Parla di me non come bullo, ma come studente di origine working class – categoria che ad oggi ha sostituito il proletariato degli anni ’50-’60, pur essendovi largamente sovrapponibile a livello di status economico, se pure, spesso, culturalmente più elevata. Faccio parte, quindi, di quelle persone che, per “ceto sociale di provenienza”, come dice lei, dovrebbero essere particolarmente propense alla maleducazione, all’assenza di controllo su gesti e parole, al disprezzo per le regole. In molti in questi giorni hanno risposto al suo corsivo singolarmente classista, affermando che le loro origini proletarie non hanno rappresentato un necessario impedimento allo sviluppo di maniere urbane, rispetto delle regole, e nel complesso una socialità appropriata per il contesto in cui vivono. Questa osservazione è talmente ovvia da non meritare nemmeno di essere ripetuta, e non è particolarmente interessante. Quel che invece vorrei discutere è il ruolo di setaccio sociale svolto dalla scuola nel corso degli anni – e in particolare negli ultimi vent’anni, che sono il periodo che ci interessa – e il significato di tale ruolo nello sfacelo educativo di cui improvvisamente ci stiamo rendendo conto, tra alunni bulli, genitori bulli e professori privi di autorità pizzicati tra i due.
Ho frequentato la maggior parte delle scuole in una piccola città universitaria. La prima scrematura sociale è avvenuta nella scuola media, dove gli alunni di origine working class venivano sistematicamente dirottati sugli istituti professionali, a meno che le capacità intellettuali e la preparazione scolastica dimostrate non rendessero la cosa proprio scandalosa. Chi si è impuntato, certamente, ha potuto frequentare un liceo, trovandosi di fronte un ambiente dominato da una borghesia universitaria assolutamente chiusa e autoreferenziale, che vedeva l’arrivo di studenti working class non come l’afflusso di forze e idee nuove, ma come un tentativo di infiltrare un sistema rodato e in grado di bastare a se stesso. Quando succedeva qualcosa di inappropriato per le regole della scuola e noi studenti working class eravamo anche lontanamente coinvolti, subito ne diventavamo i perfetti capri espiatori – i figli degli Stimati Professionisti non sono mai stati toccati, non sono stati richiamati alle loro responsabilità. Quando avevamo un paio di insufficienze in pagella scattava automatica la bocciatura – i figli degli Stimati Professionisti avevano apparentemente diritto a innumerevoli tentativi di recupero. Tutta una serie di attività più o meno extracurricolari che per gli Stimati Professionisti erano ovvie, nemmeno da mettere in discussione, ad esempio le settimane bianche, per le nostre famiglie rappresentavano un sacrificio, qualcosa da considerare attentamente e che sicuramente precludeva l’acquisto di nuovi vestiti, o di nuovi libri; e non è nemmeno detto che volessimo farle, ma non prendervi parte, non adattarsi alla proposta culturale egemone rappresentava l’equivalente di una domanda di esclusione in carta bollata.
La scuola ha cercato in ogni modo di estrometterci e di marginalizzarci in nome del nostro ceto sociale. Per rimanere, per avere accesso ad un’istruzione che sarebbe stata un nostro diritto, abbiamo dovuto essere impeccabili con gli altri e con noi stessi, non sgarrare nemmeno una volta – mentre nel frattempo i figli degli Stimati Professionisti si permettevano con la più assoluta tranquillità sistematiche mancanze di rispetto e violazioni delle regole che ci avrebbero portati ad un’immediata espulsione. Il motivo principale per cui i nostri docenti tolleravano e fingevano di non vedere spaccio di droghe leggere, fumo in bagno, atti di bullismo e di persecuzione sociale era semplice: non appena avessero osato alzare la voce, si sarebbero trovati sulla porta della presidenza un Leinonsachisonoio imbizzarrito perché si era osato criticare il prezioso frutto dei suoi lombi.
