sforzi e gli studi di coloro che “credono nel potenziale trasformativo dell’assunzione politica dello stigma e della sua riammissione nell’ordine del discorso, come uno dei presupposti che apre lo spazio di ogni critica e di ogni risignificazione. […]” Una teoria del genere come quella di Judith Butler va ben oltre un discorso di rispetto e eguaglianza di diritti, in quanto essa mira a decostruire – o comunque a minare fortemente – “il fondamento dell’ordine simbolico e sociale etero normativo, ossia la produzione di dei soggetti in generi distinti, complementari, coercitivi e oppressivi. Questa teoria è lo strumento che varie soggettività, implicate in forme complesse di oppressione, di inintelligibilità, di naturalizzazione e di inesistenza sociale, hanno accolto come valida […] come strumento per destabilizzare i meccanismi di quel <potere> ch produce tanto gli stereotipi quanto i loro contrari. Quel potere è l’ordine simbolico e sociale etero normativo, con tutto il suo corollario di sessismo, razzismo, di classismo, di validismo […]. La teoria del gender mette in discussione le sue pretese e le sue strutture, e ambisce alla loro sovversione” [Federico Zappino].

L’eteronormatività è puramente il frutto di un’operazione sociale e non naturale. Rifacendosi molto alle analisi di Foucault, Butler giudica la sessualità un dispositivo di potere. In Foucault il dispositivo di potere, oltre ad essere un enunciato, “un discorso di verità”, dà vita a quelle che il filosofo chiama “tecnologie del sé”: queste ultime indicano il complesso di strategie che permettono agli individui di arrivare a una trasformazione soggettiva che non delinea però un’individualità personale, bensì conducono alla realizzazione di uno stato soggettivo, caratterizzato, a seconda del contesto e del periodo storici, da bontà, razionalità, saggezza, perfezione.. Sono dunque funzionali a una trasformazione del sé entro delle relazioni di potere e dei regimi di verità miranti al controllo, alla normazione, al dominio e all’assoggettamento dell’individuo. A partire dall’idea foucaultiana di potere come relazione, Butler parla di genere in termini di “performance”. La presunta naturalità della divisione binaria del genere non è che un effetto della performance della norma eterosessuale del genere: “la differenza di genere deriva non da un’elaborazione culturale delle differenze corporee ma da una matrice di potere che Butler, seguendo Adrienne Rich, chiama «eterosessualità obbligatoria»” (da “L’estasi dell’alterità. La teoria del riconoscimento di Judith Butler” di Lorenzo Bernini).

Il corpo dunque non esiste che sotto un pesante dominio. Attraverso questa sorta di regime, questa messa in atto di un sistema di domino e di potere, si pongono delle gerarchie di genere, presentate nella sola versione dicotomica (maschio-femmina) e giustificate sulla base di differenze ritenute naturali. Per Butler il genere sessuale non si riduce all’anatomia binaria, bensì esso è plurale, incerto, variabile addirittura e polimorfo. Ed è profondamente riduttivo inglobare le infinite sfumature della sessualità e dei generi umani nella sola dicotomia maschile-femminile. In tal senso il termine queer sembra il più adatto a render conto dell’infinita pluralità, varietà e fluidità dei soggetti. Il genere è qualcosa di fluido e sfumato e andrebbe dato libero corso a tale fluidità e a queste sfumature che rendono i confini del proprio genere e della propria sessualità molto sfrangiati, per far sì che l’individuo possa vivere un sano rapporto col proprio corpo e con la propria sessualità. Il problema è che l’eternomatività interviene fin dalla prima infanzia, a cominciare dai giochi, dai vestiti, dai colori, dai prodotti predisposti per le bambine da un lato e per i bambini dall’altro. Per questo è così facile interiorizzarla e di conseguenza più difficile affrontare l’eventuale percorso di messa in discussione di tale norma e di fuoriuscita rispetto ad essa. Perché fin da piccoli facciamo nostra l’idea che in quanto bambino devo amare i giochi da maschio e mettere i vestiti da maschio e da grande, avere un rapporto con una donna, e viceversa, al contrario per le bambine. Non conformarsi al dettame di questo dispositivo (che agisce persino nel linguaggio) che controlla il genere e lo sviluppo sessuale (e umano) può portare anche a una disintegrazione della persona che non sentendosi riconosciuto (non ti riconosco in quanto fuori dalla norma o ti riconosco come diverso) come soggetto, rischia di disconoscersi lei stessa. Per Butler si tratta allora di ripensare il genere partendo dalla sua “performatività discorsiva” e dunque considerarlo come un effetto del discorso, un enunciato di potere, seguendo qui le analisi di Austin e Searle. Detto in grandissime linee, per il primo la performatività è una teoria linguistica: attraverso alcune sentenze/frasi – chiamate appunto “performativi” – io creo una realtà, pronunciando certe frasi io agisco in quanto creo uno stato di cose che non esisteva prima della pronunciazione della mia sentenza (ad esempio: “la seduta è aperta”); per il secondo ogni costruzione delle realtà sociali, ogni cosa che esiste in quanto istituzione o appunto costrutto sociale, è frutto di una pratica performativa. È però a partire da tale performatività del discorso di potere che per Butler può risultare possibile un “contro-discorso” di verità. Il genere, in quanto costruzione sociale deve essere pensato come una pratica discorsiva fluida, in divenire. Riconoscere l’intima indeterminatezza e instabilità del genere come categoria epistemologica, permetterebbe di ripensare i soggetti a partire da una sessualità non più disciplinata dal genere normativo. Al contempo significherebbe rendere conto dell’indeterminatezza e della fluidità metamorfica e sempre in divenire della stessa esistenza umana, troppo immensa e variegata per poter essere imprigionata e regolamentata entro delle norme, le quali a loro volta risultano sempre troppo strette per poter racchiudere la meravigliosa particolarità di ogni individuo e di ogni relazione umana, sessuale e affettiva.

"Si tende a credere che la definizione del sesso biologico sia autoevidente; in realtà, sappiamo che è sempre stata al centro di numerose controversie all’interno del dibattito scientifico. In molti mi domandano se io ammetta o no l’esistenza del sesso biologico. Implicitamente, è come se mi stessero dicendo: «bisognerebbe essere pazzi per dire che non esiste!"

E in effetti è vero, il sesso biologico esiste, eccome. Non è né una finzione, né una menzogna, né un’illusione. Ciò che rispondo, più semplicemente, è che la sua definizione necessita di un linguaggio e di un quadro di comprensione – esattamente come tutte le cose che possono essere contestate, in linea di principio, e che infatti lo sono. Noi non intratteniamo mai una relazione immediata, trasparente, innegabile con il sesso biologico. Ci appelliamo invece sempre a determinati ordini discorsivi, ed è proprio questo aspetto che mi interessa. (Judith Butler in un’intervista apparsa su “Le nouvel observateur” il 15 dicembre 2013, tradotta da Federico Zappino).

Ultima modifica il Domenica, 14 Febbraio 2016 16:25
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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