“Si tratta di una professione dura, difficilmente sostenibile se la si affronta malvolentieri, a partire dagli orari: i turni sono di 10 ore lavorative, seguite da 14 ore di riposo, o di 8 ore di lavoro seguite da 18 di riposo se si tocca la fascia oraria che va dalla mezzanotte alle 5 di mattino”. La turnazione consente “un certo grado di libertà”, “non è scomodo avere qualche mattina libera per poter trovare gli uffici pubblici aperti”, ma produce danni in termini di logoramento dello stato di salute: si costringe il corpo a un “riposo forzato” e ritmi irregolari (“bisogna costringersi a dormire quando non si ha sonno, e imparare a gestire la stanchezza”).
Quello del macchinista è un lavoro usurante, che produce un invecchiamento precoce e conseguenze anche fisiche. La storica rivista di categoria In Marcia, attiva dal 1908, ha pubblicato nel corso dei decenni diversi studi sul tema, dall’invecchiamento precoce allo stress correlato, dimostrando un grado di consapevolezza delle proprie specificità di mestiere estremamente avanzato.
Dal tema della salute e dei turni, il discorso passa quasi automaticamente all’”introduzione di un nuovo sistema di sicurezza su alcuni treni”, attraverso il quale si è arrivati ad eliminare il secondo macchinista sulla locomotiva: l’unico macchinista rimasto si ritrova quindi solo per intere giornate”. Il problema dell’assenza di compagnia nella pause pranzi o quando si dorme fuori casa si potrebbe risolvere facilmente “sincronizzando i turni del macchinisti con quelli del capotreno”. Di meno facile soluzione è il rischio per la sicurezza di passeggeri e personale: per quanto sicuro possa essere affidabile il sistema di sicurezza “4 occhi sono sempre e comunque meglio di 2” ed esiste un problema di “carico di responsabilità eccessivo per un’unica persona”. Nel corso degli ultimi anni, inoltre, è mutato profondamente il rapporto tra macchinista e aiutomacchinista, fino alla scomparsa di quest’ultima figura, con appunto l’eliminazione di tale figura a bordo della locomotiva. La categoria era organizzata “in modo quasi militare”, dove un ruolo fondamentale lo giocava “l’esperienza maturata nel corso degli anni di lavoro”. Il venire meno di questa professionalità, con un progressivo assopimento causato da un presunto senso di sicurezza, ha comportato anche un mutamento dei rapporti all’interno del luogo di lavori: “la qualità della precisione è oggi talvolta percepita come il difetto del pignolo”. Quello che emerge è il timore dei macchinisti di vedere una deprofessionalizzazione del proprio mestiere, legata al rischio di deterioramento dello stesso sistema di sicurezza: non senza orgoglio i meno giovani rivendicano i minori incidenti di quando esisteva maggiore autonomia da parte dei lavoratori rispetto all’azienda: la privatizzazione produce un effetto di minore responsabilità sociale percepita da parte dei dipendenti, aggiungiamo noi.
Rimanendo sul fronte della sicurezza si passa ai mezzi: “la produzione delle locomotive è oggi affidata a ditte slegate dalle Ferrovie dello Stato”, con conseguenze negative per la manutenzione. “Non ci si deve dimenticare che il macchinista è anche il meccanico del treno”: con un sistema di internalizzazione dei lavori e prevedendo un restauro con anche lavori di miglioria, anziché rottamare tonnellate di tecnologia, l’azienda si potrebbe permettere l’acquisto di un minor numero di carrozze.
La discussione si ferma per qualche minuto, prima di affrontare il tema del contratto. La pausa caffè si fa obbligatoria. E qui chiudiamo questo primo articolo.
Immagine tratta da www.flickriver.com