Il bullismo è una brutta bestia e una vecchia bestia – interi sistemi educativi ci si sono sistematicamente basati; ma questo bullismo di nuova generazione, rivolto non solo verso il pari più debole, ma anche verso l’educatore, con una manovra a tenaglia tra genitori e figli, è qualcosa di inedito, e viene proprio dall’acquiescenza dei professori verso l’esclusione sociale, dalla calibrazione delle regole e della tolleranza a seconda della classe sociale – dal classismo scolastico. Il bullismo di cui stiamo parlando non è il figlio malato di tensioni sociali del ceto oppresso: è il figlio sano, sanissimo, di una classe egemone che ribadisce il proprio potere. Con il che ovviamente non sto dicendo che non esistano i bulli proletari, il cui bullismo, come spesso sentiamo dire, deriva da un disagio sociale. Esistono eccome e non sono per niente delle belle persone, perché un sacco di gente ha avuto gli stessi disagi senza bullizzare nessuno. Ma costoro, per citare un grande contemporaneo, sono tendenzialmente servili con i pettoruti, maneschi con gli inermi. Difficilmente ho visto un bullo proletario prendersela con un ragazzino di un ceto sociale più alto – figuriamoci con un professore: secondo la regola della catena delle oppressioni, se la prenderà con qualcuno come lui, messo pure un pochino peggio. Anche la maleducazione, il disprezzo delle regole possono emergere da questo tipo di disagio sociale – ma sottendono la sensazione, peraltro il più delle volte assolutamente fondata, di essere stati abbandonati e marginalizzati da un intero sistema educativo, e non devono essere confusi con l’assoluta assenza di limiti tipica della classe egemone.
La classe proletaria è stata storicamente oggetto di una sistematica ambiguità educativa, da cui apparentemente anche il suo corsivo non è esente. Mentre da un lato si è introdotta un’istruzione dell’obbligo, che avrebbe avuto il lodevolissimo obiettivo di dare a tutti pari opportunità, dall’altro si è coltivata una sistematica confusione tra educazione ed istruzione, trasmettendo l’idea che la cosa fondamentale affinché i ceti bassi ottenessero un minimo di integrazione era l’educazione, l’istruzione era uno scomodo peso, the bourgeoisie’s burden. Mia nonna racconta ancora con giustificatissimo rancore di come la sua famiglia si vantasse della propria educazione e dignità mangiando minestre fatte con le primule, mentre per due lire si sottoponeva ai capricci di gente che mangiava la carne ogni giorno. L’idea coltivata da almeno novant’anni di istruzione pubblica è di trasformare il proletariato in una schiera di acquiescenti Garrone, grossi, buoni e un po’ tonti; che siano essi stessi a risparmiare alla borghesia lo sforzo di schiacciare i Franti, critici e talora distruttivi, come acutamente suggerisce Umberto Eco in un suo celeberrimo saggio (qui). Questo non tanto affinché l’operaio non avesse il figlio dottore, ma perché il dottore non può accettare in alcun modo di avere un figlio operaio – la mobilità sociale funziona in ambo i sensi, e le scalate in solitaria non cambiano in alcun modo il fatto che detta mobilità sociale, soprattutto nella borghesia intellettuale, è virtualmente nulla e mantenuta tale da una scuola che, più che educatore del popolo, si è fatta mastino della borghesia.
In questo contesto in cui l’educazione – intesa come adesione a regole civili, ma anche come sistema di istruzione – è utilizzata sistematicamente per livellare qualsiasi tentativo di riscatto sociale, suggerire che il bullismo è tutta colpa dei proletari, ma poverini, è solo perché sono frustrati, basta spiegargli dove sbagliano e miglioreranno, non sono cattivi, in breve, il contenuto del suo corsivo, dottor Serra, risulta offensivo in maniera quasi infame. Noi non abbiamo bisogno di essere salvati, non abbiamo bisogno di essere guidati: abbiamo bisogno che non ci siano messi i bastoni fra le ruote, che non ci siano sistematicamente preferite le persone che vengono dall’ambiente giusto. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è che ci sia realmente garantito quel diritto all’istruzione di cui all’articolo 34 della nostra Costituzione.
Cordialmente,
Joachim Antonio Langeneck
